“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

QET ' E (Frammenti) DI IRAN

                         

                          Paese ricco di Storia,




terra coperta da tutte le terre,

















architetture incastrate in mille pietruzze, vetri, mattonelle;



pezzi di pietra che sostengono la storia,











giochi di mattoni e di colori,
fluorescenze di specchietti e caleidoscopiche rifrangenze,

colonne,    archi,      
                     ponti,


 

costruzioni che si susseguono, svettano, svaniscono, rinascono, si abbelliscono nel corso dei secoli;

















luoghi di passaggio, calate di invasori, popolazioni scomparse, 




civiltà splendenti, successioni, imperi sfavillanti, capitali tramontate, re Grandi, vincenti, decaduti, sconfitti, difesi, traditi;




stragi di etnie e popolazioni, guerre sociali, guerre e estrazioni nucleari, rivoluzioni islamiche, repressioni civili;

terremoti, disfacimenti, crolli, rovine, ricostruzioni;














deserti,


laghi, montagne,

 
Vallate di Assassini, fuochi eterni, eterno silenzio.......











...Scritti al volo, riflessioni, flash, impressioni, scatti, riprese, videate, albe, tramonti, scale, chilometri, pezzi di mosaici passati e viventi che costituiscono i miei

QET'E  DI IRAN
___________(FRAMMENTI)___________________________________


Quando Sandra, amica modenese, mi comunicò la sua intenzione di andare in Iran la mia reazione fu violenta, lì per lì troppo eccessiva, pensando alla pericolosità del Paese, alla situazione estremamente delicata del suo governo, alle tensioni che si percepivano nelle comunicazioni dei nostri mass-media riguardo le sue attuali vicende interne ed estere.
Morale: la condannai aspramente, se non altro per la messa in pericolo della sua vita e del nostro affettuoso e amichevole rapporto.

Oggi, rientrata dallo stesso viaggio, dopo aver vissuto una minima esperienza a contatto con questo popolo e le sue convinzioni, dopo aver letto molto della sua storia, delle vicissitudini e conquiste succedute, delle perplessità e costrizioni vissute, delle violenze subite, della religione e della poesia che costituiscono la vita di questa nazione, mi sono convinta dei molteplici e anche involontari luoghi comuni e pregiudizi che circondano e circolano nel mondo occidentale intorno al Medio Oriente e ai suoi Paesi, molto lontani da noi e non solo nella distanza.

Ed il velo di certezze che fino a quel momento per me attorniava quest’area è miseramente crollato, lasciandomi ancora oggi numerosi ed irrisolti dubbi sull’interpretazione di questo sconosciuto mondo, che comunque gli garantisce, dopo una prima visita, la mia sicura volontà della sua ulteriore scoperta in tutti i campi.


La parola abbaglia e inganna perché è mimata dal viso,
perché la si vede uscire dalle labbra,
e le labbra piacciono e gli occhi seducono.

Ma le parole nere sulla carta bianca sono l'anima messa a nudo.
(Guy de Maupassant)

Per questo ciò che segue è solo l’istinto del mio vissuto che ha preso il sopravvento ed ha lasciato sulla carta quelle sensazioni che non saranno nè precise, nè giuste, nè errate, nè tanto meno certe, ma solo lasciate fluire dal mio troppo veloce pensiero e frenate dalla mia rallentata penna.


Iran: Dialoghi

TRA IDIOMA E SOCIETA’....

<<Questo paese non è fatto di individui deboli e inermi che aspettano che noi (gli Usa, gli esuli iraniani che non hanno più il polso di questa società, il mondo occidentale o qualsiasi altra entità o nazione che avanza tali protettive intenzioni) arriviamo a liberarli e li conduciamo sulla retta via.

