“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Solidarietà

Il quinto ramo: Urla e tremori della Terra 
I due Terremoti:  Irpinia e L'Aquila


Irpinia Ieri - Salviamo la memoria           

23 Novembre 1980    (di Zinzi Giovanni Battista)
I 5 sensi del lungo istante- Prima e dopo     (di Anna)
I sepolti e i salvati    (di Antonello Caporale)


Irpinia Ieri – Storia e memoria           

Terremotoirpinia - 23 novembre 1980. Storia e memoria   (di Stefano Ventura)


Irpinia Ieri - Interpelliamo la memoria

 Ricordi spezzati    (di Anna, Volontaria in Irpinia -Torella dei Lombardi nel 1980)

Irpinia Ieri - Gli angeli del terremoto  (dal Ventennale del Comune di Lioni - di Rodolfo Salzarulo)

Irpinia Ieri - Il terremoto infinito

Il terremoto dell’ Irpinia     (foto e testo di Carlo Alfani)
23 Novembre 1980, un brivido lungo 90 secondi    (foto e testo di Carlo Alfani)




L’Aquila Oggi - 6 Aprile 2009   (di Anna,  Volontaria a L’Aquila - Campo di Sassa Scalo,  4-14 Agosto 2009)
        
Sussurri
Il silenzio della città viva
All’ombra dell’alzabandiera
Volti
Volontari





Irpinia Ieri – Salviamo la memoria



23 novembre 1980

Ho visto cadere pietre di tufo
Polvere alzarsi come del fumo
Gente scappare l’ho sentita gridare

Tutto è accaduto
In pochi istanti …

Sono passati giorni da quel 23 Novembre
Davanti ai miei occhi ancora
Lacrime di gente.

Ho visto cadere persone a Me care
Di quel segno di croce solo
Un ricordo

La verde Irpinia è ormai sconvolta
Gente in panico oramai intimorita
Come dei morti stan lì per la via.

Ora mi trovo in una piccola
Stanza oscura e quello che
Posso dire non è
Casa mia

Neanche una finestra per
Vedere i platani vecchi
Alberi della mia
Infanzia

Vorrei scrivere e scrivere
Ancora ma quel che sento
Non potrei mai dire.

E’ la nostra vita è un
Destino guarderò
In alto ci sarà un Dio?

Zinzi Giovanni Battista
N. 28.05.53 -  M. 4.12.91


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I 5 SENSI DEL LUNGO ISTANTE                             Anna, Volontaria in Irpinia nel 1980

Prima e dopo

Prima non vedevo, e subito dopo ho dovuto guardare lo strazio coi miei occhi,
Prima non sentivo, e subito dopo ho dovuto ascoltare mille disperate voci,
Prima non sfioravo, e subito dopo ho dovuto toccare con mano le rovine,
Prima non assaporavo, e subito dopo ho dovuto deglutire l’angoscia,
Prima non percepivo, e subito dopo ho dovuto soffocare l’odore della morte.

Prima del vento ... e subito dopo, la polvere
Prima del boato ... e subito dopo, l’urlo
Prima del crollo ... e subito dopo, il pianto
Prima dello schianto ... e subito dopo, la disperazione
Prima……... e subito dopo, il nulla delle macerie

Prima Loro c’erano, e subito dopo non c’erano più,
Prima esisteva una vita, e subito dopo ne sono scomparse tante,
Prima c’erano i sogni, e subito dopo una cruda realtà,
Prima c’era l’infinito, e subito dopo un muro di confine,

Prima ero incosciente, e subito dopo ho dovuto essere troppo consapevole,
Prima non ero con Loro, e subito dopo ci sono voluta essere,

Prima ero sola, e subito dopo siamo diventati tanti

Prima non avevo memoria, oggi voglio tener vivo il ricordo




I SEPOLTI E I SALVATI
(di Antonello Caporale, La Repubblica)

‘La sera del 23 novembre del 1980 una lunghissima scossa della durata di un minuto e venti secondi, di magnitudo 6,8 della scala Richter, rase al suolo 36 paesi situati al confine tra la Campania e la Basilicata. 2735 furono i morti, 8850 i feriti.

Il disastro naturale fu di proporzioni gigantesche: il paesaggio aspro e bellissimo dell'Irpinia venne sfregiato dagli scuotimenti, ripetuti e dolorosi, della terra. Case inghiottite, viadotti spezzati, frane dappertutto.

L'Italia si mosse come mai è capitato nella storia della Repubblica.’

LA STORIA SIAMO NOI  (puntata RAI- 
in 'cerca' digita: Isepolti e i salvati)



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Irpinia Ieri – Storia e memoria


TERREMOTOIRPINIA
23 NOVEMBRE 1980. STORIA E MEMORIA
(di Stefano Ventura da terremotoirpinia.ilcannocchiale.it    )

‘Domenica 23 novembre 1980, ore 19 e 34. Un terremoto di fortissima intensità (10° grado scala Mercalli) colpisce una vasta regione dell’Italia Meridionale, al confine tra la Campania e la Basilicata, e viene avvertito praticamente in tutto il Sud Italia, da Roma in giù. I morti saranno 2914, i feriti 8800 e 275mila i senzatetto.
Questa è la versione fredda che del terremoto dell’ Irpinia (o meglio di Campania e Basilicata) si può trovare negli annali.

Ma per raccontare un evento tragico e devastante non bastano cifre, cronologie o citazioni.

Bisogna interpellare la memoria.

Anche se la memoria è una fonte storica imperfetta, da soppesare attentamente, da verificare più e più volte. Tuttavia, il racconto di un evento tragico, di una sofferenza estrema ha un valore diverso in quanto a testimonianza. Basti pensare all’uso dei racconti orali per cercare di narrare gli orrori della Shoah, delle violenze di massa, dei bombardamenti.

Per questo, interrogare la memoria, collettiva ed individuale, per raccontare il terremoto, la nostra tragedia, può essere un’operazione culturale di grande valore.

Per far emergere le visioni del mondo, il senso che la gente ha dato alle cose, le sue spiegazioni.

Per far emergere, senza fronzoli e dietrologie, il dolore rimosso.’


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Irpinia Ieri – Interpelliamo la memoria         (di Anna)


Anno di morte fu il 1980, a cominciare da quella di Pietro Nenni.



Fu l’impazzare del terrorismo, con la tragica fine del Professor Bachelet, tre agenti di pubblica sicurezza a Milano, un Procuratore a Salerno, un commissario dell’antiterrorismo a Mestre, il giornalista Walter Tobagi, un sostituto Procuratore a Roma, un altro tipografo ucciso per sbaglio, un direttore d’industria, un sequestro di persona, culminando con la strage della Stazione di Bologna: era il 2 Agosto. I morti furono 85, i feriti oltre 200.

Fu l’anno della pazzia di mafia, che uccise il presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella; a proseguire un Capitano dei Carabinieri, un procuratore capo a Palermo.

Fu l’anno degli accordi tra i lavoratori delle grandi industrie europee e i loro governi.

Fu l’anno della fine del compromesso storico, e della sconfitta del sindacato ad opera dei “colletti bianchi” della Fiat, l’inizio delle collaborazioni con la giustizia da parte di  terroristi, ci fu la caduta del governo.

Fu l’anno di avvio del conflitto Iran-Iraq e l’anno di Ronald Reagan eletto Presidente degli Stati Uniti.
Fu l’anno della tragedia e mistero di Ustica, con i suoi 81 morti ed infiniti dubbi.

