“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Viaggiando

Il quarto ramo - solcando il cielo tra le nuvole
Racconti di viaggio




come
Viaggiare: andare in paesi lontani;

Volare: attraversare l’atmosfera;

Vagabondare: In una pagina aperta a caso da “il Viaggiatore” di Gary Jennings : noi che vagabondiamo ovunque nel mondo, sostiamo per breve tempo nell’una o nell’altra comunità, e ogni volta si tratta soltanto di un lampo di vaghe impressioni in una serie di altrettanto obliabili lampi. Le persone non sono altro che fioche figure le quali emergono soltanto momentaneamente tra i nuvoloni di polvere delle piste.

Noi viaggiatori abbiamo di solito una meta e uno scopo che ci induce a raggiungerla, e ogni sosta lungo il cammino non è altro che una nuova pietra miliare del viaggio. Ma in realtà, le persone che risiedono in quei luoghi vi si trovano prima del nostro arrivo e continueranno a restarvi dopo la nostra partenza; hanno una loro vita, fatta di speranze e crucci, ambizioni e progetti che, essendo di grande momento per loro, meriterebbe a volte di essere notata anche da noi, sebbene siamo di passaggio.
Potremmo imparare qualcosa che vale la pena sapere, o goderci una risata divertita, o conservare un dolce ricordo che vale la pena di tesoreggiare, o talora migliorare addirittura noi stessi, prendendo in considerazione queste cose.

Voglia: Si chiama mal d’Africa la voglia di tornare in questi posti, di vivere a contatto con queste popolazioni.
Ho già provato questa sensazione dieci anni fa, quando sono stata in Senegal e non è mai andata via, ed è la stessa voglia che mi ha fatto tornare per tre Natali di seguito nei deserti del Sahara, in Mali, e ancora in Etiopia.




-Luglio –Agosto 1994 Giro dei Parchi CANADA E ALASKA
 

- Dicembre-Gennaio 2006-2007 : RAJASTAN


                 Raccontare con la musica :  Pire e spade
                                                Qualcuno canta a Chittor
            Tutto in uno sguardo :             Movimenti
                                                                        Mani 

- Settembre 2009 GEORGIA-ARMENIA-TURCHIA ORIENTALE



BUON VIAGGIO!   


VAGABONDARE


"Vacanza è una parola che rimanda a un’assenza e a un vuoto: per il momento ci allontaniamo dal senso comune delle cose, lasciamo la giacca sulla sedia, abbandoniamo la nostra usurata identità fatta di mille controlli e mille verifiche nella sua casella e usciamo a prendere una boccata d’aria.
Fuori c’è il mondo, il nulla, il caso. A chi vuole programmare la nostra momentanea diserzione, a chi offre depliant e tragitti, diciamo : no, grazie, faccio da solo, mi perdo e mi ritrovo da solo……..
…. Andare in vacanza significa rendersi per un poco vacanti, assenti all’appello e al contrappello. I doveri ci assediano, e le responsabilità ci inchiodano, ma ogni tanto sentiamo la necessità di strappare quei chiodi e di vagare nei campi aperti delle possibilità.
E allora può accadere tutto o quasi niente: può accadere che la città si disponga come un teatro per un incontro imprevisto, che questa bella cartolina sveli un luogo sconosciuto, una panchina, un bar, un punto anonimo e vuoto che noi occuperemo con la nostra improvvisata libertà….. Ci ricorda che la vita non si divide in pesanti stagioni di lavoro e di rapide settimane di vacanza, ma che ogni giorno contiene tutto, il senso e il nonsenso, l’ordine e il disordine, che stanno abbracciati come fratelli siamesi.
Forse quando ci assentiamo, in realtà ci stiamo presentando……..

….Buona vacanza a chi vuole viaggiare verso se stesso…….. "
(Marco Lodoli – suppl. a LaRepubblica)


Scrive Chatwin: ….forse dovremmo invece concedere alla natura umana una istintiva voglia di spostarsi, un impulso al movimento nel senso più ampio. L’atto stesso del viaggiare contribuisce a creare una sensazione di benessere fisico e mentale, mentre la monotonia della stasi prolungata o del lavoro fisso tesse nel cervello delle trame che generano prostrazione e un senso di inadeguatezza personale. In molti casi quella che gli etologi hanno designato come <<aggressività>> è semplicemente una risposta stizzosa alle frustrazioni derivanti dall’essere confinati in un certo ambiente…La tenacia con la quale i nomadi si tengono aggrappati al loro modo di vivere, così come la loro prontezza d’ingegno, riflette la soddisfazione derivante dal continuo movimento. Noi sedentari ci liberiamo dalle frustrazioni camminando. ... La vera casa dell’Uomo non è una casa, ma la Strada, e la vita stessa è un viaggio da fare a piedi”.