Questo è un paese in movimento, che lentamente va evolvendosi e definendosi, venticinque anni dopo la sua Rivoluzione. Non ci sono linee di demarcazione nette nell’Islam, nella cultura, nella tradizione, non c’è un ‘giusto’ e uno ‘sbagliato’: è una società complessa, dove gli esseri umani abitano e vivono. Sta diventando sempre più difficile far passare questo semplice concetto, quando i media occidentali raffigurano il Medio Oriente o il mondo islamico (come se esistessero entità così omogenee) come regioni prive di umanità e normalità.>>
 (Narghes Bajoghli, reporter iraniana, vissuta in parte negli USA)


Dialoghi


<<Anna, scusa, è giusto dire in italiano...??>>,
La lezione di italiano a Mehran iniziava quotidianamente così, con le sue domande precise e le mie risposte spaziali, poiché tanta era la voglia di far conoscere la nostra lingua e di avere uno scambio di idee con chi come lui vive in questo Paese, ancora a noi occidentali per molti aspetti sconosciuto.

Il risultato è stato una costante altalena di dialoghi, espressioni, modi di dire, convinzioni, discussioni in italiano frammisto al farsi, di iraniano mescolato alla lirica; il nostro nazionale idioma farcito di grammatica, il suo linguaggio corrente immerso nella poesia. La correzione di una lettera d’amore ha coronato questo aulico scambio comunicativo, convincendoci entrambi che “tutto il mondo è paese”!

Come siamo finiti, poi, a parlare de “La civetta cieca”, racconto di un poeta narratore [1] “maledetto” e quasi esistenzialista, lo sa solo il nostro dar corpo alla voce del pensiero guardando scorrere il variegato panorama e le bellezze artistiche, alternando brani e leggende con squarci di Storia, interrogando il profondo dell’anima con quanto di religioso e mistico ha il quotidiano vivere iraniano.

E di riflessione in linguaggio, abbiamo scoperto centinaia di anni di storia e cultura, e coperto migliaia chilometri.

Ma lingua e farsi iniziano a mescolarsi già nei bazar, ascoltando con piacere un marito che suggerisce alla moglie poche parole inglesi per venire a conoscerci;

continua subito dopo con la risposta scanzonata e dispettosa di una ragazza, visibilmente scossa per la perdita di un parente, al fratello che la rimprovera di volerci regalare il pane, per lei occasione di conoscenza con noi - scena questa che si è lasciata immagazzinare nella mia mente come piacevole ricordo di un pomeriggio in libertà -.


E ad Isfahan, ancora rammaricata per aver ascoltato parole di sconforto sulla vita mal vissuta del venditore di pennelli, che non vuole vivere in questo Iran, continuo a mortificarmi per non avergli stretto quella mano da me spontaneamente offerta e subito dopo velocemente ritirata: sento ancora il suo amareggiato ed interrogativo sguardo che mi segue mentre esco dal negozio.


Ma sono altre le espressioni che compensano quel disagio interlocutorio: l’innocente spalancare gli occhi di un neonato in braccio a una bambina, ed il suo successivo sorriso corrisposto al mio nel bazar di Kerman; la curiosità tutta infantile di Setafhe sul mio nome all’aeroporto di Shiraz;





l’esibizione fiera ed involontaria di un fabbro, subito seguita dalla storia di un vecchio  lì presente, tanto amabile ed espressivo, dolce e gentile quanto assolutamente incomprensibile; il mio continuo ed incessante contrattare con i negozianti per il solo gusto di stabilire  e vivere quel punto di contatto che illumina entrambi: la mia memoria segna come storti gli occhiali sul volto del venditore, ma dritto arriva all’animo, e vivido, il suo soddisfatto sorriso!


Ed il muto dialogo contagia.
Mentre cerchiamo pace nel nostro girovagare, una anziana signora invita Elena a parlare con lei, e come tutte le persone di una certa età che si rispettino le racconta i suoi mali, non ultimi i suoi indecifrabili dolori articolari: il tutto termina con grande solidarietà e sorrisi, di quelli che sfuggono alla Storia ma rimangono nel cuore.


E ancora, per strada, chi non sa parlare ad un folto gruppo di indiscutibili turisti come noi, ma lo vuole, si aggrappa alle conosciute ed internazionali occasioni: i nomi dei calciatori italiani e stranieri sono sciorinati solo per la gioia e la fierezza di aver dialogato con noi, e... noi con loro.

