“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Dancalia: pendici dell' Erta Ale

QUANDO LA TERRA SCOPRE SE STESSA



Sulle Pendici dell’ Erta Ale

Calpesto il terreno e sento scricchiolare la terra sotto i piedi.
E’ il panico totale!
Ad ogni passo sento franare il mio corpo verso un velo di ostia che si rompe e mi trascina in questa gabbia di incertezza, da dove ne esco solo pensando che ormai posso solo andare avanti.

Sono avvolta dal buio più intenso, tenebre che circondano la nostra perseveranza a ricercare la luce dell’esplosione vulcanica.

Ma nulla di tutto ciò.

Nel silenzio di questa oscurità, solo voci mescolate all’insistente fruscio del vento, indistinte, incomprensibili, ricacciate nella notte più scura. Flebili luci vicine, troppo deboli per illuminare l’intorno, proiettano il loro fascio di luce su questo magma avvoltolato, scuro, screziato, in rilievo, ormai freddo ed estremamente sottile.

Di nuovo il passo affonda verso le nere e impalpabili viscere della terra, di questa lava che è stata espulsa da anni immemorabili e che raffreddata si è stratificata nel corso del tempo: aggrovigliata, fulminata, accartocciata, inglobando dentro e sopra di sé tutto il mondo vivente circostante.

Temperatura che non permette vita, neanche un suo avvicinamento, splendida nella sua visione ma assolutamente impenetrabile.


Non è possibile accostarsi più di tanto, l’oscurità ha inghiottito il giusto cammino, la luna è nascosta nell’orizzonte delle tenebre, e la nostra volontà è scemata via via che la sfinente salita e il digiuno si sono aperti il varco, vittoriosi sul nostro corpo.



La delusione di questo mancato ricongiungimento per molti è cocente come il ribollire di quella massa liquida, fosforescente, incandescente, sprigionante vapori umidi e penetranti. Il suo colore rosso fuoco accende l’aria, facendo immaginare di mille scintille evanescenti danzare nel calore al suono dell’aria intermittente, dispettosa, troppo briosa per voler rimanere prigioniera in quella bollente e profonda ospitalità.


La Terra suda e si scopre, gela la sua pelle raggrinzendosi, ripiegandosi, accavallando i suoi morbidi e rilucenti strati in crespature che un non vedente non riconoscerebbe alla sua esplorazione, tanto creano un furioso labirinto al tatto.


E come ciechi scaliamo la tirata collina di fronte all’eruttare di quella Terra scomposta, che occulta a nostra insaputa precipizi ed inghiottimenti, voragini e ripidità, divorando il buio più completo insieme al nostro urlo nel momento dell’evidente, anche se timidamente illuminata, consapevolezza. Sono attimi di ansia e preoccupazione per una discesa incognita e priva di luce, su terreno sconnesso e scivoloso reso tale dalla sua infida consistenza: piccole particelle che mal rassodano il solido sull’erto sentiero, e quando il piede, rilassato, finalmente ritrova il piano viene improvvisamente inghiottito da quel nuovo esile ed instabile strato di lava scura.


La stanchezza si mescola al nostro arrampicare negli ultimi passi verso i ricoveri notturni; l’avvilimento del tenebroso spettacolo prende il sopravvento, che neanche i tarallucci e vino riescono a consolare, unitamente alla speranza di una cena ben ritardata.

Invano i cammellieri giungeranno oltre tempo; ormai ciascuno di noi è impegnato a scegliere il proprio affollato giaciglio, lì sotto il cielo stellato sfondo delle oscurità più nere, mai immaginando la spettacolare alba del giorno successivo.



Mentre contemplo la scura calotta riposando la stanchezza, scopro che non sono delusa, anche se il cammino per arrivare a conoscere l’intimità della Terra è stato faticoso: un’intera giornata nella tempesta di sabbia e calore, attraversamento desertico di vita inesistente, passaggio inerpicante su roccia concretizzata, aguzza, frastagliata, mista a terreno affondante.

by Giorgio
 Mani di bimbe alzate in questo spaventevole vuoto arido a ricercare il saluto di chi, fuggevole come noi, ricambia l’allegria di un sorriso nel deserto, nella solitudine, nella lontananza.




Il villaggio che ci ha ospitato per i preparativi         dell’ascensione pullula di calma africana, con gli Afar che contemplano indifferenti la nostra frenesia dall’alto delle loro rocce, al caldo della giornata che scema, unico baluardo a difesa della loro sopravvivenza.

Un sentiero notturno nasconde l’animo, lo ricopre dell’evidenza del nostro inconscio, ci fa regredire laddove vorrebbe andare e non placa la nostra fatica. Mille parole di incoraggiamento si uniscono nella catena verso lo spettacolo della scoperta della Terra, a formare con i suoi anelli giunti una solida guida all’essere, affinché tutti possano percepire e gioire di questa esplosiva rinascita terrena.


E sarà proprio il divampare del sole che illuminerà le nostre certezze su quella realtà cocente, avvoltolata, strabiliante, anche se totalmente concretizzata.