nota 16, 22 Aprile 1965 tratto da Le belle bandiere di P.P. Pasolini :
brano in 'Viaggio in Marocco' : "Naturalmente, quando si va a visitare un paese nuovo, si hanno già dei progetti, che piano piano cadono, e vengono sostituiti da altri, quelli reali. Perciò scoprire è sempre molto faticoso, in qualche modo disgustoso.
............Naturalmente io parlo di quello che appare all'occhio di un visitatore che fa un viaggio di piacere e di vacanza. Io non ho esercitato nessun sondaggio, non ho fatto nessuna inchiesta, non ho impostato nessuna ricerca, non ho tentato nessun interrogatorio. Mi sono lasciato trascinare dai fatti e dalle cose: soprattutto quelle che cadevano sotto gli occhi. Ebbene, in questo complesso (e bellissimo) quadro  di realtà visuale, non ho riconosciuto, ripeto, nulla di quello che ero andato a conoscere."


Viaggiare e fotografare?
di Marco Aime



Oggi generalmente si va in un posto per vedere cose di cui si conosce già l'esistenza tramite libri, televisione o altri mezzi d'informazione, che spesso forniscono immagini volutamente forzate o parziali.
Lo sguardo del turista è costruito sulla base di segni in parte precostituiti. Spesso il turista si interessa di una cosa in riferimento a se stesso e in particolare al suo immaginario. Se vede due persone che si baciano a Parigi è portato a pensare alla "Parigi romantica e senza tempo", così come si va in cerca del tipico comportamento italiano, del vero pub inglese o dell'autentico mercato africano.
La natura delle percezioni dei turisti è spesso collettiva e dipende da diverse proposte messe in atto da professionisti della comunicazione come fotografi, scrittori di viaggio e tour operator. Inoltre, a differenza del viaggiatore romantico, che cercava la solitudine per godere l'esperienza di un luogo nuovo, oggi la maggior parte dei turisti viaggia in gruppo. Lo sguardo collettivo, al contrario di quello solitario dei romantici, induce convivialità. L'esperienza vissuta in un luogo diventa pertanto un processo condiviso di consumo visuale. Un consumo che spesso si basa su elementi precodificati.
Infatti l'immagine visiva dei luoghi, che dà forma e significato alla preparazione, e all'esperienza del viaggio, risulta spesso evocata da altre immagini particolari viste in precedenza. Ma il turista, una volta partito, da consumatore diventa anch'egli produttore di immagini...segue in viaggiare e fotografare


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RAJASTAN:   Raccontare con la musica



Raccontare con la musica, incontrare melodie come s’incontrano in viaggio persone, le loro storie, quelle delle loro mani, degli zigomi, del loro cammino: non ci si ferma alle note o alle parole, si va sempre al di là.........  



In un volo sono sulla cima del castello di Jaisalmer, richiamato dal color oro dei bastioni orlati, opachi, di arenaria gialla mista a sabbia. Un suono dolce di sarahgi attira i passanti, le armoniose note si spargono nell’aria, il sussurro del cantastorie invita all’ascolto.


Mi siedo, non credendo ancora alla fortuna che ho avuto: spalanco gli occhi e cerco di capire la lingua di quel cantore. Ci sono! E’ un CHARAN, un nomade cantore della casta guerriera dei Bardi: coloro che, girovagando, narrano le gesta dei maharaja rajput - figli di re - e delle virtù delle donne maharani.

Rimango incollato alle crome, e ad una ad una quelle soavi parole entrano nel mio cuore, rapiscono la mia mente e lentamente mi trascinano in quel mondo avvolto di veli, di silenzi, di gesta eroiche, di castelli, di sacrifici, di storie romantiche e di disperazione, di guerre e fuochi, roghi e colori, odori, saggezze e bugie, tranelli, inganni e tradimenti, magnanimità e magnificenza.

Ascolto incantato ogni vocale musicale, ed ecco che le nere sillabe si depositano su uno spartito avvolto, che piano piano si srotola a comporre la storia più lunga del Rajasthan.
Adesso intorno a lui siamo più d’uno, tutti attenti a non calpestare quel fiume di parole musicate, liberate nei secoli dalla storia di armi e di devozione, di amore e di fierezza.