Ma il culmine è raggiunto dalla ritardata infanzia di Giulia e Dario, che tra una giostra e l’altra, una partita a calcio coi bimbi e uno sguardo fuggevole al passato, intrattengono svariati minuti e parole con tutta la gioventù iraniana. I temi affrontati, però, sono per noi, vissuti del gruppo, ancora un mistero!

E agli sguardi e al linguaggio seguono i gesti, quell’idioma internazionale che fa intendere centinaia di popolazioni, etnie, civiltà: vederci offrire frutta, sorrisi e alimenti, dolci o salati, solo a sentirci parlare; ricercare in una foto insieme, italiani e iraniani, l’orgoglio di condividere con l’occidente la loro essenza del tradizionale; quello scambiare pane, farsi e inglesi frasi a Kandovan con la sorella di un immancabile fratello; o l’invito a visitare l’ abitazione antica di una donna iraniana vissuta a Torino e tornata a vivere le contraddizioni dei due mondi nel suo Paese.

Il colmo è superato nella buia Teheran, quando M.E. chiede entusiasta ad un gruppetto di vigili di illustrarci la via,  - chi meglio di loro? - e loro, dopo lungo parlottare e decidere insieme, si sono rivolti ad un passante, che in perfetto inglese ci ha così edotto:” Can I help you?”. E noi, con celata ilarità, ci siamo lasciate pazientemente erudire!!


Ma non è ironia quella che suscita il ruhani incontrato: in un'ora e mezza di scambi espressivi, le parole della conoscenza più profonda della Sunna mal si legano con i concetti di libertà e diritto concessi a una popolazione troppo schiva e schiava dello scheletro nel cassetto, demonizzato sotto forma di americanizzazione o influenza occidentale. Ancora rimbomba nella sala dell’udienza - esposta in perfetto italiano da chi ha origini e vita miste -  la negazione del peggior crimine perpetrato nei confronti del popolo ebraico, attraverso parole d’ odio verso la nazione che descrive la Palestina ‘Terra senza popolo, per un popolo senza terra’, quest’ultima soffocata nei più elementari diritti civili. Frasi che risuonano come eco della somma  autorità religiosa iraniana oggi scomparsa e del suo attuale governatore : <<Qualsiasi Paese islamico che riconosce Israele, commette un crimine imperdonabile e dovrà affrontare l'intera comunità islamica”, “Israele dev'essere cancellata dalle carte geografiche >>, questo scandisce il mullah, suscitando irruente reazioni scaturite dalle nostre inorridite menti.

E l’acceso scambio d’idee continua, stavolta tutto in casa italiana, tra le convinte e sostenute tesi di G. e lo svizzero M., che supporta deciso contrarie scelte politiche italiane, seppure a ragion tacendo con il suo inseparabile compagno di stanza, di fermissime idee contrapposte, condividendone appieno solo l’anticipata quotidiana levataccia!

Malgrado l’individuale curiosità di ciascuno di noi nei confronti di questo sconosciuto Paese, tra una lezione e l’altra, il silenzio ha sovrastato per gran parte degli spostamenti e non per una qualche incomprensione di linguaggio, ma semplicemente perché il gusto stava assaporando tutte le squisite bontà dolci e salate, in forma di amaretti, pistacchi, banane, yogurth, caprino, miele, uvetta e dolciumi di tutti i tipi, prodotti dalla saporita terra.

....E chiamatemelo IDIOMA!....



