“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Dancalia - Il calore dell’inferno


I colori dorati dell’alba si confondono con il rosso del tramonto. 

Lo stesso calore dei raggi solari riscalda il nostro corpo disteso all’ombra delle stelle.

E’ tutto ribollente in questa terra senza speranza: le nostre inquietudini, il nostro giaciglio, persino il sapore in bocca esplode di fuoco speziato.

Giova al corpo questo continuo accaloramento: il tuffo nelle acque più che tiepide del Lago Afrera allontana gli spiriti maligni della sua triste storia, vissuta da uomini tragicamente trucidati nella ormai lontana campagna italiana durante il tentativo di scoperta, esplorazione e colonizzazione di questa parte del Continente Africano.

Arida terra nera tinta di verde, frantumata, tagliente, scintillante od opaca, venduta ai margini delle strade per la preziosità del suo calore, nero carbone nella sua sacca bianca.



Le ombre notturne calano sul nostro andare, nascondendo nel buio delle tenebre i ridondanti raggi, quelli che colorano la giornata e riscaldano l’ambiente. 






Il nostro cammino è un continuo dondolìo tra vivaci colori, nero e aridità: il bianco del sale, il nero dei volti, l’oscurità della notte, oscillando in un arcobaleno che si tende dalla terra al cielo di tutti i colori dell’iride. 








Il sole fa evaporare l’acqua della terra, lasciando vincere la siccità sul suo pianto, senza più una lacrima di commiato;



l’urlo gorgogliante delle profondità risale in superficie  ad esplodere la sua rabbia contenuta per millenni, cedendo di schianto al raffreddamento dell’incontro, 




 contorcendosi, scivolando, accavallandosi negli strati e nella ricerca continua di una via di salvezza, vana speranza di ritrovare di nuovo quella verso gli inferi.





Ma la vita è impietosa, non lascia spazi di continuità, accumula il suo calore negli strati piatti della sua raffreddata superficie, con scintillanti sì, particelle luminose, ma assai salate, troppo, per concedere anche solo la vita animale. Solo le mosche massacrano la pelle sclerificata degli stanchi animali, vagando nelle loro piaghe assetate di liquidi nutrienti a garantire loro riproduzione e breve sopravvivenza. Il raglio disperato del mulo non le allontana, lasciando che la simbiosi protegga la loro e altrui vita.



Sfiniti dromedari si accasciano sul rovente tappeto salino, in attesa di un crepuscolo, anticamera di rigenerazione per una fiaccata ripartenza.






Lunghe ed infinite si snodano le carovane della vita, si perdono nella palla cocente di un sole all’orizzonte, lente ed unite dalla fatica e dalla sete, passo felpato e stanco a trascinare chili di sapide tavolette.




E dietro, i lavoranti, quel gesto unico a sollevar le membra sul bastone per un riposo che ancora non arriva, vissuto legno che sorregge la giornata, dall’estrazione del sale all’esortazione degli animali, ed infine a sostenere la propria stanchezza.




Il costo di una giornata al calore di questa implacabile condizione è la perdita della vista, accecata dai mille scintillii di infinite particelle dure come il marmo, ed altrettanto candide;






milioni di piccoli frammenti che si perdono nell’aria già piena dell’aridità e del seccume, asciutta come i corpi degli uomini che per guadagnare qualche birr lasciano evaporare quel poco di umidità che ancora contiene il loro corpo.



Terra spaccata con attrezzi rudimentali ma efficaci, sollevata dalla forza delle braccia di chi spinge con potenza e con bastone oltre la coltre fangosa, ormai asciutta e ardente dell’infuocata aria; 








accovacciati all’altezza del terreno, uomini scalpellano mattonelle rigorosamente perfette in lunghezza e larghezza, quel tanto che basta a rendere pesante e faticoso il fardello dell’animale. 

Così dall’alba al tramonto, dove solo il buio dilata con misero contributo il calore di una giornata infernale, resa ancora più rovente da quel vento perfido che nulla fa fermare, neanche l’aleatorio confine eritreo.

Senza identità, ma con fierezza lavorano gli Afar, uomini silenti che seguono la loro vita spaccando le pieghe  assetate di questa martoriata terra, per cavarne ricchezza da vendere nelle lontane località d’interno ai primi mercati distanti chilometri di pesantezza e sudore, di passo animale e solitudine umana.

Nessuno è fermo su questo screpolato suolo: si sposta lo strato superficiale, si scava, si taglia, si affina, si perfeziona, si accumula, si carica, si parte.






Si attende che il mare risalga in superficie o che possa piovere ambita acqua che riappianerà tutto, per poi evaporare di nuovo alle note calde del quotidiano, torrido, balletto solare.






E il vento silente è indifferente a tutto questo: corre, trascina, mischia, solleva, fugge.





Trasporta lontano verso altri luoghi la voce della sofferenza, là dove il mare si perde, o svanisce nel nulla dell’aria, o sconfina nel curvo orizzonte.





By Derspina                                                   Natale 2010-2011 - Dancalia - Ahmed Ela, piana del sale






Segue:



Dancalia - Dallol                     FOTO
Dancalia - Hot Spring             FOTO
Quando la Terra scopre se stessa : Alle pendici dell'Erta Ale





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