Lentamente, come una favola inizia il suo lungo racconto:



PIRE E SPADE
ovvero, il coraggio delle donne rajasthane attraverso storie di donne


“C’era..., prima dell’anno mille a.C.,


..un giovane principe ambizioso, che voleva carpire il segreto dell’immortalità al suo saggio maestro. Ma il suo comportamento fu tale da far arrabbiare così tanto l’uomo, il quale, pestando i piedi sul terreno, fece un buco da cui cominciò a sgorgare una sorgente.


Intorno a quella raccolta di acqua sorsero cittadelle e villaggi, e, molto tempo dopo, il Palazzo della principessa Padmini.


Alla città così sorta fu dato il nome di “Chittaurghar, o forte di Chittor”.

Questa città-fortezza visse per diversi secoli fiera di nobili gesta, coraggio, ammirazione, valore e ardimento, tenacia e resistenza, caparbietà e sacrificio, immolazione e codice d’onore, valori intrecciati a uomini valorosi come i Rajput e alle loro cavalleresche imprese.


Tre volte resistette all’invasione straniera, tre volte dette prova di  perseveranza ed eroismo: il sacrificio supremo collettivo, il Jauhar - in cui il riscatto della dignità maschile si univa al virtuosismo femminile, nell’estremo onore verso la morte collettiva per la salvezza dall’onta,  - allontanò da questo orgoglioso popolo la vergogna di una disonorevole e umiliante sconfitta.

“”Narrano i Veda:
Daksa, il primo sacerdote brahamano, era stato creato da Brahma per svolgere anche i sacrifici rituali, poichè senza di essi le divinità venivano considerate incapaci di aiutare gli uomini a far sorgere il sole del mattino. Maggiori erano i sacrifici, più forte diventava la casta dei sacerdoti, garantendo la custodia della parola sacra, che doveva essere trasmessa all’umanità come “rivelazione” dalle sacre scritture dei Veda. Tutte le offerte sacrificali venivano donate agli déi attraverso l’azione di fuochi sacrificali.
Daksa aveva una figlia, SATI,  che voleva andare in sposa a Shiva. Ma Shiva è un dio ambivalente , egli è infatti il Signore della vita e della morte, nemico di riti e regole. La sua natura distruttiva, intesa però non come dissoluzione ma come necessità di rigenerazione e di rinascita, viene rappresentata dalla cenere del fuoco sacrificale. Nel suo aspetto ascetico,  il suo corpo è seminudo ed è cosparso di cenere;  attorno alla vita indossa una cintura di teschi umani, con la quale chiede l’elemosina, e sul collo una collana di serpenti. Ma Sati lo sposò e andò a vivere con lui sul Monte Kailasa.
Un giorno, durante i riti sacrificali,  il padre Daksa officiò le offerte a tutti gli dèi,  escludendo però Shiva. Sati, per la vergogna, si lanciò sul fuoco, lasciandosi bruciare viva. L’ira di Shiva fu tale che, attraverso una sua orrida creazione, distrusse tutto ciò che in futuro si sarebbe contrapposto tra seguace e divinità.
Il sacrificio di Sati fu tragica usanza di immolazione delle vedove, volontaria o meno, il cui numero arrivò a corrispondere con l’ onore della fortezza: maggiori erano gli assedi e le jauhar, più grande era il rispetto per quel popolo guerriero.””

Compiere il sati a Chittor, l’incandescente ed infuocato atto di fedeltà al marito fu, per le donne nobili trascinanti, massima azione esemplare, seguita da migliaia di altre vittime innocenti: la baldanzia dei loro uomini rajput, agghindati per l’ultimo dignitoso sacrificio con vesti colorate color zafferano e ghirlande di fiori, ha finito per incantare e renderli ammirevoli agli occhi degli invasori, permettendo per tre volte una strenue riconquista del loro potere secolare.


Cadeva l’anno 1303, nel grande regno Mewar, sulle terre dei Sisodia, e la bella Padmini, sposa del principesco Ratan Singh, contemplava la bellezza del luogo circostante riflessa nelle acque del suo lago, ignara che la sua stessa delicatezza aveva già impressionato un ben altro specchio nemico, stregandolo.

Ala-ud-din, sultano di Delhi, da quel momento, decise di essere disposto a tutto, pur di conquistare siffatto splendore, e con caparbietà e tenacia spinse la già assediata Chittor al suo primo estremo sacrificio umano, avviato dalla stessa Padmini pur di non cedere al turco baratto.

Contemporaneamente, il triste e onorevole destino delle aristocratiche e principesche donne si espanse in tutti i territori del Rajasthan: ovunque veniva ospitata la casta guerriera il rito della jauhar esauriva con una  sacrificale vittoria l’atroce sconfitta. La rossa testimonianza delle mani, quegli arti immersi nella sostanza colorata – l’hennè – avrebbero lasciato ai posteri storie di coraggio e virtuosismo, gloria e fedeltà, macchiando di rosso la porta, unico accesso al trionfo nemico, ultima dimostrazione di una fiera salvezza.