Erta Ale all’alba




Ripiegamenti lavici

 






Ali di farfalla in Paradiso



A Chantal Mauduit










Non so perché questo libro urlava sulla mia testa, sopra il comodino, tanto da farmelo aprire e voler conoscere alcune storie intorno a questa figura solare:

La vita è una mostra di pittura: guardare, bisogna imparare a guardare, sollevare le palpebre, aprire gli occhi, imparare a leggere colori, forme, tratti…imparare a lasciarsi trasportare da una sensazione.”

….”Viaggiare non è altro che vagare nel cuore della diversità, e non certo fondersi e perdersi nell’indifferenza, vedere le cose con un acume rinnovato ogni giorno e sostenuto senza soste da nuove sfumature.”

“ Durante un viaggio, un pellegrinaggio nel paese della dea dell’abbondanza, Annapurna, la poesia era fiorita nel nostro campo base.
Le tende smosse a colpi di versi, ne erano diventate parte. Era autunno, si diceva, là era primavera. Sul nostro accampamento, giallo, bianco, argentato, dorato facevano da contorno le nostre case di tela: <<La primavera sarà sempre là dove noi la risveglieremo>>.
<<Oggi ho preso le mie bombolette di vernice, poesia, immagini, a piedi nudi ho taggato a ritmo di risa ed emozioni. Stupendi firmamenti evanescenti. La natura nel cuore, la felicità a colori, una mano che parla a tratti, punti, lettere curve di fronte all’Annapurna>>
Di ritorno dai nostri raid d’alta quota, stremati, tramortiti dal freddo e dalla paura, gioiamo nel vedere il campo illuminato di parole colorate in risalto tra i fiocchi di neve. Torniamo al calore e alla vita, alla dolcezza e alla poesia. ”

Comunque lo leggi, le sue espressioni contenute nel libro trasudano di solarità, non una parola, anche se colma di stanchezza,  tradisce la sua gioia per la vita:

Verso gli 8500 metri mi chino a raccogliere delle pietre lasciate in questo luogo privo d’aria, le faccio scivolare in tasca per sfiorare l’impercettibile realtà del momento. Arranco lentamente tra neve e cielo: bianco e blu qui sono colori dell’altro mondo……Anche un semplice sussurro rintocca qui, fino a raggiungere l’inconscio con una eco di pienezza.”
                                       (Camminare sulla Luna, da Abito in Paradiso-  Cima del Chogori ,n.d.r.)




_________________________________________________________________

Le recensioni al suo libro:






Abito in Paradiso   di  Paola Lugo

<<Ammetto che l'ho letto perché è di un'alpinista (donna). 
Ammetto che l'ho letto perché è di un'alpinista (donna) che viaggiava con lo zaino pieno di libri, e scriveva poesie sulle pareti della sua tenda. E perché amava la birra, il rock e le feste danzanti ad alta quota. Se vi sono libri che trasmettono una straripante voglia di vivere, Abito in Paradiso, è uno di quelli. Scomparsa a trentaquattro anni sul Dhaulagiri insieme con l'amico Ang Thsering, Chantal Mauduit ha lasciato scritti indimenticabili, lettere, racconti, brevi ricordi di salite e di incontri, dove le imprese che costellano il suo impressionante curriculum (6 ottomila raggiunti senza ossigeno e spesso in solitaria, le grandi pareti delle Alpi e della Patagonia, le discese in parapendio...) sono principalmente tappe di crescita personale, momenti di una ricerca mistica a cui ha dedicato tutta la vita.
Raccontare la scrittura di Chantal Mauduit è impossibile: come dichiara Nives Meroi nella splendida prefazione all'edizione italiana, qualsiasi sintesi non potrebbe che impoverire un linguaggio tutto interiore, che lascia ai margini il racconto dei fatti, per perdersi nell'interiorità, e riportare sulla pagina unicamente la passione e la gioia del viaggio e della scoperta. Il viaggio di Chantal Mauduit l'ha portata ad inseguire la festa della vita nei mercati “multicolori e multiculturali” di mezzo mondo, sulle pareti patagoniche e himalayane e sui mari dell'Antartide, pronta a perdersi nella contemplazione di un volo d'uccelli, o versare profumo sulle pietre roventi di una sauna improvvisata ai piedi dell'Everest , perché «appena si sale di quota il vissuto diventa un'esperienza sensoriale profonda». La salita in solitaria senza ossigeno al K2 , l'amato Chogorì, la sua luna himalayana, è più di un record, di una grande impresa “al femminile”, è un intenso momento di ricerca personale: «Grazie al Chogorì e alla sua magia, il mio cammino interiore ha sorpassato l'orizzonte in un rigoglioso accenno di fioritura». Perché «l'ego ghiaccia in fretta a 8000 metri, in compenso bisogna restare svegli ad attendere il suo disgelo». E se gli occidentali hanno ancora bisogno di eroi, la ricerca della saggezza la porta a scoprire la meraviglia ovunque. Nelle piccole cose, come i profumi delle zuppe nepalesi («Talvolta le immagini delle scalate in montagna si trasfigurano in odori, sapori»), come negli immensi altipiani himalayani dove «a volte il vento si placa, i ghiacciai dormono, il tutto non è che calma, contemplazione, meditazione». L'importante è «scoprire l'arte, l'arte di vivere, di ridere, di sorridere».
Non vi è una sola riga, a parte il frustrante incontro con il fondamentalismo islamico dei pakistani che non riescono a capire questa strana francese e il suo girovagare da sola per l'Himalaya, che riapra l'annosa questione sull'alpinismo femminile, con la mal dissimulata ansia da prestazione e da confronto che tante alpiniste hanno portato con loro nello zaino. Come ricorda Nives Meroi nella prefazione, viviamo in una cultura che nega le differenze e l'Alterità, dove un unico sapere esclude ogni altra forma di conoscenza: la tentazione di adeguarsi alla logica dominante per non venirne schiacciati è forte. In particolare le donne, e quindi anche le alpiniste, per evitare la negazione e la sottomissione, assumono comportamenti e logiche maschili. Chantal, al contrario, afferma con forza l'autonomia dello sguardo, la volontà di vedere e di sapere al di là dei cliché e dei percorsi già stabiliti, lasciandosi guidare dalle proprie passioni «come una banderuola mossa dalla brezza» e dipendendo totalmente dalla natura.>>




