“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Alta via n.1: Croci

segue da: Montagna sgretolata dalla Storia

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Coro Enrosadira, gli alpini e comunita di Moena al Passo Lusia e Val Minera



3° Giorno.  Dal Rifugio Lagazuoi al rifugio Giussani

da Cima Falzàrego passando per Col dei Bòs, ai piedi della celebre e tragica fortezza rocciosa del Castelletto, famosa per gli eroici eventi della guerra 1915-18.





Non sei che una croce
(di R. Pezzani)


Nessuno, forse, sa più
perché sei sepolto lassù
nel camposanto sperduto
sull'alpe, soldato, Caduto.

Nessuno sa più chi tu sia,
soldato di fanteria;
coperto di erbe e di terra,
vestito del saio di guerra,
l'elmetto sulle ventitre.

Nessuno ricorda perché
posato la vanga, il badile
portando a tracolla il fucile
salivi sull'alpe; salivi
cantavi e di piombo morivi
ed altri morivan con te.

Ed ora sei tutto di Dio;
il sole, la pioggia, l'oblio
t'han tolto anche il nome d'in fronte.
Non sei che una croce sul monte
che dura nei turbini e tace
custode di gloria e di pace.







“Ho fede che tutti quei cimiteri di guerra, segnanti le tappe tragiche dell'eroica ascensione delle fanterie italiane verso le vette delle Alpi Dolomitiche, siano stati religiosamente conservati. I soldati non avranno mai, e in nessun altro luogo, sepoltura più onorata del terreno sul quale caddero combattendo.

Voi, alpigiani, e voi, appassionati della montagna, escursionisti e sciatori, passando di là in qualche bella giornata di sole, affaticati dall'erta di sentieri impervi e pericolosi, sosterete alla loro presenza. 


Col fiato grosso e col cuore in tumulto, fissando gli occhi su quelle croci, sarete compresi dell'indicibile fatica e dell'eroico coraggio di quei fanti che attaccarono quelle montagne biancheggianti di nevi e incrostate di ghiaccio. Essi, anche sotto la furia delle tormente e l'imperversare delle tempeste paurose, raggiunsero quelle vette e, con le baionette e con la dinamite, le strapparono al nemico, che le difese con ostinazione, al riparo di opere militari munitissime e apprestate con ogni insidia ...




... Di qualunque paese voi sarete, escursionisti od alpigiani, davanti a quelle croci, in quel luogo grandioso e selvaggio, vi sentirete stringere il cuore, e sarete compresi da un senso di grande ammirazione ...”

                                                           

                                                                  Ugo Cappuccino
                                 (Volontario Brigata Alpi)



Croci

Oggi la terra è silenziosa. Non un frastuono di mina si sente nell’aria, non polvere  spessa e soffocante si solleva nello spazio circostante, nessuna luce intermittente avverte il soldato dell’imminente scoppio: solo una calma spaventosa regna, e poca erba cresce ai piedi della croce spinata.

Due lunghi inverni hanno visto passare volti emaciati dal freddo e dalla fame; leggi dell’astuzia e della tecnica ingegneristica hanno consentito piccoli avanzamenti in un territorio sventrato dalle mine e dalla natura; strategie di guerra e abilità alpinistiche hanno spinto innanzi piccoli gruppi d’ardito coraggio, che mai avrebbero abbandonato il loro incarico neanche con la sopraggiunta morte; nuvole fresche di violenza inaudita hanno scaricato a valle la loro furia omicida, stanca e fresca neve che contrasta l’avanzata e al contempo incanta lo stremato soldato.

Filo spinato a segnare la trincea: quel labile confine tra la speranza e la morte, l’orgoglio e la conquista, la rassegnazione e la ritirata. Piccoli passi verso fugaci linee nemiche, per la conquista di un versante, di un fianco, di un canale.   Mai di una cima.