Ma fu soprattutto l’anno della più grande catastrofe del Sud Italia: in uno scenario di distruzione furono rasi al suolo decine di paesi della Campania e Basilicata. 2914 i morti, più di 8800 i feriti, centinaia di migliaia senza tetto.

Tutto in 90 secondi.



RICORDI SPEZZATI             


31 luglio 2010.

Oggi ho pianto, guardando le immagini di un passato mai morto, ascoltando le voci mai silenti di chi non c’è più, combattendo i ricordi che piano piano affiorano come lava sull’orlo del cratere prima della sua grande esplosione, prima che tutto venga coperto di polvere e cenere, prima che il tempo si trasformi in dopo.

E il dopo è un attimo, infiniti 90 secondi che annientano il respiro, soffocano i polmoni, esplodono il cuore, crollano sulla vita seppellendo anche la morte.

Nulla rimane del prima, se non la certezza di essere vivo per chi è rimasto, e di non avere più i propri cari nel dopo della scomparsa.
Qualcuno ha spento la luce.

Il buio ha inghiottito migliaia di vite, il flebile chiarore riapparso ha mostrato dolore e tragedia, disperazione e morte, angoscia e strazio.


23 novembre 1980.

Ed eccoli i ricordi, mai soffocati, galleggianti da quel 23 novembre in cui la televisione ha scricchiolato, facendoci mettere sotto lo stipite della porta, consuetudine ormai familiare per i frequenti tremolii dei Castelli Romani.

Ma ben presto prorompe vera la sconvolgente notizia: la terra ha camminato in superficie per centinaia di chilometri a far emergere le sue ferite profonde 30, ha ruggito con mille boati nel cratere più a sud della nostra nazione, ha urlato la sua rabbia soffiando violentemente catastrofe, lanciando a  tutto il mondo un monito per la solidarietà umana.

Prima una, poi alcune decine, forse centinaia, ed infine migliaia saranno le voci spezzate in quel folle, lento, ma inesorabile giro e mezzo di lancette; impossibile contarle tutte, urla di morte scoppiate all’unisono con chi lancia il grido liberatorio di essere in vita, chi si unisce al coro della disperazione, al fiume di lacrime e tormento dei sopravvissuti.

Notizie che si susseguono e si inseguono, uomini che si accusano, macerie che crollano, mani nude che scavano, emigranti che ritornano.

Non si può partire da soli, si aspetta un’organizzazione che tarda; <Anna non vai da nessuna parte!>, <Sono maggiorenne>  punto i piedi.

E’ mercoledì. Mi ritrovo su un pullman dell’Acotral, scendiamo con il sindacato, ma in realtà c’è quasi metà dei miei familiari e tanti altri volti amici confusi; sono attonita, non vedo strada, non leggo paesi, non sento parole.

Siamo fermi. Un’enorme spaccatura della terra ci accompagna ormai da chilometri; più avanti un blocco militare, non si passa. Lunga deviazione nel silenzio, è notte quando arriviamo in quelle luci spettrali di colore mortale, immobili, fulminate. L’accampamento è lì, al campo sportivo, tra fango e erba, fila indefinita di tende incolori.

E’ giorno. Non ricordo di avere dormito, non ricordo dove ho dormito, so che ho indosso una tutina jeans che non toglierò per troppi giorni, insieme al mio fedele cappello che mi farà dolorose vertigini in testa, ma che non sarà nulla a confronto dello strazio umano che presto vivrò. Tende, militari, fango, poi neve, freddo, congelamenti. Disperata tiro violenti calci ad una piattaforma di cemento senza sentire alcun dolore; in infermeria ci vorranno due ore per riattivarmi quel sangue agghiacciato dalla catastrofe e dallo sgomento.

Tutto intorno a me corre veloce, laddove il tempo si è fermato, nomi indistinti, vanno e vengono, tanti, troppi per ricordarli tutti.

Si parla di 33 morti, alla fine saranno 28 a Torella, già tutti seppelliti. Gli abitanti del paese si aggirano come anime perse in un baratro chiuso, bloccato dalle rovine delle macerie e dal continuo pericolo dei crolli. Le voci che giungono sono inenarrabili: si scava ancora nelle macerie a Lioni e S. Angelo, sembra che quest’ultimo paese sia stato chiuso, notizie vaganti come ombre, a rincorrere fantasmi.

Per me le giornate sono tutte come fosse il crepuscolo, quella luce scarna che non identifica volti e lacrime, ma solo una grande dignità nel dolore. Non ricordo la luce del sole, eppure ci sarà stato; mi ritrovo con il fango che attanaglia le gambe, il freddo che spezza il fiato, ed infine la neve che ci fa calare in un mondo ovattato.

Un camion di bare: <non qui, andate a Lioni, che ne hanno bisogno”>;
<c’è un TIR di latte dalla Germania, dove lo mettiamo?>
< Riunione tra cinque minuti sotto la tenda.>

Fogli, carte, nomi, l’assessore alla cultura, Vincenzo, Ruben.

<Sono arrivati gli stivali, iniziamo la distribuzione?>, <no, vanno divisi i capi nuovi, organizziamo il magazzino; c’è troppa roba va separata> <che ci facciamo con un TIR di pannolini? La carta igienica? Ma abbiamo una lista della popolazione?> parole che si inseguono nei singoli minuti di queste eterne giornate, che passano troppo in fretta per chi cerca ancora tra le macerie un vitale filo di speranza.

Organizzazione confusa per dettare ordine in quel mare di ogni genere, alimentare, vestiario, medico, casalingo. Catena umana a dividere, separare, distribuire ogni regalo di solidarietà di coloro che non sono potuti intervenire, di chi ha scelto in altro modo la sua partecipazione al dolore collettivo.

Nelle campagne sconfinate, le case crollate sono tenute insieme da puntelli di fortuna:
< …un grande boato, come se fosse un gran tuono, e poi ho visto il lago alzarsi…. I cani hanno ululato tutto il giorno…. > il terrore nei racconti di chi è lontano da quell’impensabile e indelebile tragedia umana, inconsapevoli che nel largo cerchio di atroce crudeltà casuale sono stati loro i benedetti, gli sventurati miracolati.

I miei occhi si spalancano all’arrivo delle gru, pale meccaniche, trattori, e un immenso movimento di persone che crea per magia uno spazio per vivere: è l’aiuto dei gemellati che ci permetteranno costruendo un tendone da fiera di distrarci nei pochi momenti di spensieratezza.

C’è chi dorme nei vagoni del treno, chi in pullmann; e mi ritrovo in cucina con mio cognato e un militare che proprio cuoco non è, ma che non demorde a preparare ogni giorno pasti caldi per oltre 200 persone. Trent’anni dopo mi ritroverò nella stessa situazione, a dover affrontare gli occhi della tragedia negli occhi dei sopravvissuti che sfilano davanti a te tre volte al giorno, unico contatto umano e sentimentale con l’incommensurabile calamità. Inebetiti, storditi, emozionati, inconsapevoli dell’inaudita violenza naturale, che purtroppo si manifesterà di lì a pochi  giorni.