[1] [Sadegh Hedayat, autore de “La civetta cieca” e “Tre gocce di sangue” non racconta gli innamorati e le loro disavventure, gli intrighi della corte, le gesta eroiche, neppure favole o storie edificanti, bensì il male di vivere in un paese antico che deve fare i conti con la modernità, con il capitalismo che bussa alle sue porte e con una nascente borghesia ancora priva di identità e culturalmente incerta. È stato un testimone sincero del passaggio incompiuto e doloroso dell’Iran dalle tradizioni feudali all’era moderna....Il suo stile è uno strumento per raccontare i suoi sentimenti. Ciò che pensa lo trasferisce direttamente sulla pagina: non sceglie le parole e non cura la bellezza della composizione”. (Bijan Zarmandili, gennaio 2006)]


segue con :Iran - il peso del Velo

Iran: il peso del Velo


……..IDENTITA’……….


In tutti i miei viaggi ho sempre calato un occhio particolare sulla condizione femminile dei paesi che sto visitando, forse per solidarietà di comprensione, o più in generale perché con le donne il linguaggio e la comunicazione è più facile per il vissuto di una stessa condizione, così come lo scambio di esperienze e situazioni.
Ultimamente, però, sono entrata in un altro pianeta, molto più oscuro, e non solo nelle sembianze, ma soprattutto nella sostanza, quello del mondo islamico, arabo, musulmano, oltre i confini del nostro occidentale. Ed il mio cervello ha fatto tilt.
E’ difficile penetrare in un mondo che resiste, che è curioso ma non comunica, che si stupisce ma non trasmette diversità, che è indifferente all’apparenza pur essendo profondamente differente. Ed in questi Paesi mi sono sentita profondamente straniera, quasi quanto mi sono sentita bianca nell’Africa nera.
Nell’epilogo del suo libro, Il mio Iran, scrive Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace 2003:

“ Sulla mia scrivania a Teheran c’è il ritaglio di una vignetta che mi piace tenere sotto gli occhi mentre lavoro: raffigura una donna che indossa un elmetto spaziale, piegata su una pagina bianca e con una penna in mano. Mi rammenta una verità che ho imparato vivendo e che riecheggia nella storia delle donne iraniane attraverso i millenni: la parola scritta è lo strumento più potente che possediamo per proteggerci, sia dai tiranni sia dalle nostre tradizioni. Che si tratti della leggendaria Sheheradaze che si sottrae alla decapitazione raccontando mille e una storia, di poetesse femministe del Novecento che hanno sfidato con i loro versi la percezione della cultura femminile, o di avvocatesse come me che difendono in tribunale chi non ha alcun potere, per secoli le donne iraniane hanno fatto affidamento sulle parole per cambiare la loro realtà.”

Non sono iraniana, ma tenterò di descrivere le sensazioni che ho provato nell’ immergermi in questa terra così diversa nell’uguaglianza, così irrilevante alla diversità, così troppo curiosa e istintiva tanto da unire piuttosto che escludere. E se la strada porta ad un vicolo cieco, tornerò indietro per la stessa via, avendone comunque conosciuto la fine, e con ancora la voglia di uscire dal dedalo dell’incomprensione.



IL PESO DEL VELO



“Libertà di pensiero”, sono le parole del ruhani incontrato; “libertà di essere” si contrappongono le nostre; il velo sulla testa la catena per l’autodeterminazione.


Toccarsi, ridere, ballare, baciarsi, spettano solo al privato e al giorno più bello, anch’esso legato ad un contratto da anelli di monete: se prosegue per la vita diventa patrimonio, al contrario si trasforma nella chiave del lucchetto per la propria libertà. Matrimonio temporaneo è il ricatto e talvolta il riscatto delle vedove, delle donne più povere, di quelle emarginate.

Bambine con il capo coperto tengono tra le braccia l’unico essere veramente libero nella sua innocenza: occhi spalancati di un neonato che ridono del tuo sorriso, e questo lo porta ad emettere gridolini e gorgoglii comunicanti gioia. Sono loro che riconoscono lo sconosciuto, ti chiamano, ti sollecitano, e la voglia di esprimere la loro gaiezza ti spinge a rispondere con l’unico gesto veramente internazionale di divertimento.