Elmetti che si incontrano sottoterra, nel ventre della montagna, nei corridoi a tunnel, non a progredire in avanti, ma a far crollare ancora più profondamente quel luogo già instabile per i tremendi colpi inferti dalla natura, dalle intemperie, dall’artiglieria nemica, dettati dalla speranza della sopravvivenza.

Coscienze umane si incontrano sulle pareti, si aggrappano a quei fatui appigli rocciosi, esaltando la nebbia che cela la loro presenza e garantisce la buona riuscita della sorpresa azione, quell’ardita impresa guerresca che molto spesso terminerà in una brusca ritirata di lì a breve.

Ma questa guerra di morte ha conosciuto la vita una ad una, il dolore, la fame, la stanchezza, la tenacia, la rassegnazione, ma mai la sconfitta del singolo soldato. Ogni passo indietro del nemico è stata una trincea avanzata di caparbietà nella vittoria sulla montagna, sul gelo, sugli stenti, sul quotidiano futuro.


Conquistare un fianco di parete è stato ogni volta pari ad aver fatto sventolare la bandiera sulla cima; artiglieria che supera ostacoli pietrosi e insormontabili, e ciascun soldato carico del proprio pesante fardello vince la sua battaglia contro quelle forze naturali ed umane che gli garantiranno la vita, e con essa il ricordo.

Oggi, noi spettatori di quel domani ci facciamo carico della memoria di altri: nel ritrovare una lamiera o una scatoletta arrugginita riportiamo in vita quella miseria di guerra, episodi funesti di Storia italiana e straniera stampigliati nelle pieghe del cervello di chi è rimasto su questa terra a raccontarne la disperazione o a cancellarne per sempre la tragedia.

Tanti sono stati, troppi ne abbiamo persi sotto l’incitamento dei loro capitani, tenenti, caporali, generali; a centinaia sono rimasti lassù, a non doversi arrendere neanche davanti all’evidente sconfitta, nello stupore di essere ancora vivi dopo aver sfiorato il nemico ed aver incrociato il suo sguardo, quel fugace scintillìo di pietà umana che talvolta sopravvive nelle storie più inverosimili di civile solidarietà.

Italiani e Austro-ungarici, sfilate di uomini in divisa ciascuno a baluardo della propria e personale linea di confine, quell’aleatorio vuoto che oggi è pieno di vittoria, domani è inghiottito nella disfatta. Fratelli nell’ordinaria giornata di un giorno di pace, tatticamente feroci nemici in un giorno di quotidiana guerra di posizione.

Artiglieria, muli, vettovaglie, legna da ardere, corde, tende, sigarette si mescolano agli animi affranti dalla lontananza degli affetti, troncati da un destino incognito, restando solo fucili e baionette imbraccati a puntellare lama e proiettili nel coraggioso cuore nemico.

Albe e tramonti si susseguono nello stesso grigiore, lampi temporaleschi nella notte si confondono con le luci degli schioppi o con i potenti colpi di granate, urla di vittoria irriconoscibili nelle detonazioni della montagna, furiosi blocchi di calcare che sbarrano la strada e creano vie di fuga o di avanzamento per una libertà mai evidente, così come silenziosa  e sotterfuga può essere la vittoria.


Filo spinato intorno alla croce, unica difesa di un gelido abbraccio concesso ai caduti, che lì resteranno a memoria d’acciaio, intrecciato ciascun ago per ogni vita rimasta lassù, a braccia aperte a circondare scenari di frantumi naturali e umani, pensieri inimmaginabili e realtà vissute.

Alzo lo sguardo dei miei pensieri e vedo lei, lontana, vicina, a Sud, ad est, e anche dal lontano ovest: è la croce della Rozes, alto pinnacolo che si erge fiero su tutto lo scenario ampezzano. 


Qualunque lato della Regina delle Tofane incontri, lei si staglia dappertutto, a ricordare che c’è, testimone di vicinanza al cielo e alla vittoria, alla speranza e alla fatica, alla soddisfazione e alla grinta, unica veste di spigoli e pilastri che la sostengono per oltre 1000 metri di parete, frastagliata, corrosa, a tratti solida e impertinente.