Lioni: eccola la rabbia polverizzata, mescolata al più grande silenzio che si conosca. Forse solo il boato dell’atomica può paragonarsi a quel vuoto spettrale. Case sventrate aspettano invano quotidiani gesti, quadri appesi partecipano denudati alla vita di strada, nella polvere, nei cumuli, negli ammassi intrecciati di pali ferrosi.

Si sfila per le strade vuote e diafane, lo sguardo commosso e sfuggente a quell’intimità violata, quell’appropriarsi involontario di vite altrui che lascia sgomenti. Le lacrime e la rabbia corrono verso chi non ha saputo rispondere subito, chi ha innalzato le polemiche per coprire le proprie responsabilità, chi ha lasciato che un popolo annientato si potesse sollevare solo con l’onda della solidarietà volontaria. Ma questa da sola non basta, e allora l’indignazione prosegue ancora più agguerrita nel lavoro di partecipazione quotidiano, come a voler ricostruire con la sola forza delle braccia quelle vite e paesi ormai sommersi dal dopo.

Non ricordo quanti giorni siamo stati, ci siamo ritornati, le giornate ed i volti si sono accavallati, i pensieri forse sono stati romanzati, forse era notte quando ho scritto giorno, forse era domani quel che è successo ieri. Ma questo non cancella le sensazioni vissute, quel doloroso senso di inettitudine di fronte ad una natura così forte, quel sentirsi piccolo in una così grande tragedia.

Non so cosa voglio ancora ricordare e cosa ricorderò e se è corretto ciò che ho ricordato.

So che non voglio dimenticare.



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Irpinia Ieri – Gli Angeli del Terremoto




“Ognuno potrà dire come fosse cominciato tutto, dal suo punto di osservazione. Oggi la memoria corre inevitabilmente a quei 241 lionesi che non hanno mai potuto riferire il proprio punto di vista: persero la vita in quella notte con altri 2500 negli altri Comuni dell'area terremotata.

Quella notte, per il resto d'Italia, Lioni taceva senza corrente elettrica e senza telefoni: parlò di questa comunità, con la voce del radioamatore IW8 BIX Gerardo Calabrese che, in un ponte radio che ebbe dell'assurdo, riuscì a comunicare al resto d'Italia quale tragedia si stesse consumando da queste parti. Le dimensioni di quel terremoto risulteranno incomprensibili per molte, lunghe ore.


Le luci del giorno dopo videro, prima con qualche cautela, poi con una progressiva e crescente frenesia di cui non si ricordava I'uguale, mettersi in moto una gigantesca macchina di solidarietà umana: una marea di uomini e mezzi che si andava raccogliendo in giro per l'Italia si cominciò a riversare in Irpinia e, in particolare, Lioni divenne un centro di volontariato che nelle sue prime battute fu spontaneo e fece riferimento ai comitati di quartiere, che i lionesi istituirono come strumento di autorganizzazione.

Si allertarono unità medico-ospedaliere e centri di varie associazioni di volontariato, gruppi di operai di fabbriche del Nord ed elettricisti, accanto a gruppi di cittadini isolati che venivano a portare le loro braccia e la loro professionalità al servizio di un'umanità colpita con durezza dall'evento.” (Prefazione di Rodolfo Salzarulo, in ‘Lioniventennale’)
        
Foto di Gerardo Garofalo;
Selezione di Angelo Garofalo

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Irpinia Ieri – Il Terremoto infinito


IL TERREMOTO DELL'IRPINIA               
Articoli e foto redatti da Carlo Alfani - da:salernoinprima.it
*PER LA CONSULTAZIONE DEL MATERIALE UTILIZZATO, SI RINGRAZIA LA BIBLIOTECA PROVINCIALE DI SALERNO

Viene definito terremoto dell'Irpinia il sisma che il 23 novembre 1980 colpì Campania e Basilicata. Il sisma si scatenò alle 19,34: la scossa, di magnitudo 6,9 sulla scala Richter, ebbe una durata interminabile, quasi 60 secondi. L’epicentro fu registrato nel comune di Conza della Campania (AV), l’ipocentro a circa 30 km di profondità. Molto vasta l’area colpita: dall’Irpinia al Vulture, a cavallo delle province di Avellino, Salerno e Potenza. Il sisma causò 2.914 morti, 8.848 feriti e circa 280.000 sfollati.
Tra i comuni più duramente colpiti spiccano Sant'Angelo e Torella dei Lombardi, Conza della Campania, Teora, Lioni, Laviano, Santomenna e molti altri paesi limitrofi. Gli effetti, tuttavia, si estesero ad una zona molto più vasta, andando ad interessare quasi tutto il Centro-Sud. Molte lesioni e crolli avvennero anche a Salerno e Napoli: l’episodio più grave a Poggioreale, dove crollò un palazzo in via Stadera, probabilmente a causa di difetti di costruzione, causando 52 morti. Crolli e devastazioni avvennero anche nel potentino, in particolare a Balvano, dove il crollo della chiesa di S. Maria Assunta causò la morte di 77 persone, di cui 66 bambini e adolescenti che stavano partecipando alla messa.
Dai sopralluoghi effettuati dall'Ufficio del Commissario Straordinario, risultò che dei 679 comuni che costituiscono le 8 provincie interessate globalmente dal sisma (le 5 campane, le 2 lucane e Foggia), 506 (pari al 74%) sono stati danneggiati. Le provincie che hanno subito maggiori danni sono state quelle di Avellino (103 comuni), Salerno (66) e Potenza (45). Trentasei comuni della fascia epicentrale hanno avuto circa 20.000 alloggi distrutti o irrecuperabili. In 244 comuni non epicentrali delle 8 provincie colpite, altri 50.000 alloggi hanno subito danni da gravissimi a medio-gravi. Altri 30.000 alloggi lo sono stati in maniera lieve.


23 NOVEMBRE 1980, UN BRIVIDO LUNGO 90 SECONDI

 È una domenica di fine novembre, sono le 19.34.


Per alcuni è l’ora della passeggiata, per altri del cinema o delle partite in tv, per altri ancora di una chiacchiera in famiglia in attesa della cena. In una stanza dell'Osservatorio di Monte Porzio Catone (Roma), l'ago del sismografo accelera il suo ritmo, segnala oltre il diagramma per un lunghissimo minuto e mezzo, sembra quasi impazzire.
Nessuno è lì a controllare, nessuno raccoglie il muto e sinistro allarme di quell’ago. Ma, intanto, in quei 90 secondi, un agghiacciante brivido percorre la spina dorsale del Sud Italia: regioni povere, terre lontane e sconosciute, perse dietro ai monti.
Poco dopo, dai televisori, le prime notizie. Frammentarie, confuse e, purtroppo, ben lontane dall’inquadrare la tragica verità. "Non si hanno notizie di vittime, soltanto qualche contuso", assicura un TG. E poi un altro: "Si ha solo notizia certa della morte di una donna stroncata dall'infarto nella metropolitana". C’è persino chi ironizza: "Ci sono notizie di qualche incendio, perché le persone sono fuggite, magari c'è stato qualcuno che ha lasciato acceso il fornello della cucina…”
Ma la realtà è ben diversa, e di lì a poco l’orrore irrompe nelle case degli italiani, quando dagli schermi appaiono le prime immagini dal luogo della sciagura. Un cronista è lì, tra le macerie, tra quel che resta di uno dei tanti, sconosciuti, remoti villaggi dell’Appennino irpino-lucano. Dalle sue parole concitate la consapevolezza di una tragedia immane: “Adesso stanno... si hanno recuperato altri 2 corpi. Il lavoro continua, è una cosa straziante, non è possibile descrivere quello che sto vedendo in questo momento: è soltanto un enorme, immenso ammasso di macerie”.
Sono trascorsi appena 4 anni dal terribile sisma del Friuli, una ferita ancora aperta nel cuore degli italiani. E la sensazione di un ennesimo disastro attanaglia tutti. Ma, per l’intera prima notte, nessuno è in grado di tracciare un quadro chiaro, attendibile. Lo dimostra il titolo in prima pagina de ‘Il Mattino’, vago, persino ottimista: “Un minuto di terrore, i morti sono centinaia”. Le tenebre della notte e la lontananza di quelle terre hanno reso tutto drammaticamente più oscuro.
Manca la luce, i telefoni sono andati in tilt: funzionano solo le radio di Polizia e Carabinieri, ma sono ingolfate. I collegamenti con paesi e città sono saltati. “Mentre scriviamo - scrive il cronista della testata napoletana - è impossibile tracciare un bilancio”. Per le stesse autorità è difficile stabilire “dove e cosa sia successo”. E intanto la gente, in preda al panico, al dolore e allo sgomento, si è precipitata fuori dalle case. Strade, piazze, campagne si trasformano in veri e propri accampamenti a cielo aperto: uomini, donne, bambini trascorrono la notte all’addiaccio.

