“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Rami spezzati

Rami spezzati: la nostra dolorosa passione
riflessioni sulla montagna, gli amici scomparsi 


DIFFICILE NARRAZIONE

PERCHE’ E’ COSI’ DIFFICILE RACCONTARE LA MONTAGNA?

Ho appena chiuso un libro “freddo”, e non perchè racconta di una gelida salita al Nanga Parbat, e neanche perchè descrive la morte di un fratello, o ancora perchè con esso si vuole urlare al mondo la risoluzione di un senso di colpa vissuto per trent’anni, in aggiunta a fatti, antefatti, cronistoria di un’ascensione alta 8125 metri sopra il tetto del mondo, nel tentativo di un doloroso riscatto alpinistico e storico.
La Montagna nuda, il passaggio sulla Regina delle Montagne avrà suscitato qualche emozione, sentimento, sensazione. Giorni e giorni in mezzo al glaciale paesaggio, sotto e sopra chilometri di neve, ghiaccio, pericolo, strapiombo, roccia, illusione, speranza, desiderio, aspettativa, paura, competizione, appagamento.
E la freddezza di questo libro è sconvolgente. L’ ho riletto perchè la prima volta credevo di essermi persa qualcosa; alla luce del mio piacere scrivere, forse oggi potevo apprezzare quanto di più bello pensavo potesse essere scritto, oltre che “raccontato” con le foto, sopra e dentro il tetto del mondo.
Ma la delusione è grande: pagina dopo pagina, riga dopo riga non sono riuscita a trovare che arido racconto, l’esposizione più cruda di fatti che all’epoca comunque dovevano ispirare qualcosa. Perchè erano gli anni ’70, gli anni della conquista montanara e alpinistica internazionale, gli anni del nazionalismo italiano e straniero,  la conquista, l’impresa collettiva, le spedizioni, le commemorazioni di coloro che perduti e caduti in montagna resuscitavano attraverso analoghe imprese alpinistiche, la sfida, la galanteria, il romanticismo, il riscatto patriottico nel collettivo. Più semplicemente la  manifestazione al mondo di quei paesaggi spettacolari, di quelle realtà sconvolgenti, pure, terribili e terrificanti, grandiose, maestose, straordinarie, al di sopra delle nuvole e delle nostre menti, la visione di un mondo sopra il quale non c’è nulla, se non te stesso.
Da qui la mia ricerca, la mia insaziabile sete di sapere, di capire, di essere trasportata laddove non giungerò mai, se non con gli occhi di un altro, con le parole e la capacità di chi può descrivere, scalare, portarti nella tasca dello zaino, a pestare scricchiolando il ghiaccio sotto i piedi, a toccare la roccia pungente, tagliente, scivolosa, a interpretare vie, a maledire il freddo, a sentire i ‘chiodi’ nei polmoni, a rimbombare le parole nello spazio immenso, a trovare la pace nel tumulto dei tuoi pensieri, a godere di un’alba che illumina tutte le cime della Terra, di un tramonto che non ha eguali, se non in qualche parte del mondo a te sconosciuta, di gelo intenso, di follia acuta, di noia, di gioia, di pacatezza, di amore.

E questo è quello che ho trovato, in 10 anni di riviste alpine, al di là dei notiziari e racconti giornalieri:

Da un’intervista di Oriana Pecchio a Conrad Anker, specialista di big wall e scopritore del corpo di Mallory:
“Quali sensazioni hai provato in quel momento?”
‘ me ne stavo seduto accanto al corpo di Mallory, ad alcuni minuti di distanza dai miei compagni e ho capito quanto fosse grande lo sforzo che avevano fatto quegli uomini ad arrivare fin lì, anche paragonando l’attrezzatura che abbiamo adesso a disposizione. ....E’ molto difficile provare sentimenti profondi a 8200 metri, ci si sente come quando si è bevuto troppo champagne..’

Da un’intervista di Roberto Mantovani a Marco Bianchi, alpinista che racconta la sua salita al K2:
“ .. al tuo arrivo in vetta”..   
 Quando Christian Kuntner, Krzysztof Wielicki e io siamo arrivati in cima, l’orologio segnava le 20.18, ora pachistana. Ormai era buio e abbiamo scattato le foto con il flash di fronte al treppiede lasciato dai Ragni di Lecco. Peccato, perchè al panorama sul Karakorum tenevo molto..... e invece niente. Era come essere in una stanza buia: non si vedeva niente.’
“ Peccato, ma attraversando il Sinkiang avrete visto paesaggi spettacolari. Per esempio, come ti è sembrata la valle di Shaksgam?”
‘ Quello è un mondo a sè, selvaggio, lunare, deserto. E mi è piaciuto molto....’

Tutto qui salire oltre 8000 metri?

Roberto Mantovani, nel marzo del 1997, lamentava in un suo editoriale la difficoltà di reperire le informazioni alpinistiche nazionali ed internazionali, sia di conoscenza dei percorsi, sia di interviste ai big, sia dei silenzi talvolta ‘politici’, che comunque lasciano trapelare il non detto, concludendo con alcune riflessioni sulla correttezza delle notizie reperite.

Ma non è questo che mi è saltato agli occhi.

Sullo stesso giornale, lupus in fabula, un articolo di Reinhold Messner mette a confronto i tre B...ig dell’alpinismo: Bonatti, Bonington, Bubendorfer. Non entro nel merito dell’articolo (La riv. della Montagna, n. 198/1997), ma il grande alpinista esordisce così: ” L’immagine che noi alpinisti diamo delle montagne corrisponde sempre meno alle montagne stesse. Negli ultimi cinquant’anni la nostra capacità di descrizione è scaduta progressivamente a una serie di numeri. Come se le esperienze, le sensazioni e i nuovi processi cognitivi fossero esprimibili solo attraverso la matematica. ..”  E via discorrendo.

Termino qui questa elugubrazione, senza nulla togliere alle fortissime capacità dell’alpinista; rispetto il suo dolore fraterno ed il suo desiderio di riscatto verso quel mondo che all’epoca ha frainteso le sue incomparabili doti alpinistiche, ma se posso esprimere un commento da esordiente “scrittrice”,  La Montagna nuda, di R. Messner, insieme a Parete Nord e Sette anni in Tibet di H. Harrer, trova posto nella mia libreria solo tra i fatti di cronaca.