Dopo quieto girovagare nella Storia, lascio correre lo sguardo a quelle strapiombanti pareti che appiccano vie famose di tutto rispetto, attirando arrampicatori e salitori di tutto il mondo, non ultima in questo giorno la nuova via aperta dagli sloveni.


Affronto i larghi tornanti sempre con l’occhio attratto da queste guglie che precipitano verso il cielo, nell’appiombo dell’aereo abisso, pareti verticali che svettano confondendosi nel colore delle sottostanti ghiaie. Sopra di esse, nevai che dalle forcelle scendono imperfetti come scivoli a delimitarne la cornice.


Ai piedi delle bandiere del rifugio, ascolto trasecolata il suono della sponda che sibila al fresco vento: guardo l’incanto di questa Forcella stretta e arroccata ed immagino schiere di soldati che silenziosamente abbandonano il loro territorio di conquista, lasciando nelle fredde postazioni solo gelo e disperazione.
Ma quella croce onnipresente ci accompagnerà ancora nel giorno che verrà, a ritrovare l’immagine di giorni sereni in cui la Storia ha restituito a ciascun soldato la propria civile dignità.



Segue con : Enrosadira, la Leggenda del Rosengarten

Alta Via n.1: Acqua e dialoghi


DA UN PATRIMONIO DELL’UMANITA’ ALL’ALTRO



Dolomiti care, incanto delle Alpi, gemme del mondo, superba fusione dell'orrido con il divino, sublime architettura di un paesaggio da sogni.
                                                                                                                                       Giovanni Sala   (Capitano degli Alpini)



LUNGO I SENTIERI DELL’ALTA VIA DELLE DOLOMITI

di Piero Rossi

 

“Qua e là dove la montagna è rimasta ferma ai tempi dei pionieri, e solo i camosci vivono indisturbati, esistono difficoltà maggiori, per lo più di ordine psicologico, date dall’isolamento, dai notevoli dislivelli, dall’ambiente severo, dalla mancanza d’acqua, dal grande silenzio… E dalle nebbie che spesso calano veloci ad ovattare l’ambiente!
Comunque sia, questa Alta Via passa per luoghi veramente straordinari e unici, nel cuore selvaggio delle Dolomiti.”(Italo Zandonella Callegher)


1° Giorno. Dal Lago di Bràies al Rifugio Biella alla Croda del Becco
Dislivello: 900 m ; Lunghezza: circa 6 chilometri

