“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Terra d' Africa



Erano gli anni dell'Università e della scoperta che esisteva anche il resto del Pianeta. 

La dizione per molti dei Paesi Africani, Sudamericani, dell'Est asiatico fino a quel momento era stata 'Paesi sottosviluppati'del Terzo Mondo', ma negli anni '90 molto si era investito nei progetti delle prime organizzazioni non governative, e quindi anche i termini cambiarono, facendoci appellare gli stessi Stati come 'Paesi in Via di Sviluppo' ed i loro abitanti non più 'negri', ma neri.


La mia storia di viaggi inizia dall'Africa, Nera per dato di fatto, andando a raggiungere gli amici universitari cooperanti in un progetto di sviluppo in Senegal.
Cartina alla mano, la mia prima valigia, il mio primo volo in terra extra-europea senza conoscere la lingua, senza sapere cosa e come fare, la sola certezza di andare....verso il Mal d'Africa!




- Novembre 1992 primo viaggio SENEGAL
- Dicembre 1999-2000 primo deserto ACACUS Trek LIBIA
- Dicembre 2000-2001 deserto HOGGAR-TASSILI ALGERIA
- Dicembre 2002-2003 Deserto ADMER-TADRAR (Algeria)

  Dicembre 2003-2004 Trekking FALAISE DOGON MALI



  Dicembre 2007 – 2008 ETIOPIA storica
- Dicembre 2009 – 2010 BURKINA F. – BENIN    
Femmes batisseurs d'Afrique
L'Africa di Pietra: Mani nell'Arte
Il Bianco dell'aria e il Nero della terra
La Via dell'acqua:  Gocce volanti
La via dell'acqua: Inseguendo l'acqua
La Via dell'acqua: Profondità
La Via dell'acqua: Lontananza


 Dicembre 2010 – 2011  ETIOPIA - DANCALIA
Nera Dancalia bianca: stille, stelle, stalle
Nera Dancalia bianca:la strada
Nera Dancalia bianca: Dancalia, incredibile Dancalia!
Nera Dancalia bianca: Appunti deliranti di un vento silenzioso
Nera Dancalia bianca: il calore dell'inferno
Dancalia - Dallol                     FOTO
Dancalia - Hot Spring             FOTO
Quando la Terra scopre se stessa : Alle pendici dell'Erta Ale








Novembre 1992 primo viaggio SENEGAL




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MALI - FALAISE DOGON





Il nostro viaggio ripercorre la Falesia principale nella regione dei Dogon, dalla quale si diramano tanti piccoli villaggi. Abbiamo avuto la fortuna di affidarci al nostro accompagnatore, per scoprirne alcuni fuori dal circuito classico riportato sulle guide.
Il tragitto complessivo si è snodato su 115 Km a piedi, con traversate facili ma assolate. Alcune popolazioni ci hanno accolto con molta cordialità, essendo da quelle parti il turista sconosciuto.
Ad Anakila ci ha accompagnato tutto il villaggio a far visita al luogo, per completare la giornata con la conoscenza di tutte le loro donne al pozzo.

E’ stato questo viaggio che ha battezzato il mio scrivere di terra straniera…. ma soprattutto di Terra Africana….

BUONA LETTURA!  (a schermo pieno e a stop pagina)



22/12: Italia- Bamako

23/12: Bamako - Djenne

24/12: Djenne - Hombori
25/12: Hombori - salita Mani di Fatima (ca 3 km) - Douenza - Bamba
26/12: Bamba - Ireban - Banjugou - Diankabou - Anakila ; 12 km
27/12: Anakila - Kadiawera - Yogouna; 21 km di brousse
28/12: Yogouna - salita a Yougadogourou - discesa a Yogoupiri – Koundou; 11 km
29/12: Koundu - Koundu alta - Ibi -Neni - Banani – Ireli - Amani - Tireli; 18 km
30/12: Tireli - Komokani - Idielina - Nombori; 9 km
31/12: Nombori - salita canyon a Dourou - Konsogo - Begnimato - escursione a villaggio "vicino" Injelou; 16 km + 6 km villaggio "vicino"
01/01: Begnimato - Dounjourou - Yabatalou - Ende - Teli; 16 km
02/01: Teli - Kanikombole (pulmino) - Songo - Mopti; 3 km
03/01: Mopti (mattina visita citta', moschea e Mercato delle Donne) - pinasse Kotala - Konna
04/01: Konna - San - Segou
05/01: Segou - Bamako
06/01: Bamako - Casablanca – Italia

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IMPRESSIONI DI UN VIAGGIO IN MALI





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Burkina Faso - BENIN
L’AFRICA DEL BIANCO E DEL NERO



FEMMES “BATISSEURS” d’Afrique




Ormai è consuetudine che io riservi la prima attenzione dei miei viaggi alla parte femminile del pianeta che sto visitando. Forse per una presa di coscienza tardiva di me e della mia condizione sessuale, o semplicemente come scriveva un cinese, perché le donne sono l’altra metà del cielo ed essendo io una di loro mi sento con queste solidale: in un mondo prevalentemente maschilista – e non maschile – non si può sorvolare su una realtà così femminilmente conclamata.


E, soprattutto, quando la mia attenzione è catalizzata sulle donne riesco anche a percepire le variegate sfumature del mondo degli uomini, personaggi che molto spesso sono ai bordi delle pagine dei miei scritti pur essendone protagonisti: come nello Yemen, sono uomini coloro che trascorrono la giornata a masticare allucinogeni, o in Africa, quelli che riflettono sotto i grandi alberi fumando la pipa o intagliando legni, o giocano all’ombra dei camion a mancala, o sono nei campi a preparare il terreno per i lavori delle donne.


Ho visitato troppe nazioni in cui la figura femminile spiccava già in risalto poco oltre l’aeroporto: a trasportare sulla testa ogni sorta di manufatto, dalla legna, all’acqua, al cibo. Sembianza così tanto strana e inconsueta per noi occidentali che diventava immediatamente oggetto di considerazione fotografica alla stessa stregua di un animale sconosciuto, forse per via del colore diverso della pelle, o perché costituisce un bel soggetto fotografico in contrasto con la nostra realtà, o ancora perché vogliamo catturare in un colpo solo tutte le sue espressioni di vita, anche le più disperate.


La mia personale consapevolezza nei confronti delle donne l’ho avuta all’inizio del viaggio nello Yemen, quando mi sono resa conto che fotografare umani veli neri non esprimeva l’effettiva condizione vissuta da quel mondo femminile silenzioso, ma evidenziava solo l’ apparenza oscura di un modo di essere donna per poter sopravvivere ad un pianeta maschile. La stessa sensazione l’ho ritrovata in Iran, dove l’obbligo del velo può rappresentare per colei che lo indossa quell’unico spiraglio di libertà conquistata e sottratta ad un dettato religioso troppo rigido.