Al levarsi del sole, uomini in elicottero salgono in cielo e scavalcano le montagne nevose dell’Irpinia. Paesi costruiti in cima alle montagne, ad esse quasi aggrappati; case vecchie, povere, fatiscenti; strade che si arrampicano, vicoletti in cui pulsava una vita fatta di stenti: la scossa vi si è abbattuta come una violentissima martellata e tutto è crollato fin giù verso la valle, portandosi dietro intere famiglie. Una civiltà, un’idea di comunità, fatta di semplici tradizioni e umili valori, è come sprofondata per sempre in un cratere.

Il chiarore dell'alba, tanto atteso eppur temuto, getta luce su una sciagura immensa, su un'esistenza ora diversa per tutti. Irpinia, Alto Sele, Lucania sono un panorama di rovine.

Molti villaggi sono distrutti. Laviano, Santomenna, Colliano, Castelnuovo di Conza, nel salernitano; Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, Teora, San Mango sul Calore, in Irpinia: questi paesi quasi non esistono più. A Salerno circa 50mila persone sono senza tetto. Persino Napoli, pur lontana dall’epicentro, è paralizzata. Per tutti, quel minuto e mezzo è stato un salto nel buio più profondo.

E così, “Il Mattino” di martedì 25 novembre è costretto a una tragica rettifica rispetto al titolo del giorno precedente: “I morti sono migliaia, 100.000 i senza tetto”. Ma non è finita, si precisa nell’articolo in prima pagina: “Di ora in ora il bilancio del terremoto assume le dimensioni di una grande tragedia […] Il conto dei morti, soprattutto nell’Alta Irpinia devastata e nell’alta valle del Sele, si allunga: saranno duemila, tremila, forse di più.

Centinaia di corpi devono ancora essere estratti dalle macerie. Decine di paesi sono stati letteralmente cancellati. Da 36 ore viviamo in città fantasma […] In molti paesi i morti sono stati contati sottraendoli dai vivi. E lasciandoli imputridire sotto montagne di polvere marcia”. Il tutto è reso drammaticamente più difficile da una macchina dei soccorsi che ovunque si è mossa con colpevole ritardo.” In molti comuni si scava ancora e solo a forza di mani […] Mentre il freddo dell’inverno incalza e le riserve di viveri, di tende, di coperte, di medicinali, perfino di garze e di siringhe si assottigliano”.

Di qui, il grido di allarme dell’edizione di mercoledì 26: “Fate presto”. Due giorni dopo quella maledetta domenica, si brancola ancora nel buio. In molti paesi, viveri, tende, medicinali sono arrivati 48 ore dopo la scossa. Nell’ospedale da campo di Oliveto Citra, molti bambini sono morti dissanguati e persino per il freddo. Per ore e ore dalle macerie si sono uditi lamenti e grida d’aiuto, via via sempre più flebili: sono i “sepolti vivi”.
Amministratori, parroci, gente comune: tutti levano grida di rabbia contro uno stato ancora una volta assente. “Se ci avessero aiutato prima…”: è il coro unanime di protesta.

Come accaduto in Friuli, emerge l’immagine di uno Stato disgregato, che rivela le sue carenze organizzative al centro come in periferia. Nessuno è risparmiato, neppure il tanto amato Presidente Sandro Pertini che, in visita nei paesi terremotati, è accolto dai fischi. “Ma cosa è venuto a fare Pertini qui? - tuona il sindaco di Laviano - Non sappiamo cosa farcene delle belle parole”.
Lo stesso Pertini, nello speciale TG2 del 27 novembre, ammetterà: “Non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi. Non deve ripetersi quello che è avvenuto nel Belice. E se vi è qualcuno che ha speculato, io chiedo: costui è in carcere come dovrebbe essere?". Dopo secoli di disboscamento, la montagna che incombeva sugli uomini si è come sbriciolata. Una volta di più, l’Italia deve fare i conti con l’aspra verità di un dissesto territoriale che, ancora una volta, ha moltiplicato i danni recati da una tragica fatalità.

Passata la catastrofe, resta un pezzo del Mezzogiorno, due regioni abitate da 7 milioni di persone già più volte sconfitte, costrette a ripartire da zero. “Quel disperato, muto, uniforme, grigio ammasso di rovine  e mura franate e povere, irriconoscibili cose - dice Lina Wertmuller nel documentario Rai ‘È una domenica sera di novembre’ - significava, fino alle 19.30 di domenica, uomini, donne, persone, famiglie, affetti, ricordi, pensieri, illusioni.
Tutto spazzato via, cancellato”.

Fino al 31.12.2010 ad Auletta (Sa), presso il Palazzo dello Jesus, sede dell’Osservatorio sul dopo sisma istituito dalla Fondazione MIdA

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"RES TORE - 23 NOVEMBRE 1980 - OBIETTIVO IRPINIA"


Un documentario che racconta il terremoto dell'Irpinia attraverso la testimonianza di due professionisti della Rai: Claudio Speranza,telecineoperatore, che sin dalle prime ore documentò per immagini quella terribile tragedia, e Alfonso Capobianco, ispettore di studio che rispose all'appello solidale della Rai organizzando un gruppo di volontari, dimostrando immensa umanità nei confronti di quella popolazione privata di tutto.

Res Tore - 23 novembre 1980 - Obiettivo Irpinia
dal sito di Rai Storia

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L’Aquila Oggi - 6 Aprile 2009  

(di Anna)
        
Sussurri
Il silenzio della città viva
All’ombra dell’alzabandiera
Volti
Volontari


Volontaria alla tendopoli di Sassa (AQ)

Quando il C.A.I. Abruzzo, in seguito al terremoto del 6 aprile, ha richiesto ad altre Sezioni la loro collaborazione per l’assistenza e aiuto ai campi di Sassa, lavorando al fianco della protezione Civile e dell’Associazione Nazionale Alpini, diverse sezioni abruzzesi e romane si sono organizzate per poter offrire il proprio contributo, alternandosi sul luogo con cambi settimanali.