Acqua e dialoghi

Cosa avranno da dirsi di così intenso questi cieli sopra di me lo scoprirò solo più tardi, quando il pianto ininterrotto di ciascuno di essi mi convincerà della solitudine dei loro sentimenti. Per adesso che devono rassicurarsi solo di non essere soli, che la loro disperazione è condivisa con quanti hanno deciso di solcare queste terre silenziose a picco su altri specchi d’acqua, il loro frastuono mi garantisce la compagnia di salita. E l’unione di queste lacrime fa sì che il dialogo dei cieli sia schietto e potente, circondato da un alone di contrasti tra roccia, nebbie, soffi di vento e neve.
Come ci sono finita a portare in giro 13 chili di sofferente peso sulle spalle, proprio non lo so. Il dato certo è che mi sono ritrovata entusiasta alla stazione di Pescara, in piena notte, tra lo zaino gigantesco di Gino e quello più adeguato di Fernando, alla volta del Lago di Braies, specchio d’acqua di verde splendente circondato da strapiombanti pareti.
Eh già, l’idea e la realtà è quella di affrontare la più classica delle Alte Vie, la prima, la numero 1; quella che ti dovrebbe far entrare trionfante a Belluno, dopo aver macinato chilometri di sentieri, ferrate, guglie, panorami, tramonti, varianti, marmotte.
Ma per adesso la verità è un’altra: il peso sulle spalle mi inchioda al terreno, ascolto la furiosa ira dei cieli che ce l’hanno con qualcuno, ma per fortuna non con noi, visto che la loro discussione è poco fuori dal nostro percorso, anche se la mia ansia cresce ad ogni schicchera di quel collerico vociare.
La mia atavica paura dei temporali mi fa camminare a scatti con il viso alto, a contemplare alternativamente con fermissima apprensione quei pinnacoli frammentati in forma di alberi, tesi e mozzi verso il cielo, bruciacchiati ed isolati, ed il collo rincarcato verso il terreno sconnesso sotto i piedi. I flash che si susseguono non sono l’aprirsi e chiudersi del mio occhio, ma lo scintillio delle risate generato da quel divertimento giocoso degli ampi spazi grigi che lassù continuano a divertirsi alle nostre spalle.
Cascate d’acqua dall’alto, molto più copiose, irrompono nella stretta valle andando ad alimentare ruscelletti che scompaiono nelle viscere della terra; mi ritrovo a parlare la lingua degli stranieri con un cacciatore (?), ampi sorrisi per un’incomprensibile idioma, mentre ascolto disperata i tremori della terra.
La ricongiunzione con i compagni di cammino è nella valletta verdeggiante cosparsa da isolati e giganteschi massi, scenario lunare in quel plumbeo paesaggio, ma il disseminato e  cospicuo percorso di ancora isolati e slanciati alberi non mi tranquillizza per nulla. La salita riprende più dolce e più aspra: è questa roccia così fessurata, incombente, appagante che mi incanta, tanto da non sentire le gocce d’acqua più abbondanti che cascano da quel cielo parlottante.
Chiuso il paesaggio ed il panorama, si procede in un ambiente selvaggiamente roccioso,  tra acqua che ormai scende lungo il corpo e su ogni dove; rimbombanti discussioni che si alimentano sulle creste ai nostri fianchi, accelerano involontariamente il nostro passo verso l’uscita dell’anfiteatrale Forno.
Alla Forcella cedo, un attimo di riflessione all’involontaria ricerca di quella tanto decantata dalle guide cappelletta votiva, ma una fragorosa esortazione mi costringe a precipitarmi verso quello sventolìo di bandierine miste, nepalesi, italiane, ladine, che circoscrivono l’accogliente rifugio.

Zuppi ma contenti, il tempo implacabile ancora si prende gioco di noi, impedendo all’irrequieto Fernando di giungere in cima alla Croda, ormai avvolta dalla più completa umidità dell’aria, lasciando a me l’ingrato compito di gustarmi una delle più buone torte alle noci che abbia mai assaggiato in vita mia!

E sulla speranza di una giornata migliore per l’indomani calano le nebbie sulla valle, lasciando scoperte cime e picchi a custodire l’ampio, grigio, plumbeo cielo.




segue con : Acqua e Silenzi

Alta Via n.1: Acqua e Silenzi



2° Giorno.  Dal Rifugio Biella al Rifugio Fanes-Lavarella
Dislivello:  in salita 565 m; in discesa 830 m
Lunghezza:  circa 14 chilometri
Dal Rifugio Fànes - Lavarella al Rifugio Lagazuòi, per la Forcella di Lech, 2486 m.
Dislivello: in salita 1070 m; in discesa 375 m
Lunghezza: circa 11 chilometri


Acqua e silenzi



2473 metri: letta la quota sull’implacabile cartello mi accascio affranta al suolo, ben sapendo quanto sarà faticoso risollevarsi con il peso dello zaino e la stanchezza ormai imponente nelle gambe.

Non mi viene neanche da pensare ai primi salitori delle pareti immense che ho di fronte: Cima Scotoni e la sua frastagliata eppur compatta balconata a picco nella Valle; quell’andare su entusiastico e ardito del trio, Lino Lacedelli, Luigi Ghedina e Guido Lorenzi nel lontano 1952,  quando salirono alla conquista della grande parete sud-ovest con passi di gatto, chiodi e tanta maestria. Non mi viene in mente perché ho il cervello annebbiato dalla stanchezza, dal gelo, dalla pioggia e soprattutto dalla certezza che lassù, a quei 2752 metri di altitudine del Rifugio Lagazuoi, non ci arriverò mai!