Questi sono alcuni dei tanti motivi per i quali nelle mie foto sono rarissime le immagini femminili, dei loro splendidi volti e delle loro magnifiche espressioni. Mi calo sempre più spesso nella loro situazione di ‘centro dell’attenzione’ così tanto da farmi sentire strana se analogamente dovessi puntare l’obiettivo contro me stessa. Questa sensazione sgradevole mi permette di non rammaricarmi troppo se non lo faccio, anche se ho una forte tentazione anch’io di metter mano all’oggetto immortalatore. Nei casi in cui fotografo un soggetto femminile, è solo per ricordarmi una percezione legata a quello scatto, o per il piacere di donare alle donne disponibili che incontro un po’ di gioia ai loro volti mai specchiati nella realtà, e che molto spesso non conoscono la frivolezza del compiacersi dinanzi alla loro espressiva immagine. Sono sempre stata ripagata per questo, sia che io abbia scattato o no la foto.


Questo del Burkina-Benin non è stato il mio primo viaggio in Africa, ma ovunque in questo continente ho avuto modo di constatare che, sebbene i lavori e gli incarichi siano diversi, l’atteggiamento delle donne nei confronti della Vita è totalizzante. Il procreare, l’accudire i propri figli, preparare i pasti, coltivare e vendere povertà, governare l’ambiente familiare, curare il bestiame, soddisfare i desideri matrimoniali sono tutte azioni che diventano il quotidiano scorrere delle giornate e degli avvenimenti, raccontati al mercato, vissuti nell’ambito dei villaggi, condivisi con chi si ha vicino, o nella solitudine dello scorrere delle ore.


La Maison du Brasil di Ouidah ci accoglie, in collaborazione con il Musée de la Civilisation del Canada, con una mostra sulla donna africana: uno sguardo puntuale su alcune condizioni femminili in Africa e nel mondo. Colleziono un altro libro da aggiungere alla mia biblioteca personale sulle donne, un altro piccolo pezzo di bagaglio culturale che peserà nella mia esistenza, ma che non sarà gettato neanche quando la schiena mi si incurverà come la più dritta e slanciata donna africana. Realtà, quest’ultima, che per adesso è solo un sogno.


E qui, nella Terra del Burkina F. e Benin la Vita è sostenuta da colei che porta sempre con sé il suo essere donna, l’essere madre con il bimbo in ventre o sulla schiena, l’essere moglie, svolgendo con le parti del corpo tutte le funzioni della vita e dell’amore, per 20 ore al giorno.
E’ colei che fatica, che si sacrifica, che gioisce, che caricandosi il peso del Biloko, la cesta che contiene i suoi strumenti quotidiani, sfama l’Africa pur non avendo nulla.


Fiumi di parole travolgono le donne africane sull’analisi della loro condizione, del ricercato senso di giustizia, dei diritti e dell’ uguaglianza, della presa di coscienza, ma è sicuramente una donna, maliana d’origine, che denuncia un’altra Africa, quella che non si scuote, quella contro la globalizzazione, contro l’egemonia di un potere straniero che ha violato l’immaginario politico e sociale di democrazia e cambiamento di tutti quei Paesi Africani che si sono liberati dalla colonizzazione, e che però sono stati nuovamente soffocati dagli interventi occidentali e da quelli dei Paesi potenti. 


Ma qual’ è la ricchezza di questi due Stati, in graduatoria competitiva per gli ultimi posti nelle classifiche mondiali per PIL, per istruzione, per sanità?
Il ‘benessere’ lo si vede dalla loro economia sociale, i mercati, che si caratterizzano più come luoghi di incontro che di scambio; dal loro sistema agricolo, che brucia la savana alla ricerca di uno spazio dove poter coltivare; dalla loro comunicazione sociale, favorendo il sorriso di una madre che si allarga al tuo saluto quando fai un puffetto al figlio; dall’indipendenza, con gli scheletri ancora esistenti di un genocidio razziale legato alla tratta degli schiavi; dalla loro economia finanziaria, con la moneta nazionale legata al cambio fisso di una moneta europea; dall’affermazione dei diritti umani, sacrificando oggi solo il mondo animale e non più quello umano per i loro riti propiziatori e religiosi; dalla compenetrazione della globalizzazione, che favorisce l’evoluzione della donna attraverso l’uso di mezzi tecnici e tecnologici, quali cavalcare la moto o l’uso di internet o del telefonino, contemporaneamente a vederle girare nude per il Paese.


Del loro patrimonio, questi popoli non hanno ricchezza da vendere o per la quale essere depredati o tenuti soggiogati dagli aiuti internazionali: i relitti dei manufatti occidentali che costellano le campagne, la savana, il paesaggio rurale sono una conferma del fallimento cooperativo istituzionale e straniero.
Strutture abbandonate laddove anche la casa in paglia e fango assume maggior valore umano rispetto al loro più solido cemento; composizioni abitative e sociali di legno e paglia che resistono al correre del tempo e delle invasioni, per una quotidiana sopravvivenza che si chiama libertà.


La denuncia di Aminata Traorè nei suoi scritti è chiara e forte contro il dominio francese e l’invasione globalizzata attuata dai potenti del mondo, lanciando una speranza sulla riaffermazione di un’altra Africa, quella che “…comincia, nelle circostanze attuali, ritornando a se stessi e sviluppando la capacità di dire <<io>> e <<noi>>.”  
E termina il suo saggio con una visione proiettata nel futuro: “ E’ il 2015. Siamo a casa di Altina, nella regione dei Dogon. Il cielo blu indaco è punteggiato di stelle che con la loro luce inondano le montagne, le pianure, le valli e i nostri cuori. I vecchi raccontano che nel passato il cielo non era così alto, e che le donne per divertire i loro piccoli raccoglievano le stelle e gliele regalavano. Che cosa non faremmo per loro? Da noi una donna che ha figli si sente ricca. Procreare vuol dire sopravvivere a se stessi, garantire la continuità del gruppo, vincere la morte…”





E da qui comincerò a raccontare quest’altra Africa, quella del Bianco e del Nero, quella che i miei occhi hanno visto nello scorrere dei chilometri, nelle orme della sabbia, nelle statue dei musei di pietra e di granito, nelle sembianze umane e  animali delle maschere, negli scheletri vaganti, nella religione difesa, nelle onde dell’oceano, nelle pipe dei Re e nel riposo dei guardiani di baobab, nel vocìo dei mercati e nella cenere della savana.





Quest’Africa che il mio corpo ha vissuto, al di là del colore della pelle.


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Burkina Faso - BENIN    
L’AFRICA DEL BIANCO E DEL NERO

L'Africa di Pietra:mani nell'Arte


Un’elevata torre di granito sostiene scene quotidiane di vita africana: il lavoro dei campi, gli attimi di svago, la preparazione dei pasti, gli scambi culturali delle tradizioni, fino ad illustrare su quello sfondo bronzeo la sua evoluzione nella moderna società telematica.


Scontro di culture o crescita sociale? Contraddizioni o coesistenze?


Sotto il sole cocente delle tre pomeridiane il nostro sguardo è fortemente annebbiato: tutti quei chilometri per vedere questa alta lastra di pietra !
La situazione ci lascia un po’ perplessi. L’ombra è invitante per molti, ma restare fermi a Paolo e me proprio non va, e gironzolando qua e là, ci rapportiamo con le prime sculture, ben posizionate nel giardino naturale.