Ho aderito al lavoro di volontaria presso il campo di Sassa Scalo dando la mia disponibilità al Cai di Isola- sottosezione di Pietracamela.

Quando ho ricevuto la conferma che c’era la possibilità di agire presso la tendopoli di Sassa una settimana di Agosto, ero già pronta molto prima di andare, trent’anni fa, con i miei familiari, non abbiamo esitato un secondo ad affrontare in Irpinia tragedia e solidarietà, e questa volta non mi tiro certo indietro.

Oggi ringrazio chi ha permesso, con questa opportunità di gemellaggio, di raggiungere un obiettivo concreto e consentire un contributo in forma di lavoro alla popolazione terremotata. Tutto ciò ha dato luogo non solo alla realizzazione fisica di opere e servizi per la stessa popolazione, ma ha sviluppato una catena di solidarietà tra coloro che vivono tutt’ora situazioni molto disagiate e chi presta la propria opera di volontario sostegno.

Ho cercato di esprimere nelle parole che seguono quello che ho vissuto in una tendopoli a distanza di mesi dalla tragedia, l’aiuto reale e la forte ricchezza d’animo dei volontari, fattori che hanno generato un incredibile susseguirsi di concretezza e partecipazione anche e soprattutto con la stessa popolazione.

Oltre al nostro lavoro al campo, sempre il Cai ha realizzato alcune attività di svago per i più piccoli, allestendo una palestra di arrampicata sportiva nella vicina località di Pagliare.



SUSSURRI

La tentazione è quella di spararsi nelle orecchie la musica a palla, violenta, acuta, stridente, scatenata.
Per non sentire il boato, il folle grido.
Del silenzio.
Il mutismo dei mancati aliti,
la leggerezza del fiato dell’animale che cerca,
l’affannosa voce che si affievolisce, alla ricerca della luce,
la silenziosità della speranza di percepire un flebile sussurro.

Il caos del vento sprigionato dalla terra;
il rombo delle viscere che prepotentemente si scaraventa fuori,
 annientando trecento sussurri con un solo grande respiro.


La tentazione è quella di rimanere in silenzio davanti a tante bare,
ai quadri appesi,
alle profonde ferite della nostra intimità,
al corpo fulminato,
al crocefisso appeso sull’albero, 
alle nostre vite sospese, oscillanti in un soffio d’aria.

La tentazione è quella di urlare dopo il frastuono,
un attimo dopo il ritorno alla vita,
gridare a piena voce la paura, il panico, l’essere ancora qui;
urlare per essere consapevole che con questa supplica
sei nel dolore, nella tragedia, nel mondo.

La tentazione è quella di andare,
condividere il nostro clamore con quello sussurrato da chi non ha più voce,
rimasta incastrata nelle scale crollate,
schiacciata dal peso degli affetti,
abbandonata nelle cose più care,
folgorata negli oggetti inutili,
inabissata nelle viscere della terra.


La tentazione è quella di non tornare nei luoghi che ci danno gioia,
che ci regalano un sorriso,
che ci accrescono il cuore con le loro asperità,
visioni selvagge, competizioni, condivisioni, beltà, unioni.

Quei posti che ci hanno donato la certezza di un sorriso,
e oggi ci affogano di un pianto disperato, silenzioso, ammutolito.

L’energia che ha cercato la propria libertà di vita con un solo, violento colpo di morte ha polverizzato trecento bisbiglìi di silenzio, vociferanti un solo urlo.

Quello della pace infinita.

Ascoltiamolo.
                                                                               Anna                            6 Aprile 2009- Terremoto dell’Aquila

 


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Alla popolazione di Sassa Scalo, Genzano, Collefracido, Collemare e Maestra Teresa,
con affetto,
i Volontari dal 4 al 14 Agosto alla tendopoli di Sassa Scalo




IL SILENZIO DELLA CITTA’ VIVA



Alzo lo sguardo e vedo un stendino pieno di panni sul balcone dell’ultima piano.
Seguo con gli occhi la linea di confine tra palazzo e cielo e ascolto il grido disperato del silenzio.

E’ impressionante come i rumori si affievoliscono su una strada deserta, in salita, viale alberato pieno di speranze in tempi normali, tristemente vuoto e desolato oggi nella luce del crepuscolo.

La nera linea di frattura del palazzo è tra il piano terra e il primo piano: segue tutto il perimetro chiuso delle mura e ti chiedi come possa tale massa pesante di cemento sopportare quella enorme spaccatura dell’anima e sorreggere contemporaneamente l’unità del blocco variamente ferito.




Senza crolli, ma tristemente deserto.
Profonde croci di squarci profondi disegnano le facciate dei palazzi, marchiando ferocemente l’esistenza di un’intera città, addentrandosi nel suo cuore e isolandolo dal resto dell’universo: non è possibile entrare e neanche affacciarsi al centro cittadino.

Una città di macerie blindata dalla sua stessa distruzione; centinaia di uomini a difendere la sua intimità e la sua storia, e la sua intrinseca verità.

C’è un maestoso silenzio d’intorno, le finestre, i terrazzi, le porte, le strade, tutto parla da solo.

Percorriamo l’unica via della città che ci porta lungo il confine della disperazione, ne osserviamo le crepe, i crolli, i buchi, l’immensa violenza; talvolta neanche il perimetro casalingo appare, ma solo cumuli di macerie personali, di spaccati di vita interrotta, di quotidianità non più esistente.


Il cartello stradale recita Onna, ma il passo è sbarrato: rimangono solo gli infiniti chilometri di faglia che si estende per tutta la sua lunghezza nella piana dell’Aquila. Troppo vasta per pensarla, troppo orribile immaginare la sotterranea corsa liberatrice di tanta distruzione in superficie, troppo reale per renderla un incubo e aspettarne il risveglio liberatore alla luce del sole.


Meglio non vedere il colore blu del cielo che si mescola con i confini di stoffa di chi attende un rifugio sicuro, sterminata distesa di tende, follemente ordinate una dietro l’altra, una appresso all’altra a costituire un enorme e perfetto rettangolo umano; decine di divise colorate, arancioni, verde acido, gialle, vaganti e mobili nel mondo degli Angeli del terremoto; travi e impalcature che sostengono il peso non crollato degli anni di quei monumenti storici miracolosamente scampati all’urto dilaniante;
nastri colorati a circoscrivere e delimitare zone e passi, ovunque persone che si agitano, corrono, vanno.

Non riconosci più quelle strade familiari che hai percorso tante volte: completamente ribaltate dal ventre al cielo, cartelli, divieti, sbarramenti, automobili dal suono penetrante, ovunque aria di presenza istituzionale, oltre che umana.
Lo sguardo alla collina ti sciocca: decine di scheletri di case, colonne di cemento a sostenerle, legno dappertutto: interno ed esterno.

Ovunque gente che lavora, casco in testa e gilè colorato, non si fermano neanche di notte: grosse attrezzature coadiuvano il  lavoro dell’uomo, e loro, le case, sono sempre lì, tristemente in fila, schierate nei loro cubi perfetti come se fossero sull’attenti, non un filo d’erba le separa, ma le sostengono quintali di cemento come a volere annientare la forza catastrofica, e rassicurare chi ancora conosce e vive la paura.
E non riesce a conviverci.

Due ore è durato il giro nella distruzione, laddove sono bastati una manciata di interminabili secondi per azzerare vite e futuro.