Faccio un lungo passo indietro a ritrovare l’inizio di quella estenuante ed entusiastica giornata, iniziata tra i richiami lunghi e ridenti di giovani marmotte ormai sveglie dal letargo invernale, scorazzanti sui prativi percorsi che si allungano dal rifugio Biella al primo rifugio Sennes, ancora emergente dalle sollevanti nebbie che in questo grigio mattino contrastano il paesaggio.

Da qui prosegue la lunga discesa, tra baranci e rododendri, tornanti e prati fino alle abbandonate case di Fodara Vedla, dove  un abbozzo di idea viaggiante lungo tracce di sentiero per non perdere quota è subito smorzato dall’impervia impresa sconosciuta: il terreno scosceso e bagnato renderebbe troppo arduo l’arrivo alla meta. L’erta discesa a picco su Ostaria Pederù mette a dura prova i nostri quadricipiti e le nostre orecchie, assordate dallo scampanellìo delle vacche, che pigre ed esortate dal malgaro risalgono la china.

Rifocillati l’animo ed il corpo, inizia la lunga ascensione nella Val di Fanes, circondati da ciclisti e pedestri, carri e civiltà. In questo percorso un po’ troppo antropizzato non mancano scorci di cultura alpina e valligiana: mulini e  vecchie case disabitate sono testimoni di vita rurale recente ancora vissuta in questa valle.

Il Torrente del Piano (Ru dal Plan) ci accompagna fino all’apertura della valle nel grandioso e romantico quadro d’autore generato dalle stesse acque, che formano in questo luogo svariate anse e cascatelle, ambiente bucolico che testimonierà una decisione importante: la giornata è lunga, il tempo migliora, la fatica ancora dorme.

E quindi si prosegue in un determinarsi con il passo: valli si aprono, panorami si scoprono, e contemporaneamente lontani ed ripidi passi circoscrivono e chiudono l’ambiente con le loro elevate pareti.

Il tutto sotto il sinuoso andamento degli strati rocciosi piegati ed avvolti su loro stessi e sull’onda del mondo.




Nuvole bianche corrono veloci sopra il nostro andare: i nostri sguardi scrutano quel mondo alpino, dove in lontananza si stagliano cime di tutto rispetto: Cime Ciampestrin, Monte Ciaval, Cima Scotoni.









Nel frattempo abbiamo girato l’intera pagina della cartina percorsa, scoperto che il rifugio Scotoni non è ancora aperto, prenotato in Valparola e deciso che forse facciamo prima, con una piccola risalita, ad arrivare al Rifugio Lagazuoi.

Da questo terminare dello scorrere delle acque inizia il silenzio, quel rispettoso andare che ascolta il tuo respiro, assorda di fatica nelle orecchie quel nulla che cede al passo e alla stanchezza; trovarsi a rincorrere le nuvole, la via, i compagni, la roccia, ed infine il grande ometto, che ti rincuora sulla quota. Un semplice numero che all’amata Forcella prende le sembianze di 2486, vestito di tutti numeri pari.

La nota stonata è l’affaccio sugli abissi di altri specchi d’acqua, aldilà del vuoto spazio: il lago è immensamente giù, ed il sentiero per il Rifugio porta inesorabilmente molto più su, linea chiara e profonda verso la stanchezza.

Ma l’incanto della luce del sole su quelle incombenti pareti aranciate cancella ogni esitazione in questa discesa che prelude la sconfitta: l’altezza guadagnata è consumata in breve con gioia e stupore.


E’ tempo di porre un punto a questo nostro vagare, e mentre osservo il passo veloce di Fernando, motivo che mi farà giungere fin dove è possibile con le mie forze, inizio il mio calvario in un tempo che cambia rapidamente. Altra acqua piove dal cielo e si confonde con gocce salate di abbattimento, sudore e sfinimento.


Poi è solo la macchia gialla della cerata di Gino ad apparirmi a tratti in quel silenzioso e sconvolgente intercedere il cammino: unita al nero della palina, sarà il segnale della mia definitiva rinuncia alla salita. La neve fino al conforto del rifugio raggela l’animo, l’aria e la determinazione, lasciando solo alla calorosa ospitalità rinfrescare le nostre gole.

Chissà cosa ha pensato il gestore alla mia serissima  richiesta: “datemi almeno un buon motivo affinché io venga lassù”, negli ultimi pesantissimi passi ancora coscienti che ho dovuto compiere prima di affrontare mille sorrisi di solidarietà per una serata ormai decisamente oscura quanto brillante per la calda accoglienza ricevuta.

E se la notte porta consiglio, il mio è quello l’indomani di lasciarsi andare all’assurdità della Storia, a scoprire animi gagliardi, sconfitte clamorose, assordanti rumori, ritirate silenti, nobiltà d’animo che hanno vissuto e combattuto in questo lembo di terra montana:


Una calma assoluta si è diffusa per tutto il Creato, come se la terra stesse trattenendo il respiro. Solo ogni tanto si sente un sasso cadere. Acque invisibili sussurrano in tono sommesso nel buio dei dirupi, mentre la brezza notturna sembra trattenuta dalle sagome tenebrose dei pinnacoli di cresta.
                                     Joseph Hosp   (Cappellano militare austriaco)

Alta via n.1: Montagna sgretolata dalla Storia



Montagna sgretolata dalla Storia

I pazzi della Montagna
di Paolo Monelli





“Sorge il Lagazuoi nella luce azzurra della nuova neve che lassù sulle vette turbina in tormenta arruffata.
Decimo inverno di pace, dopo che ne discesero (non battuti, non scacciati) i pazzi della montagna che ci avevan fatto sopra la guerra. Ma anche questi crodoni dolomitici sono dei reduci, pur modesti, pur senza vantarsene e senz'altri brontolii che quelli delle valanghe per i canaloni catarrosi. Con diritto al distintivo delle ferite. Il Piccolo Lagazuoi fu ferito tre volte e ne ha ben visibili i segni; crollò tutto un suo superbo pinnacolo, quando gli Austriaci fecero scoppiare la loro seconda mina, il 23 maggio 1917 e la nuova epidermide della roccia è chiara e fresca accanto alle vecchie rughe su cui vivevano aggrappati i plotoni del "Val Chisone".


Un bel giorno arrivò un ordine: tutti gli ufficiali scapoli del battaglione dovevano a turno, un'ora ogni giorno, andare a cacciarsi in fondo ad una certa grotta per sentire se e come lavorava la perforatrice austrìaca che preparava la camera di scoppio. 


Brutto mestiere, cribbio. Meglio andare all'attacco per crode e baranci (che sono le alghe della montagna, i pini mughi; entrarci con la compagnia c'è da lavorare un’ora a districarsene ed alla compagnia tocca quella vergogna d'essere chiamata "la barancia"); ma meglio tutto che la prospettiva di far la morte del sorcio, con l'orecchio sul geofono, ad origliare quel crrrrr rapido e sordo; perché si sapeva bene che gli Austriaci, anche finito il lavoro, avrebbero sempre fatto andare una perforatrice per ingannarci. Terminata quell'ora di passione, la cengia vertiginosa su cui si usciva, pur così aperta al vento ed ai cecchini, pareva un paradiso. Per fortuna dal Nuvolao i nostri, che vedevano il rovescio delle posizioni nemiche, avvertirono un giorno che non si vedeva più sgomberare materiale e che i lavori dovevano essere finiti. Il servizio di spionaggio cessò e non si visse più che nell'attesa dello scoppio.
Ora immaginate lo sbigottimento delle linee nemiche vicine e lontane quando, la notte dello scoppio, appena quietato il rombo accecante e spenti gli echi di valle in valle, udiron sonare un'allegra fanfara alpina su per la Cengia Martini. Una beffa di guerra, come ne facevan tante i pazzi della montagna in questa lotta di corde e di abissi; come la volta che il capitano Rossi del 96°, battaglione "Antelao", fece squillar la fanfara per incoraggiare i suoi a morir rassegnati sul Masarè di Fontananegra. Qui al Piccolo Lagazuoi le cose erano andate così: che ritirato il presidio del Dente, eran rimasti sotto alla rovina i pochi che guardavano l'estrema punta della Cengia; ma la compagnia indietro era balzata al contrattacco che ancor durava la coreografia delle rocce e dei Massi e delle scintille giù per la conca di Falzàrego e baionettava gli Austriaci e gli cantava addosso a beffa ed a sfida, con le trombe ed i bombardini, la canzone degli alpini piemontesi: "Fieui partume, sentì le fanfare ..."

Ora si va con pacifiche scivolate di sci per la conca e pare grande meraviglia ancor oggi non aver bisogno di coprirsi, di cercar gli angoli morti; poter guardare a viso aperto il Sasso di Stria, stregaccia davvero, che ficcava il suo occhio malvagio negli angoli più remoti. Al nostro compagno, ritto in piedi sulla forcella, quel poter vedere così liberamente, senza schermo, senza paura di prendere una pallottola nella testa, la cerchia delle montagne dalla Marmolada al Col di Lana, dà quasi il capogiro, lui che non ne soffrì sul Dente e quando rimase ferito, primo gennaio del '16, con qualche viscere che gli scappava fuori dallo sdrucio, lo dovettero chiudere in un sacco e calarlo giù così con le corde sul nevaio sottostante.





Primo gennaio, Capodanno di battaglia. Chiare battaglie invernali sulle cime imbrillantate, o fosche azioni di sorpresa nella tormenta, protettrice e nemica insieme. Lotta di pochi contro pochi, muso a muso, ben chiari in vista all'avversario, ben sapendo come era fatto il much che ci prendeva di mira; per posizioni che a conquistarle, a 3.000 metri, bastavano un caporale e tre uomini, o ci volevano trenta tonnellate d'esplosivo ed un anno di perforamento; su pinnacoli così aguzzi che bisognava legarsi per dormire se no si finiva in fondovalle e quando si riuscì ad issare un cannone sulla Tofana di Rozes, appena sparato il primo colpo, mentre serventi ed alpini guardavan gongolanti in fondo alla valle della Boite che rovina aveva fatto, il cannoncino di bronzo, quatto quatto, incominciò a rinculare a salti e finì col ruzzolare mille metri più sotto, dove rimase fino alla fine della guerra.


Ci s'urtava, quassù, a difficoltà ciascuna delle quali sarebbe parsa bastante da sola ad impedire ogni azione: l'altezza e l'asprezza delle cime, il gelo, i sassi crollanti, le valanghe, il vantaggio delle posizioni nemiche, le difficoltà dei rifornimenti e pure gli uomini per mirabile allenamento all'ambiente superavano tutti questi ostacoli riuniti. 


Giustamente Rudyard Kipling, in visita sulla nostra fronte, s'entusiasmò per questa guerra in cui il singolo acquistava così aspro rilievo, in cui il combattimento non era che la sublimazione d'una serie di lotte superate l'una dopo l'altra: alla contrapposizione dell'uomo all'uomo s'arrivava soltanto dopo aver vinto il clima, l'altezza, i sensi riottosi, i muscoli disabituati, il cuore riluttante. Ci furon battaglie cominciate solo dopo ore di arrampicata per roccia a picco, a furia di corde e piccozze e chiodi nella muraglia, digiunando, rabbrividendo, recando sulle spalle bombe e viveri e mitragliatrici e quando s'era sotto l'orlo della cima, invece del premio giocondo dell'alpinista che ha vinto una vetta, si trovava la mischia mortale. Ed altre battaglie ci furono, a cui si giunse dopo mesi di scavi, di mine, di scoppi nel corpo della montagna, dopo pazienti studi minuziosi, dopo scandagli lungo gli abissi, legati ad una corda penzolante sul vuoto.