 “Io mi rizzai a sedere e vidi là in fondo all’orizzonte una straordinaria visione. In quella luce di una trasparenza quasi siderale, raccolta in una scena d’intensa e precisa bellezza, un gruppo di montagne appariva, stagliato sul cielo come una città di leggenda. Non avevo mai veduto nulla di simile. I monti rocciosi e nevati, vestiti alle falde di un azzurro immateriale, di un religioso azzurro, scolpivano, incidevano i loro picchi nell’oro dell’alba con sì veemente nititezza che si sarebbe detto facesser parte della sua divina essenza. Sopra, il cielo veniva disfumando in un tenerissimo cilestro, dove vedevamo morire le stelle. Il vento, che aveva deterso l’atmosfera con furore quasi maniaco per tutta la notte, faceva adesso rivivere quel paesaggio con tale arcana vivezza a gagliardìa di linee e di toni, da recare quasi dolore agli occhi. Pareva passasse in noi stessi l’angosciosa tensione da cui l’aria era posseduta. E ce ne restammo là tutt’e due, silenziosi, sopraffatti dall’emozione.” 

Siamo sul tetto del mondo? no!, nell’Alto Làrio, sulle Alpi Centrali.

Nicolò Berzi scrive, al ritrovamento e traduzione di un diario inglese sull’ascensione a Huascaran(6768 m), in Perù:  Ho sentito una punta di invidia per l’ignoto anglosassone capace di raccontare i suoi sentimenti, anche se immagino che sotto l’atteggiamento rude e la facciata impassibile di tutti gli alpinisti ci sia la capacità di emozionarsi e di innamorarsi perdutamente, o no?”
Dal diario, verso la cima: “...Sono due ore che cammino pensando alle foto che ci ha fatto Andrew mentre sott’acqua teniamo in mano quel polpo. Me la immagino in tutti i particolari mentre metto in fila un passo dietro l’altro. Il cielo occupa sempre di più il mio orizzonte. Susy si ferma un’altra volta. Mi volto, le sorrido e mi giro in fretta, perchè mi viene da piangere. Venti passi e poi basta. Fine, non si sale più. Questa sofferenza smetterà. Ti vedo con la maschera da sub e ti bacio goffamente. Voglio mettermi la mia splendida maschera TUSA gialla. Faccio ancora quindici passi. Voglio le mie pinne verdi, sono bellissime. Quattro passi, ti desidero con tutte le mie poche energie, ti sto portando quassù con me. Trattengo a stento le lacrime, non mi va di farmi vedere piangere. Ancora un passo, ti penso con tale intensità che mi aspetto di trovarti materializzata sopra quest’ultimo metro che mi aspetta. Poi basta. L’emozione fortissima di questi ultimi metri sparisce nel gesto di piantare la piccozza e sedermi a terra. Stop. Capolinea. Il sole e il vento sono testimoni di questa assurdità. Forse quei quindici metri di emozioni e di coscienza aperta e dilatata sono la ragione di tutto questo. Forse. ..”

E ancora, in una montagna che non è nè maledetta nè straordinaria, pericolosa e respingente, perchè sono gli uomini che la rendono impossibile e tragica, fatale e unica, inaccessibile e vera, lei ha il solo dovere di essere lì, ad accogliere con la sua prestanza tutti gli sbalzi di umore del tempo, dello spazio, del fisico e del sovrannaturale, della forza e dell’onnipotenza, dell’uomo e del suo desiderio.

Pochi giorni prima di compiere il suo ultimo volo di farfalla sul Dhaulagiri, scriveva di se stessa Chanthal Mauduit sulla sua tenda: Io mi definisco un girasole, che si arrampica sulle cime, alla ricerca del sole -. 
E alla speranza di “ un altro giorno, che ci auguriamo radioso. Che ci bruci di vivere.”  ha dedicato il suo mondo, contemporaneamente lasciando al nostro:


Ha iniziato per gioco a dipingere sulla scacchiera dei sogni
che come un’ombra assomiglia al teatro del mondo.
Ha seguito con gli occhi il volo delle oche selvatiche
che mai si posano in mezzo al deserto.
Ha tracciato con il dito segni sulla sabbia
ed il vento è venuto ad accarezzargli la mano.
Ha gettato tante lettere in cielo quante sonole nuvole d’estate.
Ha contato sulla magia dei nomi per invertire il percorso
da Toumbuctou a Samarcanda da Nivine a Gadalquivir.
Ha cantato le parole dal profondo del cuore
che danno alla bellezza ali spiegate.
Ha sparso oro e sangue quando le ragazze han danzato
sotto la luna nei loro veli sfrangiati.
Ha estratto il fuoco dalla polvere e ha sorpreso i sensi sulla pelle.
ha imparato a leggere l’azzurro del cielo e le tenebre della notte.
Ha vissuto d’un soffio una danza senza fine
che ha svelato di colpo l’alfabeto dello spazio.
Era la festa del poco come la traccia cancellata
di una migrazione di stelle in ogni atomo del corpo.
Era sempre di meno di stima e di peso
un’alba per crepuscolo
una sorgente per oceano,

un gesto all’orizzonte.
                   Chantal

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Gli alpinisti hanno occhi speciali – Dedicato a Marco Forcatura

...” La montagna è una febbre che ti prende da giovane e ti resta dentro, anche se il mondo va cambiando intorno a te, anche se i  muscoli un giorno dicono basta e la famiglia reclama i suoi spazi, e forse altre ragioni di vita meno egoistiche e più nobili vengono a sovrapporsi nel corso del tempo. Nonostante tutto alpinisti si resta, e da alpinisti, fino all’ultimo, si continua ad osservare le montagne con sguardo obliquo, cercando le vie di salita, vagliando i colori e la grana della roccia, soppesando le condizioni del ghiaccio nell’algida luce di un’alba o nel riverbero di un tramonto. Perfino di fronte alla morte di un compagno, anche dopo una ragionevole scelta di abbandono dettata dal buon senso o dalla necessità, il cuore resta imprigionato nella passione originaria, esclusiva, come un amore dell’adolescenza mai del tutto consumato, un dolce rimpianto che fa male fino alla fine.
L’attaccamento alle pareti non si misura con gli anni e forse nemmeno con l’azione. Si misura con la passione. Questo è il fantastico, enigmatico, umanamente folle e follemente umano fascino della montagna, dove non ha senso ciò che si vede, ma solo quello che non si vede. Quella fiammella che gli alpinisti si portano dentro cercando di non scottarsi troppo.”

di Enrico Camanni – Lo Scarpone n. 9 – Settembre 2005 


Caro mi costa questo scritto, il coraggio di scrivere forse la mia giornata più bella in montagna, piena di soddisfazione, di bellezza, di stupore, di incredulità per una sconosciuta tranquillità, di un’inconsapevole sicurezza che mi ha accompagnato ancora, totalmente, costantemente, tenacemente a calpestare nuove vie, nuove sensazioni, magiche certezze.