PREFAZIONE di Nives Meroi al libro “ABITO IN PARADISO

“…vivi la vita fino in fondo, lascia che la passione abbia libero sfogo, la passione che non ha mai rimato con ragione e non comincerà certo a farlo con gli alpinisti!”. 
Questo ci confessa Chantal; Chantal che ha visto l’Himalaya, che ha vissuto con tutti i sensi il paesaggio, le scalate, il sole, la luna e gli incontri. Un viaggio reale e sognato, lungo un percorso che scivola all’indietro, per cogliere il momento cruciale, al cuore di una passione, quando l’alpinismo diventa semplicemente il calice che porta alla bocca l’acqua della vita.
“Da queste spedizioni multicolori…ho imparato, ho capito qualcosa, forse molto, appassionatamente, alla follia!”.
Non ho conosciuto Chantal. Ci saremmo potute incontrare nel ‘98 al Nanga Parbat, la Montagna Nuda. Ma lei non c’era già più, se n’era andata poco tempo prima, durante la salita al Dhaulagiri.
L’ho fatto adesso, leggendo questo libro: all’inizio è stato un incontro difficile, quasi conflittuale, ma lentamente si è rasserenato; riga dopo riga mi sono avvicinata a lei e al suo cuore, così diverso, forse così simile al mio.
“ABITO IN PARADISO” è il complesso racconto del suo viaggio, una sinfonia in cui il suono di ogni strumento ha vita a sé e armonicamente da vita alla sinfonia stessa: qualsiasi sintesi non potrebbe che impoverirlo.
Nell’arco di un tramonto nel cielo himalayano Chantal fruga tra brandelli di ricordi, immagini, colori e odori e in un intreccio apparentemente casuale si affollano alla memoria le montagne, i viaggi e le spedizioni.
Questo libro è un crescendo fittissimo di sensazioni e suggestioni catturate con maestria, di letture coniugate con esperienze dirette, in cui il racconto scivola lungo le pagine mimando la molteplicità dell’esperienza che si affolla alla memoria, e rompendo la successione lineare del tempo fino a farci dimenticare persino la disposizione del discorso.
Ci tiene per mano Chantal, per condurci verso un modo diverso dell’essere e del corpo, un modo non gerarchico: prima frammentato e poi ricomposto nell’armonia della sua continua molteplicità e diversità.
Un viaggio ricco ed essenziale: a piedi. Sono poche le persone che amano viaggiare a lungo; viaggiare così è una frattura continua di tutte le abitudini e soprattutto, una smentita incessante a tutti i pregiudizi.
A piedi le distanza non sono più calcolate in ore ma in giorni. La lentezza con cui ti sposti fa rinascere la curiosità per i particolari, fino a farti percepire quanto è vasto il mondo e soprattutto quanto è complessa la varietà di genti e culture che lo popolano: proprio quella varietà su cui si regge l’equilibrio del mondo e che la follia del nostro tempo tenta, giorno dopo giorno di annullare.
E’ un viaggio incalzante il suo, dentro e fuori dalla nostra società: una società caratterizzata dalla cecità indotta dal recingere, delimitare, censurare. Una società che contrappone muro a muro; una società forte di un sapere che si basa proprio sull’esclusione delle altre forme di conoscenza.
La “città” da sempre maschile, ha piegato il femminile alle sue modalità di comportamento e anche le donne che si ribellano, per poter dare forma al loro dissidio, devono introiettare i comportamenti maschili e una cultura che conosce solo l’aut-aut.
Chantal si scinde fra tendenza alla conformità e necessità di dissonanza.
Chantal scruta dentro e oltre il muro della nostra società, dentro e oltre i suoi cordoni di morale e regole sociali; ma il suo è uno sguardo rovesciato, rovesciato sull’ io femminile, sulle profondità più scure del corpo e di quel groviglio di pulsioni che chiamiamo anima.
“Una maschera di fiamme, fuoco qui ed ora, fiamma libera, bocca libera, occhi liberi, la vita da guardare, parlare, da mangiare, da inghiottire, da infiammare!”
Questo viaggio è il percorso di una donna che impara a “vedere” a dispetto della volontà degli uomini e degli dei, e in un’ epoca in cui le donne hanno perso ogni autonomia in quest’arte, Chantal aspira ad uno sguardo e ad una voce autonomi. Perché la cultura dell’oppressione e della soppressione è ormai dentro di noi; è principio logico, abitudine percettiva, modalità del porsi domande e del rispondersi, è linguaggio. Si è installata nei fondamenti della conoscenza, è riconoscibile in ciò che le categorie del sapere hanno incluso e nell’Altro che hanno escluso.
Ma esiste una “Terza Via”, che può reintrodurre nel ciclo della vita ciò che il sapere vincente esclude: “ non è una porta, è orizzonte, orizzonte di luce, basta aprire gli occhi che l’infinito distende le ali: in alto, in basso, in bello. (…) bisognerà discostarsi ogni giorno al di là di ogni cliché, al di là della storia. Dotato di un occhio nuovo di bimbo, di acutezza estremizzata, l’uomo percepisce l’essenza di ogni gesto lontano dal suo schematismo razionale.”: sono le persone che coltivano la capacità di vedere ormai sommersa dal nuovo tempo. E’ un dono tutto umano questo, che la società corrompe e tacita, il dono di attivare l’intero nostro corpo, di vedere e dire il reale, di lasciar apparire sul verso di un’immagine il suo rovescio non visibile, non accontentandosi dei simulacri. “Dalla tempesta bisogna estrarre il suo senso assoluto, la forza sprigionata dalle differenze di potenziale. Dalle differenze di cultura, di razza, di colore…come non riuscire a separare l’arco di luce umana, il lampo della disparità, il tuono della eco delle lingue delle musiche delle poesie?”  >>