Troppo poco tempo  per realizzare la salvezza, troppo poco tempo per capire,
ma troppo tempo ci vorrà per garantire la ricostruzione, oltre che delle case, …  …..della vita.





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ALL’OMBRA DELL’ALZABANDIERA


Le note dell’ammainabandiera ti colgono di sorpresa nei gesti che stai compiendo. Ti richiamano fuori e sei indecisa, è un evento che hai sempre odiato.

E’ quasi la fine della prima giornata, o della seconda? Non lo so più: il tempo si è infinitamente dilatato; in queste giornate così piene si riesce a perdere la nozione del tempo e della realtà, tanto da farti credere che le stradelle che portano alle tende si chiamano veramente Via Treviso o Via degli Alpini. Questi piccoli accorgimenti al campo indicano quanto la presenza di chi desidera riportare alla normalità una condizione fuori dal normale sia forte e incidente.

Le tende azzurre si fondono con il cielo, fili aerei che assicurano il contatto, oggetti casalinghi che viaggiano in questa che è la loro casa, quella degli sfollati da l’Aquila, dalle loro case in pietra di Sassa, dalle zone limitrofe.

Il primo giorno ti senti spaurita, tutto ruota intorno alla velocità della luce, cercando di rimanere bloccato nella tua mente, ma è un turbinio di notizie, osservazioni, consigli, sguardi d’intorno. Hai paura di non trovare la tua dimensione per aiutare o organizzare, o semplicemente capire.
Per fortuna siamo in diversi: gli alpini Veneti hanno la padronanza della zona cucina, a noi montanari viene spontaneo compensare prevalentemente nella distribuzione.

Il lavoro principale è la gestione di una grande mensa: garantire i pasti ad un numero variabile di circa 500-600 persone che giungono a ore definite tre volte al giorno. Facile sulla carta; dopo aver scritto i numeri a fianco ai nomi, il gioco è semplice: in realtà il meccanismo deve essere perfetto, poiché ogni tassello si deve incastrare nell’altro; la distribuzione dei pasti ai paesi esterni deve avvenire ed ultimarsi prima dell’apertura della mensa, poi c’è il momento delle pulizie e già ci si riorganizza per il pasto successivo.

La gente: il primo pasto è uno shock, non ricorderai mai tutti i nomi, devi controllare i cartellini e le liste, guardarli negli occhi e cercare di impressionare i loro visi nella tua mente già affollata da tanti e troppi pensieri.
Un’ unica processione di volti e vite, che lentamente scorrono davanti a te e al tuo cuore, e sai già dove sarà il tuo posto da oggi in poi.
Cerchi di leggere qualcosa oltre ai numeri che portano: qualcuno ha impresso ancora l’espressione di dolore nel proprio sguardo, altri manifestano rassegnazione per una condizione ormai stabilizzata, e ritrovo in molti di loro il motivo delle situazioni tragiche già vissute nelle stesse condizioni in un altro e lontano terremoto, sopravvivere.

La giornata scorre frenetica sin dalle prime ore del mattino, e prosegue con la preparazione del pranzo, quando ad un certo punto inizia il balletto dei numeri: tutto si avvicenda freneticamente intorno a queste cifre, che non dicono niente ma sostengono la giornata.

Centinaia sono le persone che si presenteranno;
migliaia sono gli ingredienti necessari: cucchiaini, bicchieri, piatti, posate, tovaglioli; 
decine sono i chili di scatole, pasta, cibo, i gradi di caldo, e i gruppi di abitanti esterni al campo;
ed infine la splendida dozzina, gruppi di persone da 2 a 12 che compongono la popolazione del campo, e non, che si mescola ai vassoi, alle buste, al parmigiano, alla frutta, all’acqua.
E al sorriso di tutti.
Unica è la stanchezza a fine giornata, come sola è la luna, in mezzo al cielo, piena, gigante, illuminata. Fino al mattino successivo quando la ritrovi là, che splende al primo chiarore che risalta le creste e ingentilisce le stelle.


E giungono le note dell’alzabandiera, che  scandiscono il passo della battaglia quotidiana e richiamano al lavoro i volontari.  Ma come dice Marco: “io sono pacifista!”, e sarà la sua sprizzante vitalità a rompere le abitudinarie righe.

Ognuno di noi, restio all’inizio, parteciperà con distanze e motivi diversi a questa elevazione del pezzo di stoffa, che unisce umanità e desiderio, volontà e sentimento: dopo una settimana di scambi e contatti con la popolazione, l’ammainabandiera è partecipata anche da loro.
La tenerezza di Pierino impettito che canta il suo inno; le braccia lungo i fianchi, come fossero distratte, di chi è in attesa della cena; il riaddrizzarsi delle schiene al comando dell’Attenti, tutti segni di una ritrovata ripresa alla vita, o di una nascente cordialità con chi in quel momento garantisce la sussistenza. Senz’altro uno scambio di solidarietà e aggregazione creato da sinceri rapporti umani.

E questo riempie di gioia e infonde coraggio, genera energia vitale per quel moto propulsore a non lasciarsi andare al compatimento, alla pietà, alla rassegnazione da parte di chi vive la tragedia in prima persona: la volontà di N. ad unirsi al nostro lavoro per allargare il suo mondo, e combattere così la paura della solitudine nella tragedia; i consigli della signora Giovanna in una cucina tanto grande e allegra, quanto disperdente, sulla pulizia delle verdure o sulle arti culinarie, per sconfiggere la rassegnazione; le rose di Pierino che abbelliscono il tavolo e rendono felice chi è stato omaggiato; le serate con Anna e Nicola, parole di corsa che sfuggono nell’aria, ma che si ritrovano nei disegni e nella dolcezza di lei, quel suo venire incontro tutte le sere con il sorriso a scavalcare il tavolo come se non ci fosse, solo per venirti ad abbracciare.

Così, solo perché è contenta di vederti.

Per condividere insieme a te l’umanità che porti.


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VOLTI

Ancora non so cosa devo fare: ho una lista di nomi davanti, a fianco dei numeri, e ho appena ultimato di mettere crocette sui pasti consegnati ai paesi esterni – Pagliare, Collefracido, Collemare, Genzano e Poggio S. Maria (Maestra Teresa) -.

Ma il numero dei commensali è molto più alto. Verranno da tutte le frazioni limitrofe, e Sonia tenta di spiegarmi come devo rilevare i pasti, ma sono già confusa alle prime parole, e ho paura di perdermi i primi volti.

La prima volta che mi scorrono davanti il mio sguardo è rivolto e concentrato sui bambini, sono seduta alla loro stessa altezza e mi è più facile contattarli: scoprirò presto la timidezza ostile di Besar, quella molto eloquente di Giulieta, entrambi stranieri e quindi apparentemente riservati, ma solo per poco; lo spalancare degli occhi celesti e silenziosi di Marianna; la dinamicità alla ricerca dei chiodi del piccolo e troppo vivace Antonio; il porgere muto dei tesserini di Azik solo per ricevere in cambio il suo numeretto 1. Cristian poi, adolescente già cresciuto, mi divertirà con il suo modo di fare impertinente.