Ma la spensieratezza è interrotta dal carico sulla testa: due lembi di stoffa che stringono il collo, lo avvolgono, lo strozzano, l’incastrano per una vita intera, e non c’è prezzo per la sua libertà, non un filo di ribellione fuoriesce da quella gola coperta, serrata, nascosta, non un alito di indipendenza si dissolve nell’aria, ma rimane intrappolato, muto, nelle 4 mura.


Frastornata ti aggiri per strada: volti troppo uguali differenziano corpi drappeggiati di nero, all’ultima moda; medesima tristezza e rassegnazione sui volti dei manichini femminili diversificano le stoffe, e dove non si vuole evidenziare l’identità femminile, la decapitazione del cervello è più che manifesta.


Ma rimangono gli occhi a comunicare al mondo che l’universo di donna non è tutto uguale, piatto, privo d’intelletto: l’incrocio degli sguardi si perde nella sete di conoscenza e comunicazione, dialogo e curiosità, urlando al mondo occidentale ciò che le parole non dicono, ma che esprimono tutto il loro volere essere donna nell’identità internazionale.

Il peso del velo ti ricorda chi sei, lo porti senza dignità, appartiene ad un altro mondo, ma ti ci stai abituando: lo tocchi, lo sistemi, vuoi essere sicura che copre quel tanto che basta a non offendere un nemico invisibile, a smorzare una voce che non c’è ma che non ti abbandona, anzi ti lega a quel pezzo di stoffa. Lo palpi, lo senti, sei più tranquilla. Il rispetto che esso crea ormai è iniettato in te, diventa quasi naturale averlo, ti senti monca a non percepirlo. I tuoi amici costantemente te lo ricordano, ma ormai è considerato parte del tuo essere in questo Paese, se vuoi condividere, seppur pesantemente ed involontariamente, la quotidianità della popolazione e comunicare con queste genti.

Ovunque incroci gli sguardi delle donne che con curiosità, ed un pizzico di stupore, vorrebbero conoscerti, e lo fanno, e tu, tra la gioia dell’incontro e la fugace incomprensione, ti senti sempre più straniera, frustrata di quella assurda incomunicabilità.

In molti ti hanno ingannata: paese pericoloso, diritti umani inammissibili, libertà negate. Tutto questo forse in parte è vero, così com’è reale anche il baratro creato tra l’occidente ed una nazione che non ne vuol sapere di prendere coscienza della propria indeterminazione.

Ma le voci di donna si sollevano anche sotto il velo nero; l’unione dei paesi forse si allontana, ma vicina è comunque quella globalizzazione che rende tutti uguali, seppur viventi in mondi diversi.

Ed eccole allora le donne che pur gestendo quotidianamente la religiosità legata a questa società e a quel sottile pezzo di stoffa, non tacciono delle ingiustizie legate alla condizione femminile, anche se inconsapevoli del loro femminismo nascente; donne che non sopportano con rassegnazione il laccio al collo del fazzoletto, ma che con lo stesso panno legano insieme speranza e determinazione a far valere in ogni campo il proprio essere donna, ed in alcuni casi, anche solo il proprio essere.

E quando cade questo fazzoletto? Quando questa aureola che reprime la giocosità di un’infanzia spensierata – perché già da adolescente devi prendere precocemente coscienza della tua inferiorità sessuale indossando l’hejab–, quando questo alone svanirà nella limpidezza dell’aria, assieme alle colombe che identificano il moto circolare della vita ed insieme ad essa  si solleveranno nel cielo delle libertà dei diritti?

Sono arrivata al muro di un vicolo cieco, il rammarico è grande, ma l’ostacolo è troppo alto per passare oltre.

Torno indietro e ripercorro la strada, ma forse occorrerà attendere un altro viaggio, o accettare la consapevolezza che ciascuno nel proprio Paese intraprende battaglie per il vivere civile, e che la mia comprensione da sola non è sufficiente ad esprimere affermazione di libertà verso quel mondo in cui ogni donna è uguale nella sembianza ma profondamente diversa nella propria soggettività.

Non credo che lo saprò mai, perché sono occidentale, e perché ormai è radicato in me quel senso di autodeterminazione che mi impedisce di vivere un cammino diverso dal mio, un tragitto che accetta il peso del velo in cambio di una vita dignitosa.