I primi commenti, si prosegue, e poi ognuno di noi si perde in quello che si rivelerà un  labirinto di pietra, rami, sterpaglia e paglie. Ogni tanto risuona un’esclamazione stupita, un richiamo alla bellezza, un’esortazione a contemplare lo stupefacente museo all’aria aperta che si va mano a mano delineando.


Ed eccola la sua firma: un lungo tubolare di bianco granito abbozza appena appena i caratteri di un viso, inconfondibile la mano. Siriki Ky è lo scultore locale e l’organizzatore, insieme alle istituzioni del luogo, dei Simposium internazionali che si tengono a Laongo nel corso degli anni, e che accrescono questo parco naturale e selvaggio d’arte dove riposano opere di eterno valore.


Il terreno e l’etereo, il reale e il simbolico, la Storia e i Miti; concetti e creatività da percorrere e assorbire, da distinguere e individuare, da compiacere con le pupille e il tatto, o con il limpido ma complicato intelletto.

Sulla strada delle forme e dell’eternità, rincorrere la rottura dei frammenti di quarzo per comprendere l’unicità di ciascuno di quei monumenti naturali, questo compiono i nostri passi calpestando il sentiero terroso.


Sculture che parlano il linguaggio dell’Africa con l’arte delle mani, la fermezza delle linee, la precisione delle rotondità, il mimetismo con l’ambiente, l’essere ambiente, essere immobile per venir comunque trasportato in questo sviluppare e rappresentare la beltà, quasi la perfezione, l’espressione della sostanza in un cuore di pietra, e di quella più dura. A voler prediligere il futuro piuttosto che il passato, a sovrapporre i pezzi, e riunirne gli spezzati.


La diversità di ciascuna di esse, incomplete, appena abbozzate, crepate, mescolate, sovrapposte, in parte occultate e molte nascoste dai rami e dagli sterpi, si evidenzia lentamente: una continua scoperta di quella superficie scolpita che sbrilluccica dappertutto al tocco dei raggi solari, che contrasta con il cielo nelle sue fenditure, che adagia mollemente - su quel granitico substrato - le delicatezze dei corpi, dei capi, dei mezzi busti, dei volti talvolta intagliati di simboli ancestrali, e modellati con pochi colpi di sapiente mano.


Un susseguirsi ed inseguirsi di tratti, curve, solchi, levigature, alto e bassorilievi, fantasie e realtà di immagini animali, umane, storiche, irreali.


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Burkina Faso - BENIN    
L’AFRICA DEL BIANCO E DEL NERO


E tra poco prenderò il volo di nuovo per altre terre, di nuovo a scoprire sconosciuti popoli, che una volta tanto offuscheranno il bianco e lo tingeranno di nero.

Ma nel gioco dei colori, il bianco è il colore della neve,  



ma è anche un foglio non scritto se non ci fosse il nero a far risaltare le parole….

.quelle che vi porterò scritte......... 







IL BIANCO DELL’ARIA ED IL NERO DELLA TERRA







BIANCO


Nuvole bianche, birichine, impertinenti. 


Si alzano come torri, si ammassano, si toccano, si mischiano sospese nel vuoto. Qualcuna si tiene compagnia, altre preferiscono la loro intimità, altre ancora si elevano al di sopra di tutto . 

Saranno le più fredde?

All’occhio si ergono come seracchi al centro di un ghiacciaio, frastagliate, tormentate, aguzze come lame di coltello, ora più arrotondate. 

Tutte emergenti, oltremodo riflettenti.

Ecco sospesa una pagnotta ghiacciata, dietro, uno sciabordìo di schiuma bianca. 
Bolle, increspature, bitorzoli, masse informi, compatte, lisce o corrugate: un immenso oceano di ghiacci.


Immagini l’orso bianco venirti incontro, morbido nella sua pelliccia, indifferente, con passo felpato al centro di tanto candore.


Il grigio al contrasto con il bianco risalta l’oceano inconsistente, eppur compatto. 



L’ala è a fianco a me, si muove simultaneamente, si piega, segue flebile il movimento dell’aria.


E come me, si perde……nelle nuvole….



Bianca come l’elica che gira,


Bianco come l’igname coltivato sottoterra, 

Bianco come il cappello dell’anziano africano,

Bianco come il bastone di chi è stato alla Mecca,

Bianco come il ventre del pesce,

Bianca come la tunica del Vescovo,


Bianchi come i denti splendenti di una risata  alla quale ti unisci.


NERO


Nera è la pelle di coloro che ti circondano,          

Nera è la pupilla che illumina i suoi occhi,

Nera è l’oscurità africana rischiarata  dalle luci dei satelliti,

Nera è l’erba bruciata della savana,  

Nero è il buio della grotta dell’iniziazione,


Nere sono le labbra che si aprono in un sorriso,

Nero è il tek delle maschere africane,

Nera è la    profondità    del pozzo senz’acqua,

Nera è la catena che serra i piedi dello schiavo,

Nero è l’interno della cucina affumicata,


Nera è la piccola mano che ti stringe….… e che ti segue ovunque. 

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Burkina Faso - BENIN    
L’AFRICA DEL BIANCO E DEL NERO

LA VIA DELL’ACQUA

Gocce volanti


Aeroporto: gente che va e viene, si ferma, fuma, è in fila aspettando pazientemente il proprio turno, un’unica grande sala, pochi negozi, peraltro semplicemente sbarrati. Si parlano lingue diverse, si ascolta differentemente, ci si saluta.

Al di là del vetro o del filo che tiene lontani gli avventori, al centro del Gate degli Arrivi piccole folle aspettano, con i loro cartelli rizzati: “Hotel …”, ”Meusieur ….”,  “Agency….”; individui che fino al momento dell’incontro con l’altro restano anonimi, ma che all’arrivo dei cari avviano scene di ritrovata gioia, in qualche caso anche simpaticamente starnazzante, che inevitabilmente fanno cedere alle lacrime.
Emozione di un trovarsi o ritrovarsi, condivisione senza parole di una felicità realizzata, fiume di allegria trasparente.

A fianco, poco distante, c’è l’entrata delle Partenze, spazio molto più piccolo, quasi angusto, come se la riservatezza dell’abbandono non richiedesse più che un fazzoletto di superficie. Quel pezzettino di stoffa che serve ad asciugare le lacrime del distacco, della lontananza, della temporanea perdita. Quello che si lascia è tutto lì, concentrato nelle fuoriuscenti gocce limpide sul viso, che rimarranno a rigare il volto il tempo necessario prima della loro completa e rapida evaporazione, alla temperatura di oltre 30°C.

Aeroporto di Tripoli, sala di attesa per i viaggiatori in transito: il fumo di sigaretta penetra nella pelle, arrossando gli occhi. I più sensibili cedono all’odore acre e a quel fumo oscurante, lacrimando nell’impossibilità di fuggire.
Storie di gatti si alternano a pezzi della nostra vita, risate squillanti fanno spuntare ben più cristalline gocce ai nostri occhi.