Hanno scritto su di lei:

André Velter è nato nel 1945 a Signy l'Abbaye nelle Ardenne. 
Divide la sua attività tra i viaggi di lungo corso (Afghanistan, India, Tibet) e la messa in risonanza delle poesie di tutto il mondo. 
Prolifico autore di saggi, fra le sue opere di poesia dedicate a Chantal Mauduit si ritrovano: 


LE SEPTIEME SOMMET, POEMES POUR CHANTAL MAUDUIT

UNE AUTRE ALTITUDE
(Poemese pour Chantal Mauduit)

  
L'AMOUR EXTREME

Oggi racchiusi tutti nel volume unico : 
L'amour extrême
et autres poèmes pour Chantal Mauduit
 

Un CD:
 

TOMBEAU DE CHANTAL MAUDUIT (CD)   




Emilla Gitana pubblica nel suo blog una delle poesie di Andrè Velter tratte dal libroLE SEPTIEME SOMMET- Poèmes pour Chantal Mauduit’, 



Sempre tra i libri, si ritrova:


Savage Summit: The True Stories of the First Five Women Who Climbed K2, the World's Most Feared Mountain , libro scritto da  Jennifer Jordan su cinque donne alpiniste, tutte scomparse in montagna, che fino al 2004 ascesero il K2, raccontando le loro storie attraverso i diari, lettere, biografie e interviste a quanti le conobbero.


Liliane Barrard (1948-1986) died on descent from K2 in 1986 
Julie Tullis (1939-1986) died on descent from K2 in 1986 
Alison Hargreaves (1962-1995) died on descent of K2 in 1995 
Wanda Rutkiewicz (1943-1992) summited K2 in 1986, died on Kangchenjunga in 1992
 
Chantal Mauduit (1964-1998) summited K2 in 1992, died on Dhaulagiri in 1998 

___________________________________________


Il ritrovamento da parte degli italiani del suo corpo e della sua tenda:




“Siamo molto legati al ricordo di Chantal Mauduit, specie qui a Vicenza, dove nel 1998 alcuni alpinisti tornarono dal Dhaulagiri testimoni della morte della scalatrice francese. Recuperarono la sua minuscola tenda d'alta quota dove c'era scritto «Datemi un alito di vita e io andrò, ospite delle altezze». Quella stessa tenda fu issata in uno dei posti più splendidi e inaccessibili che può scoprire lo sguardo di un alpinista, in un colle a 5600 metri nell'Hindu Raj pakistano, tra ghiaccio e roccia che ricordano le montagne di casa di Chantal, il Monte Bianco.”