Il coraggio di eliminare dalla mente quella perdita, accantonarla nello spazio remoto del cervello, egoisticamente, per vivere questa ritrovata e sconosciuta passione, godere fino in fondo di una giornata rubata al maltempo,
l’allegria della compagnia,
l’ammirare il cambiamento della neve sotto i tuoi piedi,
scoprire percorsi diversi con la sensibilità dell’occhio,
piantare la piccozza e accompagnarla dolcemente nel suo cammino, lungo o breve quel tanto da comunicarti su che neve stai,
alzare lo sguardo e leggere un muro,
sfiorare il basso e vederne la vertigine,
concentrarti sui tuoi passi, sul rampone scricchiolante, sulle figure che al di sopra di te si muovono, quelle che più in basso ridono.
Il mancato coraggio di fermare uno sci che schizza verso di te alla velocità di tutta la pendenza della montagna, il coraggio di esortare vivacemente Paolo a non perdersi quella favolosa neve, il coraggio di non pensare il vuoto, il buio, il nulla.

Ma nel vuoto, nel nulla, nel buio riemerge, spalanco gli occhi, piango.

Un fiume inarrestabile di lacrime, come quello che immagino venga giù ogni istante quando la neve pesante cede sotto i tuoi piedi, quando troppo consapevolmente viviamo una perdita e già ne condividiamo il ricordo, ci rammarichiamo che poteva essere diverso, conserviamo le esperienze più belle, vogliamo capire quanto non comprendiamo, nella speranza che il nostro coraggio possa bloccare la corsa di un altro coraggioso atto.

Quello che non capiamo lo immaginiamo, giustifichiamo, comprendiamo, condividiamo, incaselliamo, e nei meandri del labirinto mentale ci perdiamo: emerge il nero, la paura, la solitudine, l’incomprensione, l’incommensurabilità.

E perdiamo la semplicità  di esprimere come stiamo, come siamo, cosa vogliamo.

La mia empatia oggi non si blocca, vorrebbe capire, ma non può, non deve riempire quegli spazi lasciati da un’intimità troppo profonda, incolmabile, per noi impenetrabile e forse troppo razionale. La consapevolezza di un motivo non lo fa essere Marco diverso, non gli negherà il sorriso che regalava agli amici che hanno spartito con lui esperienze e vita.

L’unica realtà che oggi ci rimane è che ognuno di noi porterà nel proprio vissuto montanaro un pezzettino del suo coraggio.
La fiammella di Anna                                                                           22.03.2008




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A Chantal Mauduit










Non so perché questo libro urlava sulla mia testa, sopra il comodino, tanto da farmelo aprire e voler conoscere alcune storie intorno a questa figura solare:

La vita è una mostra di pittura: guardare, bisogna imparare a guardare, sollevare le palpebre, aprire gli occhi, imparare a leggere colori, forme, tratti…imparare a lasciarsi trasportare da una sensazione.”

….”Viaggiare non è altro che vagare nel cuore della diversità, e non certo fondersi e perdersi nell’indifferenza, vedere le cose con un acume rinnovato ogni giorno e sostenuto senza soste da nuove sfumature.”

“ Durante un viaggio, un pellegrinaggio nel paese della dea dell’abbondanza, Annapurna, la poesia era fiorita nel nostro campo base.
Le tende smosse a colpi di versi, ne erano diventate parte. Era autunno, si diceva, là era primavera. Sul nostro accampamento, giallo, bianco, argentato, dorato facevano da contorno le nostre case di tela: <<La primavera sarà sempre là dove noi la risveglieremo>>.
<<Oggi ho preso le mie bombolette di vernice, poesia, immagini, a piedi nudi ho taggato a ritmo di risa ed emozioni. Stupendi firmamenti evanescenti. La natura nel cuore, la felicità a colori, una mano che parla a tratti, punti, lettere curve di fronte all’Annapurna>>
Di ritorno dai nostri raid d’alta quota, stremati, tramortiti dal freddo e dalla paura, gioiamo nel vedere il campo illuminato di parole colorate in risalto tra i fiocchi di neve. Torniamo al calore e alla vita, alla dolcezza e alla poesia. ”

Comunque lo leggi, le sue espressioni contenute nel libro trasudano di solarità, non una parola, anche se colma di stanchezza,  tradisce la sua gioia per la vita:

“ Verso gli 8500 metri mi chino a raccogliere delle pietre lasciate in questo luogo privo d’aria, le faccio scivolare in tasca per sfiorare l’impercettibile realtà del momento. Arranco lentamente tra neve e cielo: bianco e blu qui sono colori dell’altro mondo……Anche un semplice sussurro rintocca qui, fino a raggiungere l’inconscio con una eco di pienezza.”
                                       (Camminare sulla Luna, da Abito in Paradiso-  Cima del Chogori ,n.d.r.)


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Le recensioni al suo libro:




Abito in Paradiso   di  Paola Lugo

<<Ammetto che l'ho letto perché è di un'alpinista (donna). 
Ammetto che l'ho letto perché è di un'alpinista (donna) che viaggiava con lo zaino pieno di libri, e scriveva poesie sulle pareti della sua tenda. E perché amava la birra, il rock e le feste danzanti ad alta quota. Se vi sono libri che trasmettono una straripante voglia di vivere, Abito in Paradiso, è uno di quelli. Scomparsa a trentaquattro anni sul Dhaulagiri insieme con l'amico Ang Thsering, Chantal Mauduit ha lasciato scritti indimenticabili, lettere, racconti, brevi ricordi di salite e di incontri, dove le imprese che costellano il suo impressionante curriculum (6 ottomila raggiunti senza ossigeno e spesso in solitaria, le grandi pareti delle Alpi e della Patagonia, le discese in parapendio...) sono principalmente tappe di crescita personale, momenti di una ricerca mistica a cui ha dedicato tutta la vita.
Raccontare la scrittura di Chantal Mauduit è impossibile: come dichiara Nives Meroi nella splendida prefazione all'edizione italiana, qualsiasi sintesi non potrebbe che impoverire un linguaggio tutto interiore, che lascia ai margini il racconto dei fatti, per perdersi nell'interiorità, e riportare sulla pagina unicamente la passione e la gioia del viaggio e della scoperta. Il viaggio di Chantal Mauduit l'ha portata ad inseguire la festa della vita nei mercati “multicolori e multiculturali” di mezzo mondo, sulle pareti patagoniche e himalayane e sui mari dell'Antartide, pronta a perdersi nella contemplazione di un volo d'uccelli, o versare profumo sulle pietre roventi di una sauna improvvisata ai piedi dell'Everest , perché «appena si sale di quota il vissuto diventa un'esperienza sensoriale profonda». La salita in solitaria senza ossigeno al K2 , l'amato Chogorì, la sua luna himalayana, è più di un record, di una grande impresa “al femminile”, è un intenso momento di ricerca personale: «Grazie al Chogorì e alla sua magia, il mio cammino interiore ha sorpassato l'orizzonte in un rigoglioso accenno di fioritura». Perché «l'ego ghiaccia in fretta a 8000 metri, in compenso bisogna restare svegli ad attendere il suo disgelo». E se gli occidentali hanno ancora bisogno di eroi, la ricerca della saggezza la porta a scoprire la meraviglia ovunque. Nelle piccole cose, come i profumi delle zuppe nepalesi («Talvolta le immagini delle scalate in montagna si trasfigurano in odori, sapori»), come negli immensi altipiani himalayani dove «a volte il vento si placa, i ghiacciai dormono, il tutto non è che calma, contemplazione, meditazione». L'importante è «scoprire l'arte, l'arte di vivere, di ridere, di sorridere».
Non vi è una sola riga, a parte il frustrante incontro con il fondamentalismo islamico dei pakistani che non riescono a capire questa strana francese e il suo girovagare da sola per l'Himalaya, che riapra l'annosa questione sull'alpinismo femminile, con la mal dissimulata ansia da prestazione e da confronto che tante alpiniste hanno portato con loro nello zaino. Come ricorda Nives Meroi nella prefazione, viviamo in una cultura che nega le differenze e l'Alterità, dove un unico sapere esclude ogni altra forma di conoscenza: la tentazione di adeguarsi alla logica dominante per non venirne schiacciati è forte. In particolare le donne, e quindi anche le alpiniste, per evitare la negazione e la sottomissione, assumono comportamenti e logiche maschili. Chantal, al contrario, afferma con forza l'autonomia dello sguardo, la volontà di vedere e di sapere al di là dei cliché e dei percorsi già stabiliti, lasciandosi guidare dalle proprie passioni «come una banderuola mossa dalla brezza» e dipendendo totalmente dalla natura.>>




PREFAZIONE di Nives Meroi al libro “ABITO IN PARADISO

“…vivi la vita fino in fondo, lascia che la passione abbia libero sfogo, la passione che non ha mai rimato con ragione e non comincerà certo a farlo con gli alpinisti!”. 
Questo ci confessa Chantal; Chantal che ha visto l’Himalaya, che ha vissuto con tutti i sensi il paesaggio, le scalate, il sole, la luna e gli incontri. Un viaggio reale e sognato, lungo un percorso che scivola all’indietro, per cogliere il momento cruciale, al cuore di una passione, quando l’alpinismo diventa semplicemente il calice che porta alla bocca l’acqua della vita.
“Da queste spedizioni multicolori…ho imparato, ho capito qualcosa, forse molto, appassionatamente, alla follia!”.
Non ho conosciuto Chantal. Ci saremmo potute incontrare nel ‘98 al Nanga Parbat, la Montagna Nuda. Ma lei non c’era già più, se n’era andata poco tempo prima, durante la salita al Dhaulagiri.
L’ho fatto adesso, leggendo questo libro: all’inizio è stato un incontro difficile, quasi conflittuale, ma lentamente si è rasserenato; riga dopo riga mi sono avvicinata a lei e al suo cuore, così diverso, forse così simile al mio.
“ABITO IN PARADISO” è il complesso racconto del suo viaggio, una sinfonia in cui il suono di ogni strumento ha vita a sé e armonicamente da vita alla sinfonia stessa: qualsiasi sintesi non potrebbe che impoverirlo.
Nell’arco di un tramonto nel cielo himalayano Chantal fruga tra brandelli di ricordi, immagini, colori e odori e in un intreccio apparentemente casuale si affollano alla memoria le montagne, i viaggi e le spedizioni.
Questo libro è un crescendo fittissimo di sensazioni e suggestioni catturate con maestria, di letture coniugate con esperienze dirette, in cui il racconto scivola lungo le pagine mimando la molteplicità dell’esperienza che si affolla alla memoria, e rompendo la successione lineare del tempo fino a farci dimenticare persino la disposizione del discorso.
Ci tiene per mano Chantal, per condurci verso un modo diverso dell’essere e del corpo, un modo non gerarchico: prima frammentato e poi ricomposto nell’armonia della sua continua molteplicità e diversità.
Un viaggio ricco ed essenziale: a piedi. Sono poche le persone che amano viaggiare a lungo; viaggiare così è una frattura continua di tutte le abitudini e soprattutto, una smentita incessante a tutti i pregiudizi.
A piedi le distanza non sono più calcolate in ore ma in giorni. La lentezza con cui ti sposti fa rinascere la curiosità per i particolari, fino a farti percepire quanto è vasto il mondo e soprattutto quanto è complessa la varietà di genti e culture che lo popolano: proprio quella varietà su cui si regge l’equilibrio del mondo e che la follia del nostro tempo tenta, giorno dopo giorno di annullare.
E’ un viaggio incalzante il suo, dentro e fuori dalla nostra società: una società caratterizzata dalla cecità indotta dal recingere, delimitare, censurare. Una società che contrappone muro a muro; una società forte di un sapere che si basa proprio sull’esclusione delle altre forme di conoscenza.
La “città” da sempre maschile, ha piegato il femminile alle sue modalità di comportamento e anche le donne che si ribellano, per poter dare forma al loro dissidio, devono introiettare i comportamenti maschili e una cultura che conosce solo l’aut-aut.
Chantal si scinde fra tendenza alla conformità e necessità di dissonanza.
Chantal scruta dentro e oltre il muro della nostra società, dentro e oltre i suoi cordoni di morale e regole sociali; ma il suo è uno sguardo rovesciato, rovesciato sull’ io femminile, sulle profondità più scure del corpo e di quel groviglio di pulsioni che chiamiamo anima.
“Una maschera di fiamme, fuoco qui ed ora, fiamma libera, bocca libera, occhi liberi, la vita da guardare, parlare, da mangiare, da inghiottire, da infiammare!”
Questo viaggio è il percorso di una donna che impara a “vedere” a dispetto della volontà degli uomini e degli dei, e in un’ epoca in cui le donne hanno perso ogni autonomia in quest’arte, Chantal aspira ad uno sguardo e ad una voce autonomi. Perché la cultura dell’oppressione e della soppressione è ormai dentro di noi; è principio logico, abitudine percettiva, modalità del porsi domande e del rispondersi, è linguaggio. Si è installata nei fondamenti della conoscenza, è riconoscibile in ciò che le categorie del sapere hanno incluso e nell’Altro che hanno escluso.
Ma esiste una “Terza Via”, che può reintrodurre nel ciclo della vita ciò che il sapere vincente esclude: “ non è una porta, è orizzonte, orizzonte di luce, basta aprire gli occhi che l’infinito distende le ali: in alto, in basso, in bello. (…) bisognerà discostarsi ogni giorno al di là di ogni cliché, al di là della storia. Dotato di un occhio nuovo di bimbo, di acutezza estremizzata, l’uomo percepisce l’essenza di ogni gesto lontano dal suo schematismo razionale.”: sono le persone che coltivano la capacità di vedere ormai sommersa dal nuovo tempo. E’ un dono tutto umano questo, che la società corrompe e tacita, il dono di attivare l’intero nostro corpo, di vedere e dire il reale, di lasciar apparire sul verso di un’immagine il suo rovescio non visibile, non accontentandosi dei simulacri. “Dalla tempesta bisogna estrarre il suo senso assoluto, la forza sprigionata dalle differenze di potenziale. Dalle differenze di cultura, di razza, di colore…come non riuscire a separare l’arco di luce umana, il lampo della disparità, il tuono della eco delle lingue delle musiche delle poesie?”  >>