Ma non sono gioiose quelle sparse da un’intera famiglia anglosassone, madre, padre, bimbo e bimba, di fronte a noi, racchiusi in quello che sarà soprannominato ‘l’angolo degli emotivi’. Piangono a dirotto, stretti l’uno all’altro, disperati, senza il conforto di nessuno, se non del loro stesso calore e della loro enorme afflizione.
Si sa che noi Italiani siamo gli Uomini delle cause perse, i Paladini del mondo, e saremo i primi a sapere della loro condizione di transitati dannati: un’intera famiglia inglese, diretta in Sudafrica, che non può ritirare né cambiare soldi, perché hanno solo la carta di credito. E non possono uscire. Due giorni in aeroporto, senza potersi affacciare sul piazzale, senza dormire, senza mangiare.
Il tutto sotto lo sguardo inquisitore di un Gheddafi sbeffeggiante.

Ma dal transito si esce, in un modo o nell’altro, è solo questione di tempo africano, e come per gli inglesi, ci si può tornare anche abbastanza velocemente: già librati nell’aria, i motori rumorosi e poco rassicuranti del nostro aereo ci impongono un nuovo atterraggio.

E allora sono tutte nostre le lacrime di sconforto…….

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Burkina Faso - BENIN    
L’AFRICA DEL BIANCO E DEL NERO

LA VIA DELL’ACQUA

Inseguendo l'acqua


Il mio vecchio amico Sado Diarra, cosi esprimeva il pensiero dei Bambara riguardo ai Peul:
“I Peul sono un miscuglio sorprendente.

Fiume bianco nel paese dalla acque nere,
fiume nero nel paese dalle acque bianche,
sono un popolo enigmatico che degli avvenimenti capricciosi hanno condotto dal sol levante e sparso quasi dappertutto, dall’est all’ovest.”
                                                                                                                                   (Amadou Hampaté Ba)




I Peul possono essere considerati il più grande gruppo nomadico del mondo.
Chiamati Fulani dagli Inglesi e Fellah dagli Arabi, abitano tutta la regione del Sahel, in 17 paesi, dal Senegal al Sudan. La loro popolazione globale è stimata intorno ai quindici milioni.
Attualmente comprendono un gran numero di diversi gruppi che sono stati conquistati e diventati una parte dei Peul durante la diffusione dell’Islam.                   (Enza SpinapoliceDipartimento di Scienze Storiche e Archeologiche dell'Antichità- Università di Roma "La Sapienza")






Il caldo è asfissiante, il villaggio polveroso, la savana piatta e deserta. 
Carretti e muli in lontananza si avviano lenti al giorno di mercato, colorati dei vestiti delle donne, adornati di secchi e stuoie, legna e paglie.
       
E’ giorno di mercato nella città di Gorom Gorom, ma i Peul sono in viaggio da una vita, quella che li rende vaganti e liberi per l’intero Sahel, alla rincorsa dell’acqua: “Dio ha creato un paese pieno d’acqua perché gli uomini possano viverci, un paese senz’acqua perché gli uomini abbiano sete, e un deserto: un paese con e senza acqua, perché gli uomini trovino la loro anima”- recita un proverbio Tuareg – e questo popolo ne ha fatto l’essenza della sua esistenza.


I loro ricoveri ad igloo, di stuoie, erbe e fili, ciascuno circondato della propria spinosa intimità, sono stabili appena sufficientemente a farli ripartire alle prime pioggie, all’inseguimento dei verdi pascoli nigeriani per il loro bestiame, ricchezza della loro vita, scopo intrinseco del loro girovagare.

                      
Oggetti semplici compongono le fasi dei loro vagabondanti riti quotidiani: pestelli, mortai, tegami di diverse dimensioni, tutti a portata di mani forti e giovani, energiche e vibranti.


Colpi ritmici e decisi, suoni che si perdono nelle nebbie polverose della savana, vapori stagnanti e offuscati del rimestìo degli zoccoli bovini, mescolate al musicale trotto asinino, o al silenzioso passo felpato dei cammelli.


Splendori di perline colorate ed alluminio adornano il viso delle donne e delle adolescenti, per esaltare tutta l’innocenza del loro essere fanciulle, fiere delle loro preziosità, totalmente inconsapevoli dei segni marchiatori e devastanti impressi sul loro volto a riprova di un’iniziazione tanto incosciente quanto vincolante.


 

Un secolare Baobab esulta nell’aere piatto della savana diramando le sue sclerificate membra verso il cielo. Da qui si estraggono elementi vitali: spezie per il cibo e accessori per cucinare. 



Alle sue scavate e vuote pendici ragazzini imitano la sua forza e imponenza compiendo movimenti aggraziati e tenaci, mentre il bestiame ormai dissetato disordinatamente lo cinge, indifferente della sua immobilità.
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L’AFRICA DEL BIANCO E DEL NERO



LA VIA DELL’ACQUA

Profondità


Ma sono ancora una volta le donne protagoniste detentrici del trasparente tesoro: alle umide profondità scavate con i primitivi utensili giungono cariche di taniche gialle, lasciando filtrare acqua e sabbia nei colorati recipienti, sotto lo sguardo sbalordito di ciascuno di noi che di quelle regali perle vediamo solo l’opacità del fondo oscuro.



Affiancati lenzuoli di terra, 2 metrix4 - tanto sono grandi -, ripuliti per coltivare l’essenza della vita con il dolore dei muscoli e della fatica, generata dal frutto dell’amicizia della solidarietà internazionale: orti irrigati e curati a mano, schiene piegate e sformate dall’esercizio forzato e dalle necessità familiari, per far crescere un pugno di verde e sfamare i propri piccoli.


Questo difendono con tenacia e rabbia.


E lungo la strada verso il più vasto oceano, ancora acqua affoga le reti di solitari pescatori: canne e melma per avanzare la vita, giochi di bimbi in riva al fiume, a rendere evanescente il caldo evaporato.
               

Un pomeriggio in libertà alle cascate di Kota ci ridona le energie nell’acqua cristallina, fresca quanto basta a ritemprare il corpo e la mente, donando allegria anche a chi il coraggio di bagnarsi non ce l’ha!


Al villaggio taneka, Maurice è fiero di illustrarci la struttura dei pozzi, regalo unico dell’amico Aime, salvezza di vita e della schiena delle donne: girare una coclea tirando su gocce preziose restituisce tempo e felicità alla loro stanchezza quotidiana.



Teli bloccati su lunghi pali di legno, svolazzanti alle brezze lacustri, anticipano la vita di Ganviè, villaggio a palafitta sorto sulle acque non proprio profonde del Lac Nokouè.




In un pomeriggio umido e afoso ci ritroviamo proiettati tra cesti da pesce abbandonati, lunghe piroghe galleggianti, ed un’immensa distesa di verdeggiante vegetazione immersa nell’acqua mista a mota, interrotta solo da reti perimetrali, quest’ultime ancorate a storti ma efficaci tronchi per catturare il pasto del giorno e garantire il mercato locale.

Abdou ci racconta la storia della nascita del villaggio da una fuga di schiavi, ma mentre parla questa è già confusa con la fantasia: narrazione leggendaria che si riscrive e vive diversamente per ciascuno straniero uditore. E così, oltre al lento rimestìo dell’acqua sui fianchi dell’instabile imbarcazione, le parole accompagnano i gesti mentre si svuota la piroga da quel liquido inestimabile che involontariamente cerca di riappropriarsi del suo spazio.