 __________________________________

La nomina del suo Colle, su planetmountain
_________________________________________________________________________________


racconto di Alberto Peruffo sulla Spedizione CHIANTAR 2000 sul Colle di Chantal:    
                                                  da http://www.intraisass.it/news.htm 

9 Agosto. Campo Base, lago Atar, quota 3850
Tel. 00873/761315919 ore 15-19 ora italiana.
Postille d'alta quota di Alberto Peruffo

Cari amici,
disceso dal Colle Chantal Mauduit, così lo chiamai il primo giorno in cui mi accampai alla quota di circa 5600 metri in attesa che Tarcisio e Mirco tentassero di salire la via poi chiamata Sogni Infranti, provo a scrivervi alcune righe d'alta quota. Il Colle è qualcosa di meraviglioso. A sinistra e a destra le due difficili e belle cime che saliremo nei giorni 6 e 7, dietro i Garmush, complessi e accattivanti con il loro rigurgito di seracchi; davanti, snello e solitario, la piramide del Kampur, a fianco del quale compare in lontananza la maestosa catena del Karakoram con il Nanga Parbat sullo sfondo. Sopra e sotto la mia testa bastioni di granito perfetto e grattacieli di ghiaccio mi contendono lo sguardo. Che dire? E' uno dei luoghi più belli e selvaggi che ho visto in montagna. Un giusto e duraturo omaggio all'effimera bellezza di Chantal Mauduit, dolce e valente alpinista perita sul Dhalaugiri e sulla cui tenda passeremo sofferte e indimenticabili ore d'alta quota. 
Un pensiero per i due miei compagni, forti e motivati, forse anche più di me, frastornato e attonito di fronte a spazi così grandi e incontaminati, lontani da ogni affetto umano. Tarcisio, un mulo indomito, sia nella progressione, continua e precisa, sia nel pensiero, rigido e inflessibile. Mirco, una macchina perfetta per le salite in quota; non perde un colpo, è sempre lucido, con i suoi occhi interrogativi pronti in ogni momento a darti una semplice e rassicurante risposta: un compagno d'oro. 
Dopo due notti al Colle Chantal su una tenda da un posto e mezzo (io e Tarcisio dormiremo a turno una notte all'aperto...) e due cime guadagnate con fatica, comincio anch'io, neofita delle alte quote extraeuropee, a respirare un po' meglio.
Un saluto e un bacio.
Alberto.

Venerdi 25 agosto. Campo Base, lago Atar, quota 3850
Tel. 00873/761315919 ore 15-19 ora italiana.
Un primo bilancio della Spedizione Chiantar 2000 di Franco Brunello

Ultimo giorno al campo. Tiriamo le somme di questa azzeccata e fortunata spedizione. Indovinata la località prescelta, ottima l'organizzazione logistica, difficili e appaganti le mete prefissate. Abbiamo salito le tre massime vette della vallata e molte altre ancora, realizzando difficili itinerari sia su ghiaccio che su roccia. Già i mezzi di informazione hanno dato ampio spazio alla nostra attività, ed altro ancora lo aspettiamo quando divulgheremo l'eccezionale massa di informazioni ed immagini raccolte. Abbiamo esplorato 5 diversi bacini glaciali: spazi immensi occupati dai ghiacci, un'orgia di cime, di pareti rocciose, di pilastri, di canaloni e seracchi. Una infinità di problemi alpinistici di elevato livello. Abbiamo percorso per 8 giorni itinerari nuovi e sconosciuti del massimo interesse. Il vento scuote la tenda mentre scrivo e porta gocce di pioggia. Il tempo coperto e freddo accentua la malinconia del momento e l'inquietudine che trasmette questa piana ai margini del grande lago. In un passato non lontano le forze della natura qui si diedero battaglia. Frane di sassi e di ghiaccio, neve e valanghe, e inondazioni del lago arrestarono le schiere di salici e di betulle che salivano a colonizzare la valle. Tronchi divelti e dilaniati, sassi e macigni, ceppaie martoriate di ginepro sono sparsi ovunque. Piccole mucche dal pelame arruffato dal vento, minuscole capre spigolano qua e là un filo d'erba. Due pastorelli osservano da lontano il nostro campo. Anwar, il rappresentante dell'agenzia che ha organizzato in modo perfetto il nostro soggiorno, mi illustra i suoi progetti: "Qui il prossimo anno costruiremo un loodge, già abbiamo deviato il torrente per portare l'acqua e ricavare degli orti per la verdura. Alcune rocce impediscono il passaggio lungo il lago, ma installeremo delle corde fisse e pioli in ferro. Nel lago semineremo anche avannotti di trota, per poter pescare. Se poi mi date i vostri nomi, farò incidere una targa, a ricordo del vostro passaggio." Nessuna di queste iniziative mi entusiasma, ma sono consapevole che questa località è destinata a cambiare rapidamente, e in peggio. Qualche cosa è già cambiato da quando, un mese fa, siamo arrivati accolti dai bambini dei villaggi. Ora parte del gruppo è partita per compiere un lungo trekking, mentre gli alpinisti sono rimasti. Emblematica questa separazione fra due diverse realtà, fra due modi di vivere la montagna e di concepire l'attività alpinistica. Non metterò più insieme, in una spedizione alpinistica, due mondi ormai troppo diversi fra di loro. Non voglio più vedere dei buoni alpinisti spaesati di fronte a problemi troppo grossi e d'altronde incapaci di attuare senza il mio aiuto delle iniziative alla loro portata. D'altronde era più importante dedicare tempo ed energie alla soluzione dei problemi maggiori. E quando mi sono trovato all'ultimo campo sotto il Garmush con due compagni meno allenati di me, ho preferito salire da solo che rischiare, legandomi con loro, di fallire la vetta. Così ha fatto Tarcisio quando ha notato che i due compagni con i quali già aveva percorso gran parte della via erano più lenti di lui. L'importanza della via, il risultato di prestigio da conseguire, le esigenze degli sponsor sono motivi più che sufficienti a giustificare qualche piccolo strappo all'etica alpinistica. Qualsiasi meta importante richiede un supporto logistico e tecnico consistente, ma raramente chi è teso al risultato è disposto a riconoscerne l'importanza ed ha occhi per cogliere aspirazioni ed aspettative di chi fornisce tale supporto. Ad oltre settemila metri, sul Dhaulagiri, avevo trovato e recuperato la tendina d'alta quota di Chantal Mauduit, la famosa alpinista francese che vi aveva trovato la morte. Questa tenda aveva per me un elevato valore affettivo e costituiva un importante cimelio storico. E' stata portata in alta quota, utilizzata e abbandonata quando non è più servita*. C'erano altre cime alle quali dedicarsi. Sulla tendina, a grandi lettere, c'era scritto: " Datemi un alito di vita ed io andrò, ospite delle altezze". Forse era destino che quella tenda restasse per sempre ospite delle altezze, ma con essa resta anche qualche cosa di me.