Hanno scritto su di lei:

André Velter è nato nel 1945 a Signy l'Abbaye nelle Ardenne. 
Divide la sua attività tra i viaggi di lungo corso (Afghanistan, India, Tibet) e la messa in risonanza delle poesie di tutto il mondo. 
Prolifico autore di saggi, fra le sue opere di poesia dedicate a Chantal Mauduit si ritrovano: 

LE SEPTIEME SOMMET, POEMES POUR CHANTAL MAUDUIT

UNE AUTRE ALTITUDE
(Poemese pour Chantal Mauduit)

  
L'AMOUR EXTREME
Oggi racchiusi tutti nel volume unico : 
L'amour extrême
et autres poèmes pour Chantal Mauduit


Un CD:


TOMBEAU DE CHANTAL MAUDUIT (CD)   




Emilla Gitana pubblica nel suo blog una delle poesie di Andrè Velter tratte dal libro ‘LE SEPTIEME SOMMET- Poèmes pour Chantal Mauduit’, 



Sempre tra i libri, si ritrova:

Savage Summit: The True Stories of the First Five Women Who Climbed K2, the World's Most Feared Mountain libro scritto da  Jennifer Jordan su cinque donne alpiniste, tutte scomparse in montagna, che fino al 2004 ascesero il K2, raccontando le loro storie attraverso i diari, lettere, biografie e interviste a quanti le conobbero.


Liliane Barrard (1948-1986) died on descent from K2 in 1986 
Julie Tullis (1939-1986) died on descent from K2 in 1986 
Alison Hargreaves (1962-1995) died on descent of K2 in 1995 
Wanda Rutkiewicz (1943-1992) summited K2 in 1986, died on Kangchenjunga in 1992
 
Chantal Mauduit (1964-1998) summited K2 in 1992, died on Dhaulagiri in 1998 

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Il ritrovamento da parte degli italiani del suo corpo e della sua tenda:




“Siamo molto legati al ricordo di Chantal Mauduit, specie qui a Vicenza, dove nel 1998 alcuni alpinisti tornarono dal Dhaulagiri testimoni della morte della scalatrice francese. Recuperarono la sua minuscola tenda d'alta quota dove c'era scritto «Datemi un alito di vita e io andrò, ospite delle altezze». Quella stessa tenda fu issata in uno dei posti più splendidi e inaccessibili che può scoprire lo sguardo di un alpinista, in un colle a 5600 metri nell'Hindu Raj pakistano, tra ghiaccio e roccia che ricordano le montagne di casa di Chantal, il Monte Bianco.”
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La nomina del suo Collesu planetmountain
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racconto di Alberto Peruffo sulla Spedizione CHIANTAR 2000 sul Colle di Chantal:    
                                                  da http://www.intraisass.it/news.htm 

9 Agosto. Campo Base, lago Atar, quota 3850
Tel. 00873/761315919 ore 15-19 ora italiana.
Postille d'alta quota di Alberto Peruffo

Cari amici,
disceso dal Colle Chantal Mauduit, così lo chiamai il primo giorno in cui mi accampai alla quota di circa 5600 metri in attesa che Tarcisio e Mirco tentassero di salire la via poi chiamata Sogni Infranti, provo a scrivervi alcune righe d'alta quota. Il Colle è qualcosa di meraviglioso. A sinistra e a destra le due difficili e belle cime che saliremo nei giorni 6 e 7, dietro i Garmush, complessi e accattivanti con il loro rigurgito di seracchi; davanti, snello e solitario, la piramide del Kampur, a fianco del quale compare in lontananza la maestosa catena del Karakoram con il Nanga Parbat sullo sfondo. Sopra e sotto la mia testa bastioni di granito perfetto e grattacieli di ghiaccio mi contendono lo sguardo. Che dire? E' uno dei luoghi più belli e selvaggi che ho visto in montagna. Un giusto e duraturo omaggio all'effimera bellezza di Chantal Mauduit, dolce e valente alpinista perita sul Dhalaugiri e sulla cui tenda passeremo sofferte e indimenticabili ore d'alta quota. 
Un pensiero per i due miei compagni, forti e motivati, forse anche più di me, frastornato e attonito di fronte a spazi così grandi e incontaminati, lontani da ogni affetto umano. Tarcisio, un mulo indomito, sia nella progressione, continua e precisa, sia nel pensiero, rigido e inflessibile. Mirco, una macchina perfetta per le salite in quota; non perde un colpo, è sempre lucido, con i suoi occhi interrogativi pronti in ogni momento a darti una semplice e rassicurante risposta: un compagno d'oro. 
Dopo due notti al Colle Chantal su una tenda da un posto e mezzo (io e Tarcisio dormiremo a turno una notte all'aperto...) e due cime guadagnate con fatica, comincio anch'io, neofita delle alte quote extraeuropee, a respirare un po' meglio.
Un saluto e un bacio.
Alberto.

