“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Fumo negli occhi - Vietnam



Ancora frastornata dal rombo dell’aereo, lascio vagare il mio sguardo vacuo in quel misto di figure grottesche, enormi, incombenti, senza riuscire a comprendere il significato intrinseco che forse possiedono.



Catapultati da Milano ad Hong Kong e poi ancora da lì a Saigon, il caldo asfissiante carico di umidità ci investe già dall’aeroporto, spossandoci molto più di quanto ormai siamo dopo quasi 12 ore di volo. Ma non possiamo riposare, altrimenti vorrebbe dire sfasarsi per altri giorni, portandosi appresso il jet lag, e trascinarci in questa città sconosciuta come fantasmi. 

La decisione è presa: cominciamo dalle pagode a visitare la città, quelle più lontane, così nei giorni successivi ci possiamo godere l’intera città senza dover schizzare troppo velocemente da un polo all’altro dei suoi 22 distretti!



Sono sempre atterrita dinanzi a ciò che non conosco, e queste figure gigantesche non mi ispirano proprio serenità, ma piuttosto confusione, smarrimento, incomprensione. 


Un ambiente colmo di fumo rende l’aria pungente, annebbiata, sfocata, e quell’insieme di legno scuro, caratteri sconosciuti sulle colonne e sulle porte, ceramiche dai tratti indistinguibili, statuette di dei, lasciano cadere ogni sorta di razionalità: bastoncini infilzati nella cenere o tenacemente congiunti nelle mani dei devoti distribuiscono profumi penetranti saturando l’aria; le candele, oltre all’offuscata luce artificiale, espandono solo poca illuminazione, lasciando nell’oscurità inquietante quelle figure mastodontiche.


Terra Rossa - Vietnam

Dieci anni ha impiegato a scrivere il suo “Dispacci”, Michael Herr; quaranta ne ha impiegati Karl Marlantes a pubblicare il suo “Matterhorn”; e altri dieci ne ha impiegati Nick Turse a ricucire gli orrori delle stragi di guerra nel suo libro “Così era il Vietnam”: non sono riuscita a finirlo, ci vuole tutto il fegato e il coraggio per essere indifferenti anche a situazioni non vissute, prerogative che attualmente non ho.
Ha le pagine gialle e consunte il “Niente e così sia” di Oriana Fallaci, riesumato dai miei anni giovanili in cui timidamente mi volgevo alle donne e a una guerra sconosciuta; Anna Moi canta nel suo “L’eco delle risaie”: <<La maestra di canto mi ha detto: ‘Cantare non è una questione di voce, ma di respiro’. Ho respirato con forza ed è sgorgato il do acuto. Una porta si è spalancata all’improvviso e mi ha scagliata dal trampolino di dieci metri nel vuoto, nel terrore, nello stupore, nella vertigine, nella libertà.>>


Scrive Roberto Saviano nella sua introduzione a ‘Dispacci’: “Herr trascina il lettore in guerra. Ma per davvero. Non gli restituisce solo le immagini, ma i comportamenti. Il lettore non sente solo il puzzo del sangue e del napalm, ma sente lui stesso la rabbia e la paura, sente come sarebbe stato feroce, sente come è l'uomo quando per sopravvivere deve smettere di essere uomo.


E’ difficile descrivere una guerra, capirne le radici, spiegarne le strategie, analizzarne la Storia, denunciarne gli orrori, comprenderne il significato.
Mi sono trovata mio malgrado in questo labirinto di incertezza, cosa ci andavo a fare in Vietnam? La risposta più semplice poteva essere: “io viaggio regolarmente, e non sono mai stata ad Est, dicono tutti che è bello”. Ma in cuor mio sapevo dell’enorme menzogna dei miei pensieri consci: forse ci sono andata per capire, per vedere con i miei occhi solo un barlume di ciò che è stato, visitare solo il contesto in cui è avvenuto il girotondo dei numeri, dei vivi, dei morti, dei mutilati, dei vincitori, degli sconfitti, del giusto e dell’ingiusto, della paura e della razionalità, dell’orrore e della speranza, della rassegnazione e della crescita.




Qualunque sia stato il motivo inconscio, la parola Vietnam rievoca la Guerra, con la G maiuscola, quella che non sarà dimenticata, perchè sebbene non più presente, raccoglie il vuoto di generazioni che non ci sono più e non ci potranno essere, e quella che resta è mutilata, dilaniata nel fisico e nella psiche, nella memoria e nella coscienza.

Se si vuole dimenticare, lì non si può: i siti storici oggi sono musei a cielo aperto, lo stesso tragitto di orrore e violenza esiste ancora, silenzioso, nascosto oltre la vegetazione, muto nella crescita, celante la presenza di migliaia di uomini e pensieri, sensazioni, coscienze, vite. Ogni parola scritta sulla G vorrebbe essere infinita, come senza fine è stata la sofferenza, la tristezza, il dolore, la rinascita.