* La tendina di Chantal Mauduit ha avuto purtroppo una vicenda complessa  e sofferta. Lasciata al colle per tentare la cresta integrale del Shashalay (affascinante problema alpinistico di cui si conoscono solo le due vie di salita od eventuale discesa, quelle della Cima Nicolajewcka e dell'Italia Peak, collegate da una cresta lunga più di 3 chilometri) o per permettere agli alpinisti della spedizione di provare il fascino di un pernottamento alle alte quote in ambiente splendido e selvaggio, man mano che i giorni passavano, per un motivo o per un altro (spesso il brutto tempo ha bloccato ogni iniziativa per la difficoltà e la pericolosità del canalone che porta al colle) nessuno è più risalito fino alla tenda. L'ultimo giorno utile della spedizione - mercoledì 23 agosto,  mentre Brunello  Peruffo e Romio erano impegnati nell'ultima importantissima esplorazione - un estremo tentativo è stato compiuto da Mirco Scarso con due compagni, i quali - forse anche spaventati da una fresca slavina caduta da poco nel centro del canalone - non se la sono sentita di affrontare l'impegnativa salita. Mirco saggiamente non ha proseguito da solo, conoscendo ciò che gli aspettava in discesa (sono necessarie delle doppie su ghiaccio ripido e bisogna avere almeno un compagno per trasportare con sicurezza il materiale). Come dice Franco, era probabile destino che la tendina restasse ospite solitario delle altezze, ma forse non per sempre, perché siamo sicuri che altri alpinisti torneranno in questo bellissimo luogo dove ammireranno stupiti il raro e grazioso cimelio - ora ornamento -  che Chantal ci ha lasciato (n.d.r.).



_________________________________________________________________________



14 maggio 2005 -  La montagna è femmina  (di Cicogna Antonella)
 

La storia dell' alpinismo è stata scritta anche dalle donne:
da marie paradis, che in cima al bianco nel 1808 fu trascinata di peso,
a lynn hill, che su una delle pareti più difficili del mondo ha fatto nel ' 94 quello che nessuno più ha saputo ripetere
"noi non siamo quegli esseri pavidi e debolucci che i signori uomini vogliono far credere" mary varale
"mi chiedo per quale motivo agli scalatori non si facciano mai domande sulla paternità" alison hargreaves
"non vorrei che si parlasse di me in montagna solo perché sono donna. sono un' alpinista e basta" nives meroi