Venerdi 25 agosto. Campo Base, lago Atar, quota 3850
Tel. 00873/761315919 ore 15-19 ora italiana.
Un primo bilancio della Spedizione Chiantar 2000 di Franco Brunello

Ultimo giorno al campo. Tiriamo le somme di questa azzeccata e fortunata spedizione. Indovinata la località prescelta, ottima l'organizzazione logistica, difficili e appaganti le mete prefissate. Abbiamo salito le tre massime vette della vallata e molte altre ancora, realizzando difficili itinerari sia su ghiaccio che su roccia. Già i mezzi di informazione hanno dato ampio spazio alla nostra attività, ed altro ancora lo aspettiamo quando divulgheremo l'eccezionale massa di informazioni ed immagini raccolte. Abbiamo esplorato 5 diversi bacini glaciali: spazi immensi occupati dai ghiacci, un'orgia di cime, di pareti rocciose, di pilastri, di canaloni e seracchi. Una infinità di problemi alpinistici di elevato livello. Abbiamo percorso per 8 giorni itinerari nuovi e sconosciuti del massimo interesse. Il vento scuote la tenda mentre scrivo e porta gocce di pioggia. Il tempo coperto e freddo accentua la malinconia del momento e l'inquietudine che trasmette questa piana ai margini del grande lago. In un passato non lontano le forze della natura qui si diedero battaglia. Frane di sassi e di ghiaccio, neve e valanghe, e inondazioni del lago arrestarono le schiere di salici e di betulle che salivano a colonizzare la valle. Tronchi divelti e dilaniati, sassi e macigni, ceppaie martoriate di ginepro sono sparsi ovunque. Piccole mucche dal pelame arruffato dal vento, minuscole capre spigolano qua e là un filo d'erba. Due pastorelli osservano da lontano il nostro campo. Anwar, il rappresentante dell'agenzia che ha organizzato in modo perfetto il nostro soggiorno, mi illustra i suoi progetti: "Qui il prossimo anno costruiremo un loodge, già abbiamo deviato il torrente per portare l'acqua e ricavare degli orti per la verdura. Alcune rocce impediscono il passaggio lungo il lago, ma installeremo delle corde fisse e pioli in ferro. Nel lago semineremo anche avannotti di trota, per poter pescare. Se poi mi date i vostri nomi, farò incidere una targa, a ricordo del vostro passaggio." Nessuna di queste iniziative mi entusiasma, ma sono consapevole che questa località è destinata a cambiare rapidamente, e in peggio. Qualche cosa è già cambiato da quando, un mese fa, siamo arrivati accolti dai bambini dei villaggi. Ora parte del gruppo è partita per compiere un lungo trekking, mentre gli alpinisti sono rimasti. Emblematica questa separazione fra due diverse realtà, fra due modi di vivere la montagna e di concepire l'attività alpinistica. Non metterò più insieme, in una spedizione alpinistica, due mondi ormai troppo diversi fra di loro. Non voglio più vedere dei buoni alpinisti spaesati di fronte a problemi troppo grossi e d'altronde incapaci di attuare senza il mio aiuto delle iniziative alla loro portata. D'altronde era più importante dedicare tempo ed energie alla soluzione dei problemi maggiori. E quando mi sono trovato all'ultimo campo sotto il Garmush con due compagni meno allenati di me, ho preferito salire da solo che rischiare, legandomi con loro, di fallire la vetta. Così ha fatto Tarcisio quando ha notato che i due compagni con i quali già aveva percorso gran parte della via erano più lenti di lui. L'importanza della via, il risultato di prestigio da conseguire, le esigenze degli sponsor sono motivi più che sufficienti a giustificare qualche piccolo strappo all'etica alpinistica. Qualsiasi meta importante richiede un supporto logistico e tecnico consistente, ma raramente chi è teso al risultato è disposto a riconoscerne l'importanza ed ha occhi per cogliere aspirazioni ed aspettative di chi fornisce tale supporto. Ad oltre settemila metri, sul Dhaulagiri, avevo trovato e recuperato la tendina d'alta quota di Chantal Mauduit, la famosa alpinista francese che vi aveva trovato la morte. Questa tenda aveva per me un elevato valore affettivo e costituiva un importante cimelio storico. E' stata portata in alta quota, utilizzata e abbandonata quando non è più servita*. C'erano altre cime alle quali dedicarsi. Sulla tendina, a grandi lettere, c'era scritto: " Datemi un alito di vita ed io andrò, ospite delle altezze". Forse era destino che quella tenda restasse per sempre ospite delle altezze, ma con essa resta anche qualche cosa di me.

* La tendina di Chantal Mauduit ha avuto purtroppo una vicenda complessa  e sofferta. Lasciata al colle per tentare la cresta integrale del Shashalay (affascinante problema alpinistico di cui si conoscono solo le due vie di salita od eventuale discesa, quelle della Cima Nicolajewcka e dell'Italia Peak, collegate da una cresta lunga più di 3 chilometri) o per permettere agli alpinisti della spedizione di provare il fascino di un pernottamento alle alte quote in ambiente splendido e selvaggio, man mano che i giorni passavano, per un motivo o per un altro (spesso il brutto tempo ha bloccato ogni iniziativa per la difficoltà e la pericolosità del canalone che porta al colle) nessuno è più risalito fino alla tenda. L'ultimo giorno utile della spedizione - mercoledì 23 agosto,  mentre Brunello  Peruffo e Romio erano impegnati nell'ultima importantissima esplorazione - un estremo tentativo è stato compiuto da Mirco Scarso con due compagni, i quali - forse anche spaventati da una fresca slavina caduta da poco nel centro del canalone - non se la sono sentita di affrontare l'impegnativa salita. Mirco saggiamente non ha proseguito da solo, conoscendo ciò che gli aspettava in discesa (sono necessarie delle doppie su ghiaccio ripido e bisogna avere almeno un compagno per trasportare con sicurezza il materiale). Come dice Franco, era probabile destino che la tendina restasse ospite solitario delle altezze, ma forse non per sempre, perché siamo sicuri che altri alpinisti torneranno in questo bellissimo luogo dove ammireranno stupiti il raro e grazioso cimelio - ora ornamento -  che Chantal ci ha lasciato (n.d.r.).