Ma con il passare del tempo, e in quello scorrere in fila ordinato e lento, la mia mente li seleziona uno ad uno ed impara a conoscerli: la comunità macedone prova gusto a prendermi in giro quando li devo contare, ed io con loro; Pierino richiede sempre lo stesso numero perché lo stropiccia in bocca per avere le mani libere; Carmine può essere secondo solo dietro a Pierino, di cui rispetta la veneranda età, o per cavalleria dopo la signora Giovanna, donna che vuole sempre capire anche quando non c’è nulla da capire.
E così a procedere, Ruggero A., che aspetterà paziente il mio risolvere le lacrime l’ultima sera quando mi saluta, perché solo io posso dargli quel fogliettino di vita; Suor Michela, che ha sempre al seguito un numero variabile di ragazzi da 7 a 11; le due famiglie numerose da 10 componenti, quella ritardataria da 15. E da ultimo,  la signora Marinucci, con la sua cesta dei tempi che furono ed il suo numero personalizzato, sempre di corsa e sempre alla chiusura.

E quando metto l’ultima crocetta è comunque sul nome di Anna e Nicola, che giungono spesso separati, ma che vedo andar via nella mia immaginazione mano nella mano, troppo vicini per stare lontani. La loro dolcezza la raccoglierò nel mio bagaglio di vita, così come le storie commoventi di ciascuno di loro, i loro saluti, i loro ringraziamenti: ho seduto a fianco di una perfetta sconosciuta che inesorabilmente mi racconta la sua vita, bilanciata tra la paura di un’altra grande scossa e la sveglia di sua madre, sistemata tutte le notti alle 3,30, per poter essere sveglia nel momento del grande urto.

Altre storie si intrecciano, e altre scosse arrivano, non solo dell’animo; e allora li ritrovi tutti lì, sotto il tendone, in anticipo, a raccontarti come è stato, la loro fierezza nella reazione di quegli attimi, il loro comprensibile spavento per quel tremendo ritorno.
Per ciascuno di loro cerchi parole di conforto, e provi solo ad immaginare, senza riuscire, cosa può essere stato quell’unico, tragico momento a sconvolgere le loro esistenze, così come non sai come sarà dopo il disallestimento del campo.
E per razionalizzare le azioni ti ritrovi a parlare con un rappresentante dei campi esterni, quelle tendopoli dove ci si ritorna a dormire al termine di una giornata di lavoro, o dove le “nonne” trascorrono la giornata in compagnia, cenando insieme per  alleviare la lunghezza della giornata.
Sei lieta di condividere con lui l’ammirazione per il gruppo ed il lavoro degli scout, ragazzi dall’entusiasmo e volontà impagabili, che anche al nostro campo hanno reso più semplici diverse giornate affaticanti.
La loro spensieratezza ha permesso il trascorrere delle serate in distrazione per molti abitanti di queste zone martoriate dalla paura e dall’angoscia, aiutando a sollevare gli animi e a concedere un allegro diversivo alle tristi e anguste ore.

E quello che rimane è cancellare dalla mente la disperazione di N., ragazza già provata dalla vita, che trova nella forza della reazione e nell’aiuto del volontariato la capacità di scoprire quel mondo ancora sconosciuto per lei, che mi farà commuovere insieme a lei lungo la strada che da domani guarderà con altri occhi, quelli di una rinascita della speranza e dell’amore verso se stessi e verso nuove conoscenze, a sconfiggere la paura e a provare a ricostruire…..la vita.

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VOLONTARI

Il giorno successivo al cambio di turno settimanale degli Alpini scriverò nel mio diario:
“Veramente queste giornate sono preziose di rapporti umani, di cordialità e fiducia, e tantissimo rispetto”.

Mi viene incontro deciso: “Signora, venga a vedere come abbiamo risolto i volumi!”, ed io di  rimando: “Se mi chiami signora non vado da nessuna parte!”, questo il primo scambio con quello che sarà il nuovo capocampo, Mario, figura fino a quel momento a me ignota anche nei compiti, ma che infonde una certa sicurezza sul fatto che le decisioni finali le prende lui. Infatti, mi è sempre sfuggita la finezza del comando, ma da questo istante in poi non è mai stata presente, lasciando ad ognuno di noi la libertà di decidere e scegliere le soluzioni più attinenti alla situazione, anche se sotto il suo velato e celato controllo.

In questo primo giorno di cambio turno quello che salta agli occhi sono altri occhi, quelli del capocuoco, Massimo, un po’ persi e sprovveduti, pur consapevoli della portata del lavoro, ed esperti per questo: alla mia richiesta di divisione dei compiti, proseguendo come già realizzato, il suo sollievo è evidente, guadagnandosi anticipatamente e tutta insieme la stima di molti che lavoreranno intorno e a fianco a lui.
Per imparare il nome di Alis ho impiegato quattro giorni, ma è bastato un attimo per capire che splendida persona fosse;
Giovanni, cuoco (o vice?), dalla calza nera in testa, sarà tanto riservato quanto attivo;
Alessandro, più silenzioso di Giovanni, confesserà solo alla fine la sua saturazione per la friggitrice sua fedele compagna.
Insieme, questo quartetto ha estasiato ogni giorno circa 600 persone con piatti semplici ma gustosi, facendoci per un attimo dimenticare i numeri, e deliziando il nostro e l’altrui palato.

 
Ma la cucina è grande, e le portate diverse, per cui la cottura dei primi è arte separata: Arnaldo, cuoco molto burbero ma sotto la scorza un cuore d’oro, macina chili di pasta riuscendo sempre a fermarsi per tempo; Luciano lo segue fedelissimo, e ha già adottato dalla prima sera Marianna, graziosa bimba bionda del campo, per conto della nipote; Renata, donna infaticabile dentro e fuori i fornelli, - tutti affiancati ad uno dei nostri, Marco, Raffaele o Prassede che sia - hanno moltiplicato chicchi, fusilli, pennette, parmigiano e condimenti, il come lo sanno solo loro!

Però, l’unica cosa che è sempre avanzata è stata il complimento….

Ma non è solo la cucina che ha vissuto, e che senza un cambusiere senz’altro non sopravvive: il braccio e la mente che mi hanno accompagnato in tutti questi giorni sono proprio di Ruggero, alpino schietto e caloroso che mi ha sempre tenuto costantemente aggiornata sulle mancanze o eccedenze dei complicati magazzini, e talvolta delle mie lacrime.

Come ape laboriosa, Iris si posa sul suo stesso e altrui fiore: se non ci fosse stata l’avremmo coltivata ugualmente. Dappertutto con la semplicità e la vitalità di gioventù, ingenuità e freschezza nelle idee, non lesina sulle 5 del mattino per tenerti compagnia, o per gioire di portare via la caffettiera, solo per veder alzarsi bene i suoi compagni, sprizzante nelle idee di  ‘una ne fa e cento ne pensa ’, le realizza poi tutte;
e che dire di Giovannino, detto il Cavaliere dai suoi compagni, che se per sbaglio finisci la frase di un tuo desiderio in sua presenza, questo è già creato con le poche e strane armi che ha a disposizione! Ma da uomo ingegnoso quale è, ti aspetta sempre puntuale all’ora della merenda con i suoi occhialetti tondi e il suo bicchiere in mano!
Lino, Danilo, Peppe con 3 P, è il trio di Valdobbiadene:  si recita logistica, ma compiono di tutto, e a tempo perso creano un ricordo favoloso per chiunque approda a questo campo: la casa-tenda- rifugio in miniatura della Madonna delle Nevi, opera d’arte che simbolicamente unisce il presente provvisorio con il futuro di solidità, della popolazione, degli Alpini, dei montanari, la comunione e l’amore  per la montagna nelle due realtà rocciose Dolomiti-Gran Sasso, il confluire dei due fiumi che sfocia nel mare dell’umanità.