Ed eccola Ganviè:


 la luce ovattata del pomeriggio avanzato risalta in lontananza gli scheletri di grandi e vuote palafitte senza muri esterni; nelle abitazioni chiuse, scuri quadrati aperti simili a bocche spalancate aspettano di essere serrati per poter preservare l’intimità casalinga; svettanti tetti in lamiera sorretti da longilinei pali lasciano scoperti i loro confini inferiori per aprirsi alla socialità, unico luogo di incontro degli abitanti per condividere le attività quotidiane.


Ma il vero mercato di scambio appartiene all’acqua: cariche piroghe di ogni bene - umano, animale o vegetale – fan vendere la sussistenza su quei barconi galleggianti, dove il pelo dell’acqua, muovendosi costantemente, evidenzia la loro fragile stabilità.







Curioso e affascinante l’incontro con l’infanzia di una stessa famiglia: su quella originale piroga comanda un unico e solo pezzo di stoffa, che copre indistinguibilmente gli esili e ridanciani corpi del trio, diversificati solo da stravaganti occhiali gialli, simbolo di dominanza, schiettezza ed allegria.



Le luci del tramonto, riflesse sulle delicate increspature d’onda regalano gioia, competizione e spiccato romanticismo: 



Tu sogni e guardi lontano, vedi un gran fiume che scorre pian piano, che scorre pian piano. Sul fiume c’è una piroga e dentro a questa c’è un negro che voga, un negro che voga ”, è il lontano richiamo musicale di un’infanzia vissuta a sognare “il cielo pieno di stelle”, mentre lento un  aranciato sole si perde nell’acqua al ritmo dell’agile ombra della vogata.


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Burkina Faso - BENIN
L’AFRICA DEL BIANCO E DEL NERO


LA VIA DELL’ACQUA

Lontananza




La corsa verso la costa oceanica si arresta lì, dove il corpo ha ceduto il passo all’anima e la mente al ricordo.



File interminabili di piagata carne umana attendono nell’oscurità e nel supplizio il naviglio che presto si confonderà con le pieghe ondulate del mare e i bui abissi marini, 

per trasportare loro, gli Esclaves, oltre lo sconfinato mare, in un arco illimitato di tempo che conoscerà solo sofferenza, dolore e morte.




…“Sono giunto in catene al mare, ancorato per il collo al ceppo e così unito indissolubilmente al mio compagno di sventura; 

depredato della mia sovranità per un pugno di ricchezza, ho negato e spogliato volontà e identità cerchiando nove volte l’albero dell’oblìo: 
così facendo ho rimosso dalla memoria chi sono e da dove provengo; non mi posso ribellare o reagire, posso solo andare, andare incontro a quello sconfinato e sconosciuto mondo di libertà negate. Tre volte girando intorno all’albero del ritorno ho concesso alla mia anima di riapparire, ma mai al mio corpo, 
e nell’abbandono della conoscenza ho valicato per sempre la Porta del Non Ritorno, solcando l’onda tra me e i miei più cari affetti verso un oceano di tenebre e oscurità….”


Il lamento laconico e ripetuto dello schiavo cadenza il suo passo in quei polverosi e strascicanti chilometri sulla rotta dello smisurato ignoto, in direzione di nascenti continenti straripanti di lavoro soggiogante, padri di un genocidio legalizzato all’annientamento della mente e dell’intelletto.

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Burkina Faso - BENIN
L’AFRICA DEL BIANCO E DEL NERO

LA VIA DELL’ACQUA







I piedi nell'acqua




Primo vero giorno di viaggio, verso le meraviglie di Bani e il vocìo di Gorom Gorom.

Caldo soffocante, l’entusiasmo per quest’avvio di conoscenza ci aiuta a superare il disagio del trasferimento. 

All’occhio non sfugge il panorama che scorre, seppur di costruzioni immobili, villaggi seminascosti dietro muri trinceranti, fienili sospesi su massi, bancarelle e piccoli negozietti, ma solo in prossimità dei villaggi. Il resto è savana, sterpaglia intrecciata di fili spinosi, aculei pungenti come le parole del capo villaggio a difesa dei suoi abitanti: la riservatezza della vita familiare e la curiosità del nostro essere diversi, ambiguità che si concretizza tra l’alternarsi di sorrisi e sguardi severi.











L’unione di paglia e mattoni non stupisce in questa parte di pianeta, dove l’acqua piovana torrenziale diventa catastrofe, e la sua mancanza tragedia, il suo continuo ristabilire un equilibrio per la vita e la sopravvivenza.

Sono incuriosita e propongo la sosta: intere spianate di mattoni allineati ci indicano la presenza di fabbriche del fango. E come dal nulla, spuntano ordinate spine di pesce accatastate di rettangoli di creta; susseguenti file di parallelepipedi ordinati su un fianco si godono il sole che lenisce i dolori e, se il lavoro è stato fatto a regola d’arte, le ferite sono chiuse ed il corpo è solido.





Anziani mastri non abbandonano i giovani al loro lavoro, ma sorvegliano in silenzio che il loro tramandare sia eseguito secondo le arti del mestiere e ci sorridono, fieri di mostrarci questa antica e preziosa tradizione.  


Il nostro cuore inorridisce alla triste realtà della creazione dell’opera: immersi letteralmente in quell’ammasso melmoso, ragazzi fin troppo giovani pestano violentemente le dure e fini particelle fino a sbriciolarle nell’acqua; la pesantezza di tirar via le gambe da quell’impasto attanagliante ed il caldo, torrido e soffocante, fanno il resto.

Incrostazioni sulla pelle che si uniscono alle crepe del terreno, l’amalgama risucchiante non lascia spazio alla lamentela, ma solo alla rassegnazione di un lavoro massacrante, culminante in quell’apporre il perimetro rettangolare su quel terreno in parte inaridito.


L’acqua benefica ha sortito un maleficio sui pori della pelle, distribuendo quella polvere asfissiante su tutto il corpo sommerso: il caldo rovente asciuga e cuoce i mattoni, così come, facendo evaporare l’umido, secca le finissime particelle che avvolgono le gambe dei ragazzi.


   
   
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ETIOPIA - Dancalia
SCINTILLII D'AFRICA NELLA NERA DANCALIA BIANCA


Stille, stelle, stalle


Ho appena disfatto la borsa:
c’è la piccola piuma che porto da ogni viaggio, per farmi volare meglio;
c’è la brocchetta nera per la mia collezione, a ricordarmi ovunque il lavoro delle donne;
c’è il cappello da aggiungere al muro della mia stanza, che comunque sta sopra la mia testa, a ricordarmi i luoghi dove girovago;
ci sono i sassolini e le pietre che raccolgo lungo il mio cammino sconosciuto;
c’è il presepe da portare alla mamma, uno per ogni Paese, anche da dove la Natività non esiste;
c’è il sesto cucchiaino della stessa compagnia…aerea;
c’è il libro nero di viaggio, con i preziosi appunti.
Ecco, c’è tutto…

Ma guardo meglio l’interno e mi accorgo che manca qualcosa, qualcosa che è rimasto laggiù:

manca la foto di Massimo alle stelle appese nel cielo di Ahmed Ela;
manca la lava incandescente nel cratere crollato di Erta Ale;
manca il sorriso mescolato alle lacrime di Anna, cristallizzate dal calore salato di Assa Ale;
mancano le mani alzate del saluto dei bambini;
mancano le cose da donna;
mancano i sassi di Stefania che hanno reso ricco un poliziotto di frontiera;
mancano i pantaloni ad un bambino per coprirsi dal freddo dell’altipiano;
manca la felpa di Giorgio, regalata ad uno sconosciuto che sarà molto contento;
mancano le pile al cuoco per illuminare il suo quotidiano sorriso;
manca il riservato silenzio di Mohamed;
mancano le cose da uomini;
mancano le pulci di Lalibela a condividere l’umana religiosità dei credenti;
manca il saluto ad Alfredo di apprezzamento per l’ascensione di uno dei tanti pellegrinanti santuari del periodo di Natale;
manca la musica di Solomon;
manca l’odore caprino e asinino, cancellato dall’acqua del lavaggio;
manca la terra e la polvere di tutti i colori del mondo;
manca la chiave di Mister Key;
manca il terzo caffè ad Orietta, che ha reso ospitale un casuale incontro tra donne;
manca il silenzio dei paesaggi di questa sconfinata terra;
manca l’ultima cena di Livio;
mancano i birr nella cassa di Claudio, per far quadrare i conti;
mancano le scarpe di Luisa a far contento un ragazzo;
manca l’arrogante furbizia di Yoele;
manca qualcosa di usato nella borsa di Leo;
manca l’ultimo saluto di Sabrina e Orietta.

Le stille iridescenti di mille colori:
salate, sferzanti, calde, preziose, trasparenti, emozionanti.

Le stalle, ricchezza dell’uomo e della sua fatica,
comunione di viventi beni preziosi per la sopravvivenza quotidiana;
ricovero di Nascita e punto di partenza per le stelle.

Le stelle, sospese a rendere brillante il nostro cammino,
verso lingue di fuoco,
verso lo scintillante cristallo salino,
verso la gioia del ballo,
cadenti sul mondo per avverare i nostri desideri.

Ma quello che manca sarà colmato da un’altra prossima conoscenza,
e riempirà di desiderio la borsa, fino a che non strariperà di altra gioia.


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ETIOPIA - Dancalia
SCINTILLII D'AFRICA NELLA NERA DANCALIA BIANCA


La strada



Album di foto accumulate sul tavolo, il libro nero dei viaggi davanti, la tastiera, il mouse.

Ci risiamo: non ho saputo resistere alla tentazione di spaziare in questo mondo, in modo virtuale, in senso fisico, in volo intellettuale.

Più mi agito e più scopro, più rifletto e più arrivo alla conclusione che le parole, le sensazioni, la realtà sfuggono, passano, non si arrestano.

“..In Etiopia viaggiare in auto è una specie di compromesso continuo: tutti sanno che la strada è stretta, malandata, ingombra di gente e di veicoli, d’altra parte devono entrarci. E non solo entrarci ma muovercisi, spostarsi, raggiungere le proprie destinazioni. Non c’è autista, guardiano di mandrie o viandante che ad ogni istante non trovi davanti un ostacolo, un rompicapo, un problema da risolvere: come passare senza urtare la macchina che viene in senso inverso? Come far avanzare mucche, pecore e cammelli senza schiacciare storpi e bambini? Come attraversare la strada senza finire sotto un camion, senza infilzarsi sulle corna di un toro, senza rovesciare quella donna con un peso di venti chili sulla testa? E così via. Eppure qui nessuno inveisce contro nessuno, nessuno si spazientisce, nessuno impreca, maledice, minaccia. Con pazienza, in silenzio, tutti compiono il loro slalom, le loro piroette, e i loro dribbling; manovrano, girano spingono e soprattutto avanzano. Se si crea un ingorgo, tutti si industriano a scioglierlo con calma e collaborazione; se c’è calca, millimetro per millimetro risolvono piano piano la situazione.” (Kapuscinski R. – Ebano)



Secondo ritorno in Etiopia, terra affamata, terra assetata, campi fertili, luoghi alberati, gole profonde, altopiani gradinati, spianate desertiche, ciottoli e dune sabbiose, sentieri vulcanici, acque salate, tramonti smorzati, albe silenziose, aria soffocante, polvere insidiosa, religiosità esultante, invasione straniera, fierezza difesa…….
E chissà quanto altro ha accantonato la mia mente.

Il titolo, perché ci vuole un titolo quando si segue un filo conduttore di ciò che ha impressionato il nostro sguardo, ciò che la mente ha disordinatamente archiviato nel recondito del cervello, ciò che farà accendere una lampadina dove l’elettricità non esiste, o dove è assolutamente inutile perché gli occhi vedono anche nelle tenebre più profonde.

Qualcuno la paragona ad un infernale girone dantesco, altri la chiamano Terra del Diavolo, ma si sa che l’Africa non è occidentale, è anni luce dal nostro vivere civile, è un altro Continente, con i suoi usi, i suoi costumi, le sue tradizioni e contraddizioni, ha il suo vivere civile dettato dalle necessità e dalla sopravvivenza.
Proprio come il nostro mondo occidentale. Solo che noi non dobbiamo fare i conti con la siccità dei deserti, con l’alternanza delle piogge, con l’inospitalità dell’ambiente, la crudeltà dei fenomeni atmosferici e geologici, con le guerre di confine per uno stralcio di terra, con il nomadismo dettato dall’acqua e dalla fame, con la mancanza di mezzi, ma non di motivazioni.

E la strada raccoglie tutto questo: la nostra diversità, la nostra curiosità mescolate al loro sistema di vita, appiedato, necessario, abitudinario, fiero.

Ma che introduzione al viaggio è?
E quale viaggio?

Terra d’Africa martoriata dal sole e dalla polvere; Terra nera di calore e di colore, Terra infame di fatica e di lavoro…..semplicemente


 Scintìllii d'Africa nella nera Dancalia bianca

Dormienti - Mimmo Paladino

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ETIOPIA - Dancalia
SCINTILLII D'AFRICA NELLA NERA DANCALIA BIANCA







Con Alfredo ho fatto diversi viaggi.
Alfredo non riesce a dormire più di tanto, e fuma.
Mi ha sempre elogiato per i miei scritti, ma non avevo mai letto i suoi.
Questo è l’effetto di una sua notte insonne,
nella calura che stringe la gola e il fumo che la soffoca,
 e non sai dove andare nel buio,
 illuminato solo dal chiarore delle stelle e
dal tuo cervello che schizza fuori scintille di parole.

E’ la sua premessa alla nostra Dancalia,
quella fiammella che alimenta la mia storia
e rende brillante il nostro vissuto


DANCALIA, INCREDIBILE DANCALIA!



La polvere si sposa con la sabbia,
il sasso si confonde con la roccia,
l'acacia protende i suoi rami smunti
alla ricerca di una stilla che non c'è.
Dancalia, incredibile Dancalia!

Lunghe distese di nulla, immense pietraie aride,
infinito deserto flagellato dal calore,
riflessi di luce che riverberano sul sale,
tocchi di vento incandescente.
Dancalia, incredibile Dancalia!

E in questo infernale scenario,
in tale palcoscenico lunare
ebbe origine l'uomo, sì proprio qui
l'umano ebbe l'ardire di presentarsi al mondo.
Dancalia, incredibile Dancalia!

Nella notte dei tempi le forze del male si unirono
per rendere truce, tragica, maledetta questa terra;
e i fiumi si seccarono inesorabilmente,
le piante lasciarono il posto alla squallida rena.
Dancalia, incredibile Dancalia!

Ma il Sole volle attenuare questo misero destino
lasciando perenne un suo raggio brillante,
fissando il suo colore, un dorato ricamo
per ingentilire queste lande ostili.
Dancalia, incredibile Dancalia!

E anche la Luna, col suo tocco timido e flebile,
posò il suo manto sul lago affinché i cristalli di sale
potessero ritemprare con un'incredibile  e soave luce
questa sventurata terra, brulla, dimenticata.
Dancalia, incredibile Dancalia!


Triste, impervia, sconfinata,
bruciata,battuta dal vento afoso...ma
affascinante, meravigliosa, piena di vita
esaltata dai colori, eterna...
Dancalia, incredibile Dancalia! 

Al                               (Alfredo Moretti)


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ETIOPIA - Dancalia
SCINTILLII D'AFRICA NELLA NERA DANCALIA BIANCA


Appunti deliranti di un vento silenzioso


Se il vento potesse parlare,

nessuno riuscirebbe a fermare la sua voce,
che corre libera nella piana satura della nebbia di mille particelle dispettose, disordinate, caotiche, frustanti, sferzanti, totalmente avvolgenti.


Si annuncia da lontano il suo alito: alza i mulinelli di quel Diavolo che ha in corpo; alimenta la sua danza nello sterminato vuoto;
















si annoda stretto a se stesso fino ad estendersi improvvisamente e riempire così tutti gli spazi vacui con la sua cattiveria.


Se il vento potesse parlare,

racconterebbe le mille lacrime cristallizzate nella sporca distesa salina;


sudore stratificato sulla pelle di chi accetta il suo rimbrottare,
venuto da lontano per andare lontano;

mummificato nei secoli di deposito salino, carbonato, silicato, solforato
a disegnare strane forme in continuo, lento, inesorabile mutamento.


Se il vento potesse parlare,

disegnerebbe con mille particelle colorate caleidoscopici scenari di verdi cristallini, acidi, giallo ocra, rosso fuoco.




Figure geometriche tonde e aguzze, lisce eppur taglienti,
cangianti di colore al solo tocco della pelle, o al suo respiro ossidante.


Se il vento potesse parlare,

rimarrebbe incastrato nelle corde tese
delle esagonali figure coerenti dell’arida terra,
unita perimetralmente cella per cella in un unico sconfinato sapido abbraccio,


tenacemente ancorato all’urlo del suolo, che smuove la sua superficie quel tanto che serve a far uscire il flebile soffio di sopravvivenza:


acqua evaporata all’istante dal calore della sua voce incessante,
maledettamente ribollente,
inesorabilmente riflettente.







Se il vento potesse parlare,

trasporterebbe passo dopo passo, lentamente e costantemente milioni di gocce profumate lungo la scia del corpo del cammello,


evaporate al sole implacabile di un’intera giornata e tornate a vivere all’ombra del crepuscolo,



quando stanco e annientato dall’attesa e dal peso l’animale si accoda al passo di chi lo precede, cedendo l’orma a chi lo segue,


verso l’orizzonte rifrangente perso in una palla infuocata.


Se il vento potesse parlare…..


Ma il vento è silenzioso.

Accarezza calorosamente la tua pelle nella notte meravigliosamente stellata,
attende muto di unirsi alla musica dei suoni quotidiani:

di un gallo che non c’è,
di un muezzin che non ha moschea,
di un asino che non ha muro,
di un bambino che non ha casa,

dei nostri occhi che si riempiono della brillantezza del cielo


e ascoltano immobili il fruscio del suo invisibile tocco.


 Natale 2010-2011 - Dancalia - Ahmed Ela


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ETIOPIA - Dancalia
SCINTILLII D'AFRICA NELLA NERA DANCALIA BIANCA



IL CALORE DELL'INFERNO



I colori dorati dell’alba si confondono con il rosso del tramonto. 

Lo stesso calore dei raggi solari riscalda il nostro corpo disteso all’ombra delle stelle.

E’ tutto ribollente in questa terra senza speranza: le nostre inquietudini, il nostro giaciglio, persino il sapore in bocca esplode di fuoco speziato.

Giova al corpo questo continuo accaloramento: il tuffo nelle acque più che tiepide del Lago Afrera allontana gli spiriti maligni della sua triste storia, vissuta da uomini tragicamente trucidati nella ormai lontana campagna italiana durante il tentativo di scoperta, esplorazione e colonizzazione di questa parte del Continente Africano.

Arida terra nera tinta di verde, frantumata, tagliente, scintillante od opaca, venduta ai margini delle strade per la preziosità del suo calore, nero carbone nella sua sacca bianca.


Le ombre notturne calano sul nostro andare, nascondendo nel buio delle tenebre i ridondanti raggi, quelli che colorano la giornata e riscaldano l’ambiente. 



Il nostro cammino è un continuo dondolìo tra vivaci colori, nero e aridità: il bianco del sale, il nero dei volti, l’oscurità della notte, oscillando in un arcobaleno che si tende dalla terra al cielo di tutti i colori dell’iride. 




Il sole fa evaporare l’acqua della terra, lasciando vincere la siccità sul suo pianto, senza più una lacrima di commiato;


l’urlo gorgogliante delle profondità risale in superficie  ad esplodere la sua rabbia contenuta per millenni, cedendo di schianto al raffreddamento dell’incontro, 


 contorcendosi, scivolando, accavallandosi negli strati e nella ricerca continua di una via di salvezza, vana speranza di ritrovare di nuovo quella verso gli inferi.



Ma la vita è impietosa, non lascia spazi di continuità, accumula il suo calore negli strati piatti della sua raffreddata superficie, con scintillanti sì, particelle luminose, ma assai salate, troppo, per concedere anche solo la vita animale. Solo le mosche massacrano la pelle sclerificata degli stanchi animali, vagando nelle loro piaghe assetate di liquidi nutrienti a garantire loro riproduzione e breve sopravvivenza. Il raglio disperato del mulo non le allontana, lasciando che la simbiosi protegga la loro e altrui vita.


Sfiniti dromedari si accasciano sul rovente tappeto salino, in attesa di un crepuscolo, anticamera di rigenerazione per una fiaccata ripartenza.





Lunghe ed infinite si snodano le carovane della vita, si perdono nella palla cocente di un sole all’orizzonte, lente ed unite dalla fatica e dalla sete, passo felpato e stanco a trascinare chili di sapide tavolette.



E dietro, i lavoranti, quel gesto unico a sollevar le membra sul bastone per un riposo che ancora non arriva, vissuto legno che sorregge la giornata, dall’estrazione del sale all’esortazione degli animali, ed infine a sostenere la propria stanchezza.