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14 maggio 2005 -  La montagna è femmina  (di Cicogna Antonella)
 

La storia dell' alpinismo è stata scritta anche dalle donne:
da marie paradis, che in cima al bianco nel 1808 fu trascinata di peso,
a lynn hill, che su una delle pareti più difficili del mondo ha fatto nel ' 94 quello che nessuno più ha saputo ripetere
"noi non siamo quegli esseri pavidi e debolucci che i signori uomini vogliono far credere" mary varale
"mi chiedo per quale motivo agli scalatori non si facciano mai domande sulla paternità" alison hargreaves
"non vorrei che si parlasse di me in montagna solo perché sono donna. sono un' alpinista e basta" nives meroi

Ci hanno provato in molti. I numeri uno. Invano.
Poi è arrivata lei. Armoniosa, agile. E ce l' ha fatta in barba a tutti. L' americana Lynn Hill è stata la prima a realizzare la salita in libera e in giornata della difficilissima via "The Nose" su El Capitan, il monolito di granito più imponente al mondo; tre Empire State Building uno sopra l' altro, liscio e strapiombante. Non ha sbagliato un passaggio, non è mai caduta e da quel 20 settembre del 1994 nessuno ha saputo fare il bis.
La Nord dell' Eiger, la parete assassina, fu scalata per la prima volta al femminile nel 1964 dalla tedesca di origine estone Daisy Voog, ma c' è chi 12 anni fa l' ha salita in solitario, in inverno, in 17 ore. Ed era un' altra donna: la francese Catherine Destivelle, occhi verdissimi, fisico da schiattare, veterana di ascensioni agghiaccianti sulle Alpi, spesso da sola e in prima femminile.
Che dire poi del Cerro Torre ? Da buon patagonico non ha saputo dire di no alla grinta fascinosa di Rosanna Manfrini, campionessa italiana di arrampicata, prima donna in vetta nel 1987.
Gli esempi possono continuare.
Le donne in montagna sanno salire le cime più alte, le pareti di roccia più difficili. In arrampicata sportiva sono eccezionali. Sulle cascate di ghiaccio mettono nel sacco difficoltà da brivido. Altro che restarsene al caldo sotto le coperte.
"Noi non siamo quegli esseri pavidi e debolucci che i signori uomini vogliono far credere", aveva replicato Mary Varale a una delle tante obiezioni sull'argomento donne montagna. Moglie del giornalista sportivo Vittorio Varale, negli Anni 30 fu tra le prime a superare il VI grado e a essere accettata dall' élite alpinistica di quei tempi: dagli uomini insomma.
Le donne già alla fine del XIX secolo si erano dimostrate forti, avevano toccato le cime delle più alte montagne delle Alpi, ma i tabù sono rimasti duri a cadere. Ancor più quando si è trattato di salire i colossi himalaiani. "Rifiuteremo sempre la richiesta di prendere parte a una spedizione su questa montagna a qualsiasi signora. Le difficoltà sarebbero troppo grandi", scriveva il Comitato inglese per l'Everest nel 1924. E non stupisce che la prima donna sul tetto del Mondo arrivò 22 anni dopo Edmund Hillary e Tenzing Norgay, i primi salitori. E ciò non senza qualche problemino familiare: Junko Tabei aveva già salito i 7.577 metri dell' Annapurna III. Ma la tradizione giapponese non contemplava che una donna lasciasse solo un uomo. "Non sta bene !", aveva tuonato il marito di Junko. "Ti lascio il via libera solo se facciamo un bambino". Junko accettò: anche lei voleva un figlio. E quattro anni dopo, nell'Anno internazionale per la parità dei diritti tra uomini e donne (1975), la nipponica, salendo dal Nepal, divenne la donna più alta del nostro pianeta, precedendo di 11 giorni la tibetana Phantog, salita dal versante Nord con una spedizione cinese.
La prima vetta di un Ottomila a essere calcata da piedi femminili era stata, l'anno prima, quella del Manaslu, anche quella volta a opera di una spedizione femminile nipponica. In cordata con gli uomini o i propri compagni, da sole, con altre alpiniste, le donne hanno tenacemente conquistato nuovi spazi d'azione verticale. Ma come in molti altri campi, si sono ritrovate i riflettori addosso quasi più degli uomini; nel bene e nel male.
"La gente troverà sempre qualcosa per cui criticarti, indipendentemente da ciò che fai", raccontava Alison Hargreaves, che a maggio del 1995 era stata la prima donna a raggiungere l' Everest senza far uso di bombole con l'ossigeno e portatori, e tre mesi dopo si apprestava a salire il K2, in barba al fatto d'essere madre di due bambini. "Mi chiedo per quale motivo agli scalatori non si facciano mai domande sulla paternità, eppure anche loro lasciano a casa mogli e figli". Giunse in cima, ma perse la vita in discesa con altri sei scalatori, spazzata via dal vento.
E la querelle sulle mamme alpiniste soffiò ancora più forte. Il primato femminile sulla seconda montagna della Terra (ma la più temuta) era però di un'alpinista dell'Est, Wanda Rutkiewicz. "Wanda è la prova vivente che in alta quota le donne sono capaci di prestazioni incredibili", aveva detto Reinhold Messner. La polacca era riuscita a sopravvivere alla tempesta che l'aveva bloccata due notti di seguito nella zona della morte, oltre gli 8.000 metri. Quel 1986 fu l'anno delle tragedie: 25 scalatori in cima al K2, 17 morti in discesa. Ma sei anni dopo anche la "signora degli Ottomila" scomparve, sul Kangchenjunga (8.598 m), che avrebbe dovuto essere il suo nono colosso.