Ci hanno provato in molti. I numeri uno. Invano.
Poi è arrivata lei. Armoniosa, agile. E ce l' ha fatta in barba a tutti. L' americana Lynn Hill è stata la prima a realizzare la salita in libera e in giornata della difficilissima via "The Nose" su El Capitan, il monolito di granito più imponente al mondo; tre Empire State Building uno sopra l' altro, liscio e strapiombante. Non ha sbagliato un passaggio, non è mai caduta e da quel 20 settembre del 1994 nessuno ha saputo fare il bis.
La Nord dell' Eiger, la parete assassina, fu scalata per la prima volta al femminile nel 1964 dalla tedesca di origine estone Daisy Voog, ma c' è chi 12 anni fa l' ha salita in solitario, in inverno, in 17 ore. Ed era un' altra donna: la francese Catherine Destivelle, occhi verdissimi, fisico da schiattare, veterana di ascensioni agghiaccianti sulle Alpi, spesso da sola e in prima femminile.
Che dire poi del Cerro Torre ? Da buon patagonico non ha saputo dire di no alla grinta fascinosa di Rosanna Manfrini, campionessa italiana di arrampicata, prima donna in vetta nel 1987.
Gli esempi possono continuare.
Le donne in montagna sanno salire le cime più alte, le pareti di roccia più difficili. In arrampicata sportiva sono eccezionali. Sulle cascate di ghiaccio mettono nel sacco difficoltà da brivido. Altro che restarsene al caldo sotto le coperte.
"Noi non siamo quegli esseri pavidi e debolucci che i signori uomini vogliono far credere", aveva replicato Mary Varale a una delle tante obiezioni sull'argomento donne montagna. Moglie del giornalista sportivo Vittorio Varale, negli Anni 30 fu tra le prime a superare il VI grado e a essere accettata dall' élite alpinistica di quei tempi: dagli uomini insomma.
Le donne già alla fine del XIX secolo si erano dimostrate forti, avevano toccato le cime delle più alte montagne delle Alpi, ma i tabù sono rimasti duri a cadere. Ancor più quando si è trattato di salire i colossi himalaiani. "Rifiuteremo sempre la richiesta di prendere parte a una spedizione su questa montagna a qualsiasi signora. Le difficoltà sarebbero troppo grandi", scriveva il Comitato inglese per l'Everest nel 1924. E non stupisce che la prima donna sul tetto del Mondo arrivò 22 anni dopo Edmund Hillary e Tenzing Norgay, i primi salitori. E ciò non senza qualche problemino familiare: Junko Tabei aveva già salito i 7.577 metri dell' Annapurna III. Ma la tradizione giapponese non contemplava che una donna lasciasse solo un uomo. "Non sta bene !", aveva tuonato il marito di Junko. "Ti lascio il via libera solo se facciamo un bambino". Junko accettò: anche lei voleva un figlio. E quattro anni dopo, nell'Anno internazionale per la parità dei diritti tra uomini e donne (1975), la nipponica, salendo dal Nepal, divenne la donna più alta del nostro pianeta, precedendo di 11 giorni la tibetana Phantog, salita dal versante Nord con una spedizione cinese.
La prima vetta di un Ottomila a essere calcata da piedi femminili era stata, l'anno prima, quella del Manaslu, anche quella volta a opera di una spedizione femminile nipponica. In cordata con gli uomini o i propri compagni, da sole, con altre alpiniste, le donne hanno tenacemente conquistato nuovi spazi d'azione verticale. Ma come in molti altri campi, si sono ritrovate i riflettori addosso quasi più degli uomini; nel bene e nel male.
"La gente troverà sempre qualcosa per cui criticarti, indipendentemente da ciò che fai", raccontava Alison Hargreaves, che a maggio del 1995 era stata la prima donna a raggiungere l' Everest senza far uso di bombole con l'ossigeno e portatori, e tre mesi dopo si apprestava a salire il K2, in barba al fatto d'essere madre di due bambini. "Mi chiedo per quale motivo agli scalatori non si facciano mai domande sulla paternità, eppure anche loro lasciano a casa mogli e figli". Giunse in cima, ma perse la vita in discesa con altri sei scalatori, spazzata via dal vento.
E la querelle sulle mamme alpiniste soffiò ancora più forte. Il primato femminile sulla seconda montagna della Terra (ma la più temuta) era però di un'alpinista dell'Est, Wanda Rutkiewicz. "Wanda è la prova vivente che in alta quota le donne sono capaci di prestazioni incredibili", aveva detto Reinhold Messner. La polacca era riuscita a sopravvivere alla tempesta che l'aveva bloccata due notti di seguito nella zona della morte, oltre gli 8.000 metri. Quel 1986 fu l'anno delle tragedie: 25 scalatori in cima al K2, 17 morti in discesa. Ma sei anni dopo anche la "signora degli Ottomila" scomparve, sul Kangchenjunga (8.598 m), che avrebbe dovuto essere il suo nono colosso.
"Non vorrei si parlasse di me in montagna solo perché sono una donna. Un alpinista è un alpinista e basta. È chiaro che non siamo uguali agli uomini, loro sono più forti fisicamente. Noi abbiamo più resistenza mentale", dice Nives Meroi, l'italiana più "alta": sei Ottomila già saliti, senza ossigeno e portatori. Tre Ottomila in 20 giorni, la prima donna al mondo a realizzare questo exploit in così poco tempo. Nives fa coppia fissa con il marito Romano Bennet. E non ha dubbi: "Preferisco parlare di complementarietà più che di differenze".
Anche Chantal Mauduit era di questa idea. "L'importante è legarsi in cordata con chi ti è veramente amico, donna o uomo che sia". La quarta donna sul K2, sei colossi himalaiani dal 1992 al 1997, viveva l'alpinismo con spirito romantico. Amava cambiare orizzonti, mettersi alla prova. E non sopportava il razzismo. Scomparve sul Dhaulagiri (8.167 m) a poco più di 30 anni.
"Donne/ tu tu tut / in cerca di guai..." qualcuno potrebbe canticchiarla di già. Ma forse tutto sta nel D4DR gene, il gene dell'avventura, dell' intraprendenza, della capacità di assumersi rischi e responsabilità. Pare che sia in tutti noi, uomini e donne senza distinzione; solo che in loro, negli intraprendenti e negli audaci, è un bel po' più lungo.
DONNE E ALPINISMO- LE PIONIERE
Marie Paradis Non è mai stata alpinista, ma fu la prima donna in cima al Monte Bianco. Inserviente in una locanda di Chamonix, nel 1808 fu coinvolta nell' impresa da Jacques Balmat e Michel Paccard, primi salitori (1786) della vetta più alta delle Alpi. Alla sua salita però non fu mai data particolare importanza in quanto lei stessa raccontò a Henriette d' Angeville, la seconda donna (e prima alpinista) in cima al Bianco (1838), di essere stata quasi trascinata su di peso.
Lucy Walker Nata nel 1835 in Inghilterra, figlia del grande alpinista Francis Walker, fu la prima donna a salire il Cervino lungo la cresta Hörnli. Era il 22 luglio 1871. Per scalare più agevolmente, fece ciò che ogni donna non osava: si levò la lunga e ingombrante gonna per procedere in sottoveste. Sua anche la prima salita al Balmhorn nel 1864. Nelle sue ascensioni sulle Alpi, si dice che la sua dieta fosse a base di pan di spagna e champagne. Morì nel 1916.
Mary Gennaro Varale Nata nel 1895 a Marsiglia, fu tra le pioniere dell' alpinismo femminile italiano, una delle prime a superare il VI grado. Iniziò a scalare nel gruppo dell' Ortles Cevedale per poi inanellare, tra il 1924 e il 1935, oltre duecento vie in cordata con i migliori alpinisti dell' epoca. Quasi tutte le sue salite sono prime femminili. Tra le sue prime ascensioni assolute più strabilianti, lo Spigolo Giallo (Cima Piccola di Lavaredo, 1933) e la diretta alla Sud Ovest del Cimon della Pala, la parete Sud della Torre Orientale del Vajolet, la Cima dei Tre (Civetta Moiazza), Punta Angelina (Grigne). Morì nel 1963 a Bordighera. Era sposata al giornalista sportivo Vittorio Varale.
Paula Wiesinger Nata nel 1907 a Bolzano, fu protagonista indiscussa dell' era del VI grado. Alpinista fuoriclasse, con il forte Hans Steger aprì vie nuove di notevole difficoltà in Dolomiti con numerose prime femminili: la Solleder in Civetta, la Sud della Torre Winkler, la Est del Catinaccio, lo Spigolo Sud di Punta Emma. Suo il primo tentativo alla Nord della Cima Grande di Lavaredo. Fu campionessa del mondo di discesa libera a Cortina nel 1932 e collezionò 13 titoli di campionessa d' Italia. È scomparsa nel 2001.
Loulou Boulaz Nata nel 1909 a Ginevra, fu tra le scalatrici di successo degli Anni 30 50, una tra le prime a praticare un alpinismo di notevole livello tecnico, spaziando dalle Alpi alle montagne extraeuropee (Himalaya, Caucaso, Groenlandia, Perú). Fu la prima donna a tentare, nel 1937, la Nord dell' Eiger. Tra le sue realizzazioni sulle Alpi: la prima ascensione femminile della Nord delle Grandes Jorasses (seconda assoluta), la seconda salita alla Nord dei Drus, la ripetizione della Cassin alla Nord Est del Pizzo Badile ela prima femminile allo Sperone Walker. Partecipò alla prima spedizione di sole donne al Cho Oyu nel 1959. Morì nel 1991.
Claude Kogan Nata nel 1919 a Parigi. Il suo nome è soprattutto legato alle imprese sulle montagne extraeuropee, ma nelle Alpi realizzò diverse scalate (tra queste la Sud alla Noire de Peuterey come prima di cordata). Nei primi Anni 50 scalò nelle Ande peruviane: seconda ascensione del Quitaraju (6.040 m) con record mondiale d' altitudine per una cordata femminile, e cima del Salcantay (6.300 m). Poi si concentrò sulle vette himalaiane: nel 1953 salì il Nun (7.135 m), nel '55 il Ganesh I (7.406 m), poi tentò il suo primo Ottomila, il Cho Oyu (8153 m), fermandosi a 7.700 m. Dopo una spedizione in Groenlandia ritornò all' attacco del Cho Oyu nel '59, organizzando la prima spedizione di sole donne in Himalaya. Un'impresa che si concluse con l'insuccesso e la sua morte, quando era oltre il campo IV, prossima a coronare il suo sogno.
Gwen Moffat Nata nel '24 in Inghilterra, fu certamente tra le più importanti scalatrici degli Anni 60. Ribelle (per scalare, disertò dall'esercito a 21 anni) e determinata, riuscì ad aprirsi un varco tra i professionisti dell'alpinismo diventando la prima donna guida alpina in Inghilterra. Ora è scrittrice di successo di racconti gialli. >> 
_________________________________________________________________
Lo spazio in una piazza
_______________________________________
Un suo video



______________________________________________________


Il sito Ufficiale dell’Associazione a suo nome:



 l’Association Chantal Mauduit