Esistenza che non spetta a me giudicare, tutt’al più comprendere.

E sono contenta di averci provato.
P.S. : mi hanno aiutato in questa ricerca di consapevolezza femminile:


Giuliana Sgrena, Il prezzo del veloFebbraio 2008
Lila Azam Zanganeh, Chi ha paura dell’Iran? - 2006
Lilli Gruber, Figlie dell’IslamOttobre 2007
Renzo Guolo, La via dell’ImamMaggio 2007
Shirin Ebadi, Premio Nobel per la pace 2003, Il mio Iran2006
Conversazioni con Mehran, traduzioni, modi di dire, dialoghi e scambi dal farsi all’italiano, Ottobre 2008






Iran- Metagrammi: veli,peli,teli


METAGRAMMI: VELI , PELI, TELI


Metagramma: è stato inventato da Lewis Carroll (autore di Alice nel Paese delle meraviglie): si prendono due parole che abbiano attinenza tra loro e formate dal medesimo numero di lettere. E ci si gioca.



Entro nel Mausoleo di Imamzadeh-ye-Hossein a Qazvin e rimango incantata.

I miei occhi non si staccano da quell’insieme di specchi sfavillanti, rilucenti, senza colore eppur pieni di colori. Caleidoscopici frammenti di arte e bellezza, luce e fantasia, allegria e splendore.



Sono trasecolata, mi rigiro su me stessa e sembra che sia stata catturata dal rotore di un meccanismo vorticoso, centrifugata in quello spettacolare insieme di ritagli fluorescenti che compongono disegni razionali, che imprigionano lo sguardo in una visione tridimensionale e ti fanno dimenticare dove sei.

Di colpo abbassi lo sguardo alla realtà: Giulia sta lottando con il suo improvvisato e temporaneo chador, colorato, sguisciante, immettibile. Ha perso il velo. In un luogo così sacro, dove le donne baciano la tomba, si commuovono, pregano la salma del figlio dell’Ottavo Imam, un’irriverenza turistica così evidente diventa totalmente sconveniente, e ti affretti a tenderle una mano, per districare quel miscuglio di tessuti, sottili e quasi trasparenti, impalpabili...così delicati che... non ti sei accorta che tu, il chador, non l’hai indossato proprio!
Nello stesso istante ti senti sprofondare il terreno sotto i piedi.... quei mille specchi immediatamente rilanciano in tutto l’ambiente le parole spezzate del quasi sacrilegio, l’offesa più grande in un luogo analogamente sacro, profanato dalla tua nuda e trasgressiva civiltà occidentale.
La tua disperazione viene placata da un solidale e scuro braccio teso: è la guardiana del Mausoleo che, con un sorriso comprensivo, fa lievitare il tuo corpo a livello del pavimento porgendoti quell’ àncora  di salvezza che ha le sembianze di un mantello.

Il primo impatto con quel mondo coperto - dopo tante raccomandazioni, attenzioni, preparazioni, - ti ha lasciato delusa, amareggiata nel suo primo contatto con la popolazione e con quanto di più sacro convive nella loro realtà religiosa, sociale, culturale, tradizionale.

Ma sei pronta il dì successivo a riscattare questa distratta insensibilità: nel giorno del tuo ennesimo compleanno sfoggi gli abiti del compromesso familiare : <<Te lo compro, ma non ci vai! Ok, se proprio ci vai ti presto il mio velo nero>>, le parole materne.

Ed eccomi avvolta e infagottata nella città più teologa e islamista dell’ovest iraniano, vestita di nero per essere come loro, per aiutare a perdermi in questo luogo “velatamente ostile”, per cercare di capire le parole apertamente incomprensibili e fastidiose del mullah sulle donne, la famiglia, la libertà, la negazione dell’olocausto, l’odio verso Israele.

Il velo che copre le sembianze, telo svolazzante che rende tutte uguali, quel non gesticolare per poter tenere chiusa la propria femminilità, quel portare la mano sulla bocca a tacere della propria indipendenza.