"Non vorrei si parlasse di me in montagna solo perché sono una donna. Un alpinista è un alpinista e basta. È chiaro che non siamo uguali agli uomini, loro sono più forti fisicamente. Noi abbiamo più resistenza mentale", dice Nives Meroi, l'italiana più "alta": sei Ottomila già saliti, senza ossigeno e portatori. Tre Ottomila in 20 giorni, la prima donna al mondo a realizzare questo exploit in così poco tempo. Nives fa coppia fissa con il marito Romano Bennet. E non ha dubbi: "Preferisco parlare di complementarietà più che di differenze".
Anche Chantal Mauduit era di questa idea. "L'importante è legarsi in cordata con chi ti è veramente amico, donna o uomo che sia". La quarta donna sul K2, sei colossi himalaiani dal 1992 al 1997, viveva l'alpinismo con spirito romantico. Amava cambiare orizzonti, mettersi alla prova. E non sopportava il razzismo. Scomparve sul Dhaulagiri (8.167 m) a poco più di 30 anni.
"Donne/ tu tu tut / in cerca di guai..." qualcuno potrebbe canticchiarla di già. Ma forse tutto sta nel D4DR gene, il gene dell'avventura, dell' intraprendenza, della capacità di assumersi rischi e responsabilità. Pare che sia in tutti noi, uomini e donne senza distinzione; solo che in loro, negli intraprendenti e negli audaci, è un bel po' più lungo.
DONNE E ALPINISMO- LE PIONIERE
Marie Paradis Non è mai stata alpinista, ma fu la prima donna in cima al Monte Bianco. Inserviente in una locanda di Chamonix, nel 1808 fu coinvolta nell' impresa da Jacques Balmat e Michel Paccard, primi salitori (1786) della vetta più alta delle Alpi. Alla sua salita però non fu mai data particolare importanza in quanto lei stessa raccontò a Henriette d' Angeville, la seconda donna (e prima alpinista) in cima al Bianco (1838), di essere stata quasi trascinata su di peso.
Lucy Walker Nata nel 1835 in Inghilterra, figlia del grande alpinista Francis Walker, fu la prima donna a salire il Cervino lungo la cresta Hörnli. Era il 22 luglio 1871. Per scalare più agevolmente, fece ciò che ogni donna non osava: si levò la lunga e ingombrante gonna per procedere in sottoveste. Sua anche la prima salita al Balmhorn nel 1864. Nelle sue ascensioni sulle Alpi, si dice che la sua dieta fosse a base di pan di spagna e champagne. Morì nel 1916.
Mary Gennaro Varale Nata nel 1895 a Marsiglia, fu tra le pioniere dell' alpinismo femminile italiano, una delle prime a superare il VI grado. Iniziò a scalare nel gruppo dell' Ortles Cevedale per poi inanellare, tra il 1924 e il 1935, oltre duecento vie in cordata con i migliori alpinisti dell' epoca. Quasi tutte le sue salite sono prime femminili. Tra le sue prime ascensioni assolute più strabilianti, lo Spigolo Giallo (Cima Piccola di Lavaredo, 1933) e la diretta alla Sud Ovest del Cimon della Pala, la parete Sud della Torre Orientale del Vajolet, la Cima dei Tre (Civetta Moiazza), Punta Angelina (Grigne). Morì nel 1963 a Bordighera. Era sposata al giornalista sportivo Vittorio Varale.
Paula Wiesinger Nata nel 1907 a Bolzano, fu protagonista indiscussa dell' era del VI grado. Alpinista fuoriclasse, con il forte Hans Steger aprì vie nuove di notevole difficoltà in Dolomiti con numerose prime femminili: la Solleder in Civetta, la Sud della Torre Winkler, la Est del Catinaccio, lo Spigolo Sud di Punta Emma. Suo il primo tentativo alla Nord della Cima Grande di Lavaredo. Fu campionessa del mondo di discesa libera a Cortina nel 1932 e collezionò 13 titoli di campionessa d' Italia. È scomparsa nel 2001.
Loulou Boulaz Nata nel 1909 a Ginevra, fu tra le scalatrici di successo degli Anni 30 50, una tra le prime a praticare un alpinismo di notevole livello tecnico, spaziando dalle Alpi alle montagne extraeuropee (Himalaya, Caucaso, Groenlandia, Perú). Fu la prima donna a tentare, nel 1937, la Nord dell' Eiger. Tra le sue realizzazioni sulle Alpi: la prima ascensione femminile della Nord delle Grandes Jorasses (seconda assoluta), la seconda salita alla Nord dei Drus, la ripetizione della Cassin alla Nord Est del Pizzo Badile ela prima femminile allo Sperone Walker. Partecipò alla prima spedizione di sole donne al Cho Oyu nel 1959. Morì nel 1991.
Claude Kogan Nata nel 1919 a Parigi. Il suo nome è soprattutto legato alle imprese sulle montagne extraeuropee, ma nelle Alpi realizzò diverse scalate (tra queste la Sud alla Noire de Peuterey come prima di cordata). Nei primi Anni 50 scalò nelle Ande peruviane: seconda ascensione del Quitaraju (6.040 m) con record mondiale d' altitudine per una cordata femminile, e cima del Salcantay (6.300 m). Poi si concentrò sulle vette himalaiane: nel 1953 salì il Nun (7.135 m), nel '55 il Ganesh I (7.406 m), poi tentò il suo primo Ottomila, il Cho Oyu (8153 m), fermandosi a 7.700 m. Dopo una spedizione in Groenlandia ritornò all' attacco del Cho Oyu nel '59, organizzando la prima spedizione di sole donne in Himalaya. Un'impresa che si concluse con l'insuccesso e la sua morte, quando era oltre il campo IV, prossima a coronare il suo sogno.
Gwen Moffat Nata nel '24 in Inghilterra, fu certamente tra le più importanti scalatrici degli Anni 60. Ribelle (per scalare, disertò dall'esercito a 21 anni) e determinata, riuscì ad aprirsi un varco tra i professionisti dell'alpinismo diventando la prima donna guida alpina in Inghilterra. Ora è scrittrice di successo di racconti gialli. >> 
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Una foto a lei dedicata dal fotografo Michaël Charles:

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Lo spazio in una piazza
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Un suo video


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Il sito Ufficiale dell’Associazione a suo nome: