“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Alta via n.1: Montagna sgretolata dalla Storia



Montagna sgretolata dalla Storia

I pazzi della Montagna
di Paolo Monelli





“Sorge il Lagazuoi nella luce azzurra della nuova neve che lassù sulle vette turbina in tormenta arruffata.
Decimo inverno di pace, dopo che ne discesero (non battuti, non scacciati) i pazzi della montagna che ci avevan fatto sopra la guerra. Ma anche questi crodoni dolomitici sono dei reduci, pur modesti, pur senza vantarsene e senz'altri brontolii che quelli delle valanghe per i canaloni catarrosi. Con diritto al distintivo delle ferite. Il Piccolo Lagazuoi fu ferito tre volte e ne ha ben visibili i segni; crollò tutto un suo superbo pinnacolo, quando gli Austriaci fecero scoppiare la loro seconda mina, il 23 maggio 1917 e la nuova epidermide della roccia è chiara e fresca accanto alle vecchie rughe su cui vivevano aggrappati i plotoni del "Val Chisone".


Un bel giorno arrivò un ordine: tutti gli ufficiali scapoli del battaglione dovevano a turno, un'ora ogni giorno, andare a cacciarsi in fondo ad una certa grotta per sentire se e come lavorava la perforatrice austrìaca che preparava la camera di scoppio. 


Brutto mestiere, cribbio. Meglio andare all'attacco per crode e baranci (che sono le alghe della montagna, i pini mughi; entrarci con la compagnia c'è da lavorare un’ora a districarsene ed alla compagnia tocca quella vergogna d'essere chiamata "la barancia"); ma meglio tutto che la prospettiva di far la morte del sorcio, con l'orecchio sul geofono, ad origliare quel crrrrr rapido e sordo; perché si sapeva bene che gli Austriaci, anche finito il lavoro, avrebbero sempre fatto andare una perforatrice per ingannarci. Terminata quell'ora di passione, la cengia vertiginosa su cui si usciva, pur così aperta al vento ed ai cecchini, pareva un paradiso. Per fortuna dal Nuvolao i nostri, che vedevano il rovescio delle posizioni nemiche, avvertirono un giorno che non si vedeva più sgomberare materiale e che i lavori dovevano essere finiti. Il servizio di spionaggio cessò e non si visse più che nell'attesa dello scoppio.
Ora immaginate lo sbigottimento delle linee nemiche vicine e lontane quando, la notte dello scoppio, appena quietato il rombo accecante e spenti gli echi di valle in valle, udiron sonare un'allegra fanfara alpina su per la Cengia Martini. Una beffa di guerra, come ne facevan tante i pazzi della montagna in questa lotta di corde e di abissi; come la volta che il capitano Rossi del 96°, battaglione "Antelao", fece squillar la fanfara per incoraggiare i suoi a morir rassegnati sul Masarè di Fontananegra. Qui al Piccolo Lagazuoi le cose erano andate così: che ritirato il presidio del Dente, eran rimasti sotto alla rovina i pochi che guardavano l'estrema punta della Cengia; ma la compagnia indietro era balzata al contrattacco che ancor durava la coreografia delle rocce e dei Massi e delle scintille giù per la conca di Falzàrego e baionettava gli Austriaci e gli cantava addosso a beffa ed a sfida, con le trombe ed i bombardini, la canzone degli alpini piemontesi: "Fieui partume, sentì le fanfare ..."

Ora si va con pacifiche scivolate di sci per la conca e pare grande meraviglia ancor oggi non aver bisogno di coprirsi, di cercar gli angoli morti; poter guardare a viso aperto il Sasso di Stria, stregaccia davvero, che ficcava il suo occhio malvagio negli angoli più remoti. Al nostro compagno, ritto in piedi sulla forcella, quel poter vedere così liberamente, senza schermo, senza paura di prendere una pallottola nella testa, la cerchia delle montagne dalla Marmolada al Col di Lana, dà quasi il capogiro, lui che non ne soffrì sul Dente e quando rimase ferito, primo gennaio del '16, con qualche viscere che gli scappava fuori dallo sdrucio, lo dovettero chiudere in un sacco e calarlo giù così con le corde sul nevaio sottostante.





Primo gennaio, Capodanno di battaglia. Chiare battaglie invernali sulle cime imbrillantate, o fosche azioni di sorpresa nella tormenta, protettrice e nemica insieme. Lotta di pochi contro pochi, muso a muso, ben chiari in vista all'avversario, ben sapendo come era fatto il much che ci prendeva di mira; per posizioni che a conquistarle, a 3.000 metri, bastavano un caporale e tre uomini, o ci volevano trenta tonnellate d'esplosivo ed un anno di perforamento; su pinnacoli così aguzzi che bisognava legarsi per dormire se no si finiva in fondovalle e quando si riuscì ad issare un cannone sulla Tofana di Rozes, appena sparato il primo colpo, mentre serventi ed alpini guardavan gongolanti in fondo alla valle della Boite che rovina aveva fatto, il cannoncino di bronzo, quatto quatto, incominciò a rinculare a salti e finì col ruzzolare mille metri più sotto, dove rimase fino alla fine della guerra.


Ci s'urtava, quassù, a difficoltà ciascuna delle quali sarebbe parsa bastante da sola ad impedire ogni azione: l'altezza e l'asprezza delle cime, il gelo, i sassi crollanti, le valanghe, il vantaggio delle posizioni nemiche, le difficoltà dei rifornimenti e pure gli uomini per mirabile allenamento all'ambiente superavano tutti questi ostacoli riuniti. 


Giustamente Rudyard Kipling, in visita sulla nostra fronte, s'entusiasmò per questa guerra in cui il singolo acquistava così aspro rilievo, in cui il combattimento non era che la sublimazione d'una serie di lotte superate l'una dopo l'altra: alla contrapposizione dell'uomo all'uomo s'arrivava soltanto dopo aver vinto il clima, l'altezza, i sensi riottosi, i muscoli disabituati, il cuore riluttante. Ci furon battaglie cominciate solo dopo ore di arrampicata per roccia a picco, a furia di corde e piccozze e chiodi nella muraglia, digiunando, rabbrividendo, recando sulle spalle bombe e viveri e mitragliatrici e quando s'era sotto l'orlo della cima, invece del premio giocondo dell'alpinista che ha vinto una vetta, si trovava la mischia mortale. Ed altre battaglie ci furono, a cui si giunse dopo mesi di scavi, di mine, di scoppi nel corpo della montagna, dopo pazienti studi minuziosi, dopo scandagli lungo gli abissi, legati ad una corda penzolante sul vuoto.

Questo genere di lotta vi spiega due cose: la personificazione che i soldati facevano degli elementi naturali contro cui si cozzava prima che contro il nemico: il Sasso Triangolare, il Sasso Quadrato, le Tre Dita, Cengia Martini, il Sasso Misterioso, maligni nani di roccia di cui si temeva come di esseri soprannaturali e che si dovevano combattere a ferro ed a fuoco. Ed in secondo luogo, l'umile grado degli "eroi", appartenenti tutti alle gerarchie inferiori: caporale Schiocchet, capitano Rossi, tenenti Tissi e Malvezzi, capitano Berrino e così via. Nomi senza galloni e senza rabbia animano le storie che già ora suonano come leggende. Come fu preso il Sasso Misterioso? Gli uomini ci s'erano urtati di notte, arrestandosi contro le difese nemiche e più ancora contro il fascino di quel sasso che li ossessionava da mesi, di cui s'ignorava il potere e l'essenza. Lo scoramento li aveva presi; quell'accidia sconsolata che sorprendeva a mezzo dell'azione e tutto, morte, mutilazione, assideramento, pareva preferibile piuttosto che perseverare nell'attacco. Ore grigie: esse sono ignote solo ai fanfaroni delle retrovie. 
Ma allora corse una voce urgente e sommessa per le squadre smagate: il capitano, il capitano Rossi è qui. Bastò, a quegli umili, sapere che il capitano giungeva e sarebbe stato testimone di quella fatale incertezza, il capitano invulnerabile ed impassibile, che esorcizzava con una bestemmia i diavoli della montagna, che vinceva col silenzio le più ardue difese; bastò per scuoter di dosso l'ignavia e balzarono senza grido innanzi e chi vide più il Sasso Misterioso? Superato, sommerso dall'ondata che se lo lasciava ormai a tergo, ridicolo e sconsacrato ostacolo. 




Eppure, sparuta ed inutile appariva talvolta questa tenacia umana che decapitava le cime; quando la natura si vendicava ed al fuoco opponeva il gelo, agli scoppi i rombi delle valanghe. Crollavan esse dalle creste, dalle forcelle, con ventante ululo, in feroce nuvola precipitosa; ogni schermo era vano, le previsioni inutili; batterie da montagna con muli e cannoni, baracche, plotoni intieri eran colpiti, soffocati, seppelliti senza più traccia, senza grido, senz'altro urlo che quello della gigantesca massa bianca. I rari scampati, quelli che furono tratti fuori con la schiena spezzata o gli arti frantumati, non possono, ancor oggi, dormire sotto grevi coltri senza ridestarsi raccapricciando con l'incubo della soffocazione.”
Paolo Monelli
Foto di Derspina




segue con :Croci

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