Donne che si sistemano continuamente il tessuto avvolgente, chiudono ripetutamente al mondo le loro fattezze, in un gesto che non vuole essere definitivo perché solo così si garantiscono la possibilità di indipendenza dalle loro casalinghe mura imprigionanti.
Il loro lasciapassare per vivere nel mondo è chiudersi strettamente nel telo, decidere che nella strada e nell’incontro con chi è gemella a loro è riposto il segreto della libertà  cosciente, al contrario delle donne yemenite che non escono affatto dalla loro torre d’avorio, o delle donne afgane che affidano la loro autodeterminazione e libertà al tessuto integrale,
perché “..il burqa che i taliban ci hanno imposto come strumento di negazione e umiliazione, è il nostro passaporto. Sotto il burqa siamo tutte uguali, alla frontiera .....non riescono ad identificarci...Ci vogliono come i fantasmi? I fantasmi oltrepassano i muri. Figuriamoci le frontiere.” (Zoia, militante della RAWA, Revolutionary Association of Women of Afghanistan).

Portare con eleganza il drappo scuro è un’arte: solo i manichini senza testa ci riescono, perché, anche se nella loro ordinarietà e piattezza, non si può nascondere la sensualità dell’essere donna, la tentazione della soggettività femminile, la procacità e la bellezza sensuale, l’armoniosità delle forme che geneticamente si sprigionano dall’altra metà del cielo.


Abyaneh - copyright  di onchiles

Non si rassegnano al nero le donne di Abyaneh, la loro è una rivolta colorata, vociferante, con il loro cicaleccìo in un mondo silenzioso, dove ogni parola è misurata, soffusa, sussurrata. Sono consapevoli che sono diverse, che hanno conquistato la loro diversità tra l’uguaglianza degli indumenti, che possono sfruttare la loro fiorita differenza esteriore con chi poco comprende che siamo tutte uguali, nelle azioni, nelle aspettative, nelle speranze, nelle ambizioni, nell’essere. Sorridono compiaciute e complici che non le fai la foto, ma silenziosamente la scatti alle loro spalle, semplicemente perché è una bella foto.

Sei combattuta tra quello che hai letto e quello che stai vivendo: in questa realtà di rassegnazione al terrore e negazione scopri la scelta di coloro le quali rimangono a vivere tradizioni e cultura accettando tacitamente ed inconsapevolmente il susseguirsi del silenzio e del tempo, lasciando ad altre paladine la conquista delle loro libertà con un doveroso urlo fuori confine, verso quel mondo di privazioni: quella più grande è non poter vivere liberamente nel proprio Paese, proprio lì dove la nascita della tradizione e cultura diventa legittima e si trasforma secondo l’essere, dove loro sono state strappate al cuore, agli affetti e alla speranza che in un futuro si possa tornare a far cantare il cielo della loro dignitosa soggettività.

Conoscere questo popolo a metà è sconvolgente, ti lascia sempre il dubbio su quale sia l’interpretazione giusta per affrontare un dialogo, uno scambio, una certezza, un gesto.

Vivi il rimorso di non aver stretto una mano maschile che hai abitualmente offerta, osservi con stupore donne che si recano dal parrucchiere, contraddizione palese di una civiltà nascosta sotto il velo e manifesta solo nelle mura familiari.

Ancora i nostri occhi si allargano alla incredibile vista di una sposa velata, e perché, poi?, visto che nel nostro occidente le spose sono molto più che velate!

E’ un circolo vizioso, ciò che la mente reputa inconcepibile per il nostro occidentale modo di essere, viceversa è naturalmente assurda l’incredulità per questa parte di pianeta; se per noi è una contraddizione, per loro è un costume di vita.