Questo genere di lotta vi spiega due cose: la personificazione che i soldati facevano degli elementi naturali contro cui si cozzava prima che contro il nemico: il Sasso Triangolare, il Sasso Quadrato, le Tre Dita, Cengia Martini, il Sasso Misterioso, maligni nani di roccia di cui si temeva come di esseri soprannaturali e che si dovevano combattere a ferro ed a fuoco. Ed in secondo luogo, l'umile grado degli "eroi", appartenenti tutti alle gerarchie inferiori: caporale Schiocchet, capitano Rossi, tenenti Tissi e Malvezzi, capitano Berrino e così via. Nomi senza galloni e senza rabbia animano le storie che già ora suonano come leggende. Come fu preso il Sasso Misterioso? Gli uomini ci s'erano urtati di notte, arrestandosi contro le difese nemiche e più ancora contro il fascino di quel sasso che li ossessionava da mesi, di cui s'ignorava il potere e l'essenza. Lo scoramento li aveva presi; quell'accidia sconsolata che sorprendeva a mezzo dell'azione e tutto, morte, mutilazione, assideramento, pareva preferibile piuttosto che perseverare nell'attacco. Ore grigie: esse sono ignote solo ai fanfaroni delle retrovie. 
Ma allora corse una voce urgente e sommessa per le squadre smagate: il capitano, il capitano Rossi è qui. Bastò, a quegli umili, sapere che il capitano giungeva e sarebbe stato testimone di quella fatale incertezza, il capitano invulnerabile ed impassibile, che esorcizzava con una bestemmia i diavoli della montagna, che vinceva col silenzio le più ardue difese; bastò per scuoter di dosso l'ignavia e balzarono senza grido innanzi e chi vide più il Sasso Misterioso? Superato, sommerso dall'ondata che se lo lasciava ormai a tergo, ridicolo e sconsacrato ostacolo. 




Eppure, sparuta ed inutile appariva talvolta questa tenacia umana che decapitava le cime; quando la natura si vendicava ed al fuoco opponeva il gelo, agli scoppi i rombi delle valanghe. Crollavan esse dalle creste, dalle forcelle, con ventante ululo, in feroce nuvola precipitosa; ogni schermo era vano, le previsioni inutili; batterie da montagna con muli e cannoni, baracche, plotoni intieri eran colpiti, soffocati, seppelliti senza più traccia, senza grido, senz'altro urlo che quello della gigantesca massa bianca. I rari scampati, quelli che furono tratti fuori con la schiena spezzata o gli arti frantumati, non possono, ancor oggi, dormire sotto grevi coltri senza ridestarsi raccapricciando con l'incubo della soffocazione.”
Paolo Monelli
Foto di Derspina




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Alta Via n.1: Enrosadira, la leggenda del Rosengarten



4° giorno. Dal Rifugio Giussani al Rifugio Nuvolau
Dislivello: in salita 635 m
Lunghezza:  circa 8 chilometri

sentiero n. 412 fino alla strada militare e poi giù fino alla Statale 48 delle Dolomiti all’altezza di Ra Nona (cioè sulla nona curva della strada), 1985 m. Variante di salita per il Lago di Lìmedes, sotto la croda Negra, fino a forcella Averau. Di qui la cima e la salita al Nuvolau.




LA LEGGENDA DEL ROSENGARTEN
IL GIARDINO DELLE ROSE



 

 

IL POEMA di LAURINO 

di Brunanaria Dal Lago Veneri



dal sito: http://www.emscuola.org/labdocstoria/storiae/



clikka la storia Sulle tracce delle leggende dolomitiche


clikka la storia   Laurino, Signore delle rose




Enrosadira




























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