Ma ci manca qualcuno con la testa sulle spalle a frenare fantasie culinarie e a correggere le liste, approvvigionando l’intero campo: la precisione e il richiamo di Italo, il caposquadra; la calma serafica di Monica adottata anche nelle situazioni più ingarbugliate; la disponibilità all’ascolto e alla risoluzione sempre pronta di Tamara.
Il tutto a svolgersi sempre e sotto lo sguardo vigile del capocampo, Mario, che oltre a ridurre i volumi di una quintalata di plastica viaggiante, ha aumentato a dismisura le nostre allegre risate nei momenti spensierati.

Il secondo giorno di presenza dei Veneti al Campo scriverò:

“l’affiatamento con il gruppo degli Alpini si fa sempre più forte: da attimi di smarrimento siamo passati ad un’intesa e cordialità notevoli.. ………  ……La cosa più bella di oggi è stata leggere negli occhi di Massimo un momento di gioia che non si creerà più per la spontaneità con la quale è nato: eravamo tutti intorno al lavandino, alternati noi (del CAI) e loro, e cantavamo, tutti insieme, affiatati, chi lavava, chi asciugava, e chi semplicemente cantava. Attimi stupendi. Ed eravamo tanti!”

Quando arrivo al campo, dopo essermi persa tre volte, c’era già qualcuno, chi non ricordo: in quell’intensificarsi di giornata tutto è fuggito nell’angolo della memoria, e forse con l’aiuto di qualcuno lo tirerò fuori.

Fatto è che mi sembra di conoscere Menni da una vita, Massimo G. già lo frequento, e Marco S. è un vecchio amico di adolescenza, anche se ci siamo persi nel corso del tempo. Il  giovane del gruppo, oltre a Simone che viene risucchiato in cucina, è Marco C., che si aggira dappertutto con il suo cappellino nominato in testa, portando allegria ovunque.

Saranno giorni molto intensi a capire il meccanismo, a prendere l’iniziativa, a lavorare anche faticosamente, a decidere le soluzioni migliori, e negli spazi vuoti, a raccontarci. E così scopro che Menni, pur vivendo lontana da me, frequenta amicizie comuni; il continuo scambio con Marco giovane ci riporta indietro nel tempo, ma lui non si tira mai indietro, e le chiacchiere dei ragazzi riescono a far fare le ore piccole persino a Marco S. parlottando del più e del meno fino a notte fonda.

Ma al mattino, tutti in piedi più puntuali dell’alzabandiera, ciascuno nei propri ruoli assegnati da noi stessi, in un ‘armonia di intenti che rasenta la massima collaborazione, quell’affiatamento che ci porterà l’ultima sera a condividere una splendida serata di canti e festeggiamenti con l’ultimo cambio alpino veneto già insediato.

Per la prima volta sono senza parole per descrivere lo scorrere e il vivere dei nostri rapporti in quei momenti: è qualcosa che lega più della necessità o del semplice fare; è come se ognuno di noi, nel sapere cosa fare migliora l‘altro a dare, ed in questa piccola catena di generosità involontaria ognuno si appaga del proprio agire.
L’arrivo di Raffaele, che scoprirò con gioia, solo alla fine però, già conoscere per aver viaggiato insieme una quindicina di anni fa, Massimo A., Bruno, Miriam, Francesco, hanno solo consolidato al meglio questo rapporto di intesa e armonia, permettendoci di realizzare, anche con il gruppo degli Alpini, uno splendido legame che va oltre il solidale pensiero.
Per questo Bruno ed io siamo rimasti oltre il consueto cambio.

Ovviamente non mancano le perplessità sull’intero meccanismo del volontariato, dell’organizzazione, dell’insieme verso il futuro, le analisi sulla realtà che si sta vivendo e su quanto questo meccanismo possa incidere a livello globale come aiuto umanitario. Ma qualunque considerazione possiamo aver intrapreso, nulla è stato tolto allo spirito di cordialità e solidarietà,  accresciuto e coeso anche in alcuni momenti critici.

E se sotto l’aspetto organizzativo complessivo qualche critica ed osservazione sarà d’obbligo segnalare, sotto il profilo umano l’esperienza è irripetibile, unita anche e soprattutto alla realtà della popolazione locale: nessuno di noi resterà indietro ad instaurare rapporti, anche semplici e fugaci, con gli abitanti del luogo, favorendo così quello sgorgare di lacrime e commozione che ci hanno accompagnato al momento dei saluti.
Così come nessuno deve ringraziare l’altro di essere come lui, perché è proprio in questi momenti che è importante essere.


E tutti noi, alpini, montanari, gente comune, lo siamo stati fino in fondo.

Volontaria al Campo di Sassa Scalo,  4-14 Agosto 2009
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L’Aquila Oggi - 6 Aprile 2009
Introduzione
Promesse in frantumi
I dimenticati
Non è proprio una vacanza
Una difficile impresa
Una casa o tante c.a.s.e.?
MAP, cosa c'è di male?
Tante case non fanno una città
Vita da studente precario


"In nove puntate 'L'Aquila a pezzi' valuta i dichiarati benefici dello spostamento del G8 e, soprattutto, dà voce alle popolazioni colpite dal terremoto del 6 aprile. 'L'Aquila a pezzi' riparte dunque da dove era arrivato 'Le crepe nel G8', pubblicato nel giugno del 2009. Il video/inchiesta 'L'Aquila a pezzi' è uno dei tanti strumenti con cui ActionAid intende vincere la povertà.

Le riunioni dei G8 sono momenti importanti, perché i grandi della terra possono fare molto per sconfiggere la povertà e dunque abbiamo seguito con grande attenzione anche il G8 italiano. Ma nel fare ciò non potevamo non confrontarci con la decisione di spostare il meeting da La Maddalena a L'Aquila, anche perché actionaid ha una grande esperienza nella ricostruzione sociale dopo le emergenze. Questa inchiesta l'abbiamo realizzata anche pensando agli oltre 800 nostri sostenitori che vivono nelle terre colpite dal sisma, che da anni sostengono a distanza bambini del sud del mondo e anche dopo il terremoto han continuato a farlo.

'L'Aquila a pezzi' è dedicato a loro."



clikka
L’AQUILA A PEZZI un documentario a pezzi di Cecilia Mastrantonio e Sebastiano Tecchio







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IL TERREMOTO DELLA MARSICA



È il 13 gennaio del 1915, sono le 8 del mattino e una scossa sismica provoca 30 mila vittime in Abruzzo, nella Marsica. È uno dei terremoti più catastrofici della storia italiana: settimo grado della scala Richter, ma dati ufficiali non esistono perché i sismografi andarono fuori scala. Un dramma raccontato 96 anni dopo grazie a una serie di foto inedite in Italia. Sono le immagini in bianco e nero scattate dall'ammiraglio dell'aviazione degli Stati Uniti d'America, Lansing Callan, di passaggio nella Marsica.





Scattate da un ammiraglio degli Stati Uniti,  per la prima volta in Italia - Pubblicate da "il Centro"

Le foto della catastrofe 96 anni dopo




Le macerie e sullo sfondo il monte Velino
Le macerie e sullo sfondo il monte Velino