E allora proseguo con velature sicure, quelle che rendono il paesaggio soprannaturale, in una mattina dove il sole brilla sulla strada, fluorescente, scintillante, riflettente, abbagliante, totalmente abbacinante verso lo scuro mausoleo di Khomeini a Teheran; foschia che si posa sul nostro sonnecchiare alla luce del primo mattino, mentre il sale si confonde con la terra, si trasforma e si colora di bianco e diventa neve ai nostri occhi, creando quella confusione di visioni che bene si inserisce in questa realtà disordinata.


E sono ancora veli finissimi quelli degli atomi visibili che coprono la terra verso la Storia, infinitesime particelle di verde uranio biancastro che, attivate, sconvolgono il mondo più di ogni nostro pensiero o convinzione.

Ci pensa la luna di Kashan, grassa ma nebulosa, a non delimitare i contorni di questa trasparente violenza, circondata da un alone di gioia per la mia maturità, e tale che la sua pienezza di luce mi illumina sui tremolii della notte, scambiati per continui sussulti della terra, in realtà verificatisi il giorno successivo comunissimi rimbalzi di un frigorifero singhiozzante troppo attaccato al mio ‘peloso’ letto.

Metagramma: peli... veli....teli

Paradossalmente, il nero del velo ricoprente si trasforma, per sua ulteriore accezione, in un telo appeso al portone del defunto ad identificarsi in un festone funerario: circondare le mura di dolore per rendere evidente e partecipe con gli altri la scomparsa e la conseguente sofferenza, gridata all’esterno anche dallo sventolìo di nere bandiere.

Ancora teli separano il mondo femminile, all’entrata di zone riservate alla rivelazione della propria intimità: copiose coperte separano il nostro universo femminile da quello maschile, per garantire la riservatezza di un velo calato, di una vanità fugace, e fortunosamente liberandoti dall’angoscia di scoprire, solo contemplando una scrittura indecifrabile, quale sia effettivamente la porta giusta!

Lo stesso telo però ricompone l’unione familiare e ti invita a partecipare la calorosa ospitalità: ovunque ci sia la possibilità e un prato dove stendere un tessuto sul colore della speranza, gruppi familiari condividono l’allegria e la gustosità di un desinare, non esitando ad offrirti parte del loro nutrimento solo per spartire il loro momento di gioia. E noi si accetta con tutto il cuore quella cordiale accoglienza, che unisce linguaggi e popoli diversi sotto un unico idioma.

Il nero, il bianco, il verde. Tre colori di questo popolo, colori che contraddistinguono nell’essenza della coscienza civile e politica iraniana quella intrinsecamente religiosa: i rappresentanti e le figure portanti della società iraniana si evidenziano oltre che nel pensiero, anche nell’indumento regale.
Il turbante nero individua l’appartenenza alla comunità sciita di quei religiosi discendenti di Maometto, teologi e studiosi, padroni del sapere e della scienza teologica e interpretativa, oltre che spirituale;
teli bianchi fasciano il capo dei soli sacerdoti, coloro che solo professando la fede abbracciano la conoscenza religiosa;
capi verdi caratterizzano credenti che discendono solo dal Profeta, o che nella loro vita hanno intrapreso il pellegrinaggio alla Mecca.


Teli o veli, stoffe e tessuti che tinti di colori caratterizzano un Paese, lo rendono vivo, lo affermano, lo distinguono, esprimono la circostanza dell’essere e di quello che non è.


Indossarli o meno identifica l’appartenenza delle donne alla loro condizione ed al loro rapportarsi nella società: il corpo esibito e privo di veli condanna la donna all’esterno della società iraniana.
Il corpo nascosto dal velo come simbolo di anti-occidentalizzazione risolve la condizione secondo il credo e lo status religioso scelto, tessuto che diventa anonimo per la donna che non vuole essere visibile perchè credente e rispettosa delle tradizioni.
Si connota strumento di visibilità laddove l’essere femmina costringe a nascondere l’esteriore ma la rende indipendente nella sua dipendenza dal tessuto, poichè questo può essere personalizzato da ciascuna secondo il proprio gusto e le proprie battaglie, permettendo così l’affermazione della specifica soggettività anche dove questa non può essere totalmente manifesta.