Il costo di una giornata al calore di questa implacabile condizione è la perdita della vista, accecata dai mille scintillii di infinite particelle dure come il marmo, ed altrettanto candide;



milioni di piccoli frammenti che si perdono nell’aria già piena dell’aridità e del seccume, asciutta come i corpi degli uomini che per guadagnare qualche birr lasciano evaporare quel poco di umidità che ancora contiene il loro corpo.


Terra spaccata con attrezzi rudimentali ma efficaci, sollevata dalla forza delle braccia di chi spinge con potenza e con bastone oltre la coltre fangosa, ormai asciutta e ardente dell’infuocata aria; 





accovacciati all’altezza del terreno, uomini scalpellano mattonelle rigorosamente perfette in lunghezza e larghezza, quel tanto che basta a rendere pesante e faticoso il fardello dell’animale. 

Così dall’alba al tramonto, dove solo il buio dilata con misero contributo il calore di una giornata infernale, resa ancora più rovente da quel vento perfido che nulla fa fermare, neanche l’aleatorio confine eritreo.

Senza identità, ma con fierezza lavorano gli Afar, uomini silenti che seguono la loro vita spaccando le pieghe  assetate di questa martoriata terra, per cavarne ricchezza da vendere nelle lontane località d’interno ai primi mercati distanti chilometri di pesantezza e sudore, di passo animale e solitudine umana.

Nessuno è fermo su questo screpolato suolo: si sposta lo strato superficiale, si scava, si taglia, si affina, si perfeziona, si accumula, si carica, si parte.



Si attende che il mare risalga in superficie o che possa piovere ambita acqua che riappianerà tutto, per poi evaporare di nuovo alle note calde del quotidiano, torrido, balletto solare.




E il vento silente è indifferente a tutto questo: corre, trascina, mischia, solleva, fugge.



Trasporta lontano verso altri luoghi la voce della sofferenza, là dove il mare si perde, o svanisce nel nulla dell’aria, o sconfina nel curvo orizzonte.





 Natale 2010-2011 - Dancalia - Ahmed Ela, piana del sale
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ETIOPIA - Dancalia





QUANDO LA TERRA SCOPRE SE STESSA



Sulle Pendici dell’ Erta Ale

Calpesto il terreno e sento scricchiolare la terra sotto i piedi.
E’ il panico totale!
Ad ogni passo sento franare il mio corpo verso un velo di ostia che si rompe e mi trascina in questa gabbia di incertezza, da dove ne esco solo pensando che ormai posso solo andare avanti.

Sono avvolta dal buio più intenso, tenebre che circondano la nostra perseveranza a ricercare la luce dell’esplosione vulcanica.

Ma nulla di tutto ciò.

Nel silenzio di questa oscurità, solo voci mescolate all’insistente fruscio del vento, indistinte, incomprensibili, ricacciate nella notte più scura. Flebili luci vicine, troppo deboli per illuminare l’intorno, proiettano il loro fascio di luce su questo magma avvoltolato, scuro, screziato, in rilievo, ormai freddo ed estremamente sottile.

Di nuovo il passo affonda verso le nere e impalpabili viscere della terra, di questa lava che è stata espulsa da anni immemorabili e che raffreddata si è stratificata nel corso del tempo: aggrovigliata, fulminata, accartocciata, inglobando dentro e sopra di sé tutto il mondo vivente circostante.

Temperatura che non permette vita, neanche un suo avvicinamento, splendida nella sua visione ma assolutamente impenetrabile.


Non è possibile accostarsi più di tanto, l’oscurità ha inghiottito il giusto cammino, la luna è nascosta nell’orizzonte delle tenebre, e la nostra volontà è scemata via via che la sfinente salita e il digiuno si sono aperti il varco, vittoriosi sul nostro corpo.



La delusione di questo mancato ricongiungimento per molti è cocente come il ribollire di quella massa liquida, fosforescente, incandescente, sprigionante vapori umidi e penetranti. Il suo colore rosso fuoco accende l’aria, facendo immaginare di mille scintille evanescenti danzare nel calore al suono dell’aria intermittente, dispettosa, troppo briosa per voler rimanere prigioniera in quella bollente e profonda ospitalità.


La Terra suda e si scopre, gela la sua pelle raggrinzendosi, ripiegandosi, accavallando i suoi morbidi e rilucenti strati in crespature che un non vedente non riconoscerebbe alla sua esplorazione, tanto creano un furioso labirinto al tatto.


E come ciechi scaliamo la tirata collina di fronte all’eruttare di quella Terra scomposta, che occulta a nostra insaputa precipizi ed inghiottimenti, voragini e ripidità, divorando il buio più completo insieme al nostro urlo nel momento dell’evidente, anche se timidamente illuminata, consapevolezza. Sono attimi di ansia e preoccupazione per una discesa incognita e priva di luce, su terreno sconnesso e scivoloso reso tale dalla sua infida consistenza: piccole particelle che mal rassodano il solido sull’erto sentiero, e quando il piede, rilassato, finalmente ritrova il piano viene improvvisamente inghiottito da quel nuovo esile ed instabile strato di lava scura.


La stanchezza si mescola al nostro arrampicare negli ultimi passi verso i ricoveri notturni; l’avvilimento del tenebroso spettacolo prende il sopravvento, che neanche i tarallucci e vino riescono a consolare, unitamente alla speranza di una cena ben ritardata.

Invano i cammellieri giungeranno oltre tempo; ormai ciascuno di noi è impegnato a scegliere il proprio affollato giaciglio, lì sotto il cielo stellato sfondo delle oscurità più nere, mai immaginando la spettacolare alba del giorno successivo.



Mentre contemplo la scura calotta riposando la stanchezza, scopro che non sono delusa, anche se il cammino per arrivare a conoscere l’intimità della Terra è stato faticoso: un’intera giornata nella tempesta di sabbia e calore, attraversamento desertico di vita inesistente, passaggio inerpicante su roccia concretizzata, aguzza, frastagliata, mista a terreno affondante.

by Giorgio
 Mani di bimbe alzate in questo spaventevole vuoto arido a ricercare il saluto di chi, fuggevole come noi, ricambia l’allegria di un sorriso nel deserto, nella solitudine, nella lontananza.




Il villaggio che ci ha ospitato per i preparativi         dell’ascensione pullula di calma africana, con gli Afar che contemplano indifferenti la nostra frenesia dall’alto delle loro rocce, al caldo della giornata che scema, unico baluardo a difesa della loro sopravvivenza.

Un sentiero notturno nasconde l’animo, lo ricopre dell’evidenza del nostro inconscio, ci fa regredire laddove vorrebbe andare e non placa la nostra fatica. Mille parole di incoraggiamento si uniscono nella catena verso lo spettacolo della scoperta della Terra, a formare con i suoi anelli giunti una solida guida all’essere, affinché tutti possano percepire e gioire di questa esplosiva rinascita terrena.


E sarà proprio il divampare del sole che illuminerà le nostre certezze su quella realtà cocente, avvoltolata, strabiliante, anche se totalmente concretizzata.

Erta Ale all’alba



Ripiegamenti lavici

 





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