Jaisalmer, la città d’oro, anch’essa vide per tre volte il fuoco delle pire levarsi nell’aere saturo di sabbia, e laddove non si potè con l’incandescenza, la Khandra – valorosa arma rajput – pose fine al disonore femminile per mano stessa del regnante, sebbene il coraggioso valore militare dei guerrieri  assediati rese vano il sacrificio delle reali dame, riconquistando la battaglia dopo tenace resistenza.

A rimbalzare sui territori l’eroiche gesta, anche nella città blu, l’azzurra Jodhpur, si consumò la nobile immolazione: il castello di Meherangarh, oltre a celar tesori e intrighi, segna l’illustre dinastia sulla sua settima porta: la Loha Gate, o Porta di Ferro, dove 36 mani femminili dichiarano l’olocausto di altrettante donne sacrificate per amore o condizione, quali mogli e concubine dei maharaja.





Ancora oggi, con l’abolizione del Sati dal 1829, a Jhunjhunu, al tempio di Rani Sati, si venera una donna che si immolò nella sati.



-          A questo punto, gente, che ascoltate questa mia nenia,  è ora che vi racconti chi, nel presente, e come me, viene girando il mondo a stanare le ingiustizie e le schiavitù, a lottare per narrar di altre donne: recluse, emarginate, punite.
E’ donna piccola, Mahasweta Devi, ma ottantanni di immenso coraggio. Decisa canta con il mio mestiere le sue parole, raccolte in molte lingue e in molti dialetti, escluse dalla storia, ma che sono la storia, e nella storia le rilancia con la sola abilità di stravolgere il prevedibile, di essere ‘intoccabile’ pur appartenendo all‘alta casta; instancabile a stanare, testimoniare, oralmente tramandare, ed infine comporre destini di soprusi, miserie, crudeltà, tirannie, sfruttamento, annientamento, dolore, assurdità legati al rigido assetto sociale; decisa a ribaltare la storia per restituire la dignità, quella vera, quella non scritta, ma solo vissuta e da lei raccontata in ogni angolo e in ogni dove.-




We cannot expect miracles  by Paolo Guglielmo Sulpasso





"Trilogia del seno" e "Invisibili"  by  Ribelle Web




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QUALCUNO CANTA A CHITTOR


Lasciando la digressione del presente e tornando indietro nel tempo, alfine più ampia tragedia era giunta alle porte, quelle dei tre Stati però, ed un nemico ben peggiore trafiggeva gli animi leali e generosi dei rajput: dal regno persiano e dai territori turco-afgani schioccavano incessanti le multiple frecce per conquistare le ormai già provate città  in conflitto.

Anche se in tutta l’India riecheggiavano le urla delle carneficine turco-afgane, gli orgogliosi guerrieri si riorganizzavano, riportando alla luce la gloriosa e cavalleresca classe per riconquistare il perduto regno. Furono loro, i Sisodia, gli unici guerrieri a resistere alla calata dei musulmani, che dapprima con i turchi e poi con i nativi in India successero con diverse dinastie al popolo hindo. I Rajput governarono con dignità e signorìa per oltre due secoli, lasciando al nemico l’onere e l’onore della conquista solo nel 1534, quando il Tigre Baber oscurò il Sole di Chittor per la seconda volta; ad evitare la duplice sconfitta, uomini e donne furono chiamati di nuovo ad infuocare cieli e territori, e i loro stessi corpi: dopo l’ennesimo jauhar, rinascita ci fu, e solerte; ma nulla potettero contro colui che ben presto diventò il più potente imperatore Mogul, Akbar Khan il Grande, il quale fece immolare per la terza ed ultima volta, nel 1567, regali principesse e fieri rana.

Ma la lealtà e la generosità, unite al rispetto per il nemico e ad altre galanti gesta dei cavalieri rajput regalarono all’astuzia e all’ingegno di Akbar l’intuizione di magnanimità e alleanza con questo fiero popolo, piuttosto che sottomissione, strategia vincente che lo fece diventare in breve un capo di tutte le sue genti, e non solo di un’unica classe.

Che io debba parlar bene di questo grand’ uomo, lo farò prontamente, per le elevate opere e imprese che innalzarono il mio popolo allo splendore in quegli anni e molti dopo ancora.

Ma prima vi voglio riportare un poco nel presente, a divagare del “l’arte di camminare” di un mio contemporaneo, tal Alvaro Cunqueiro cantore spagnolo, che ha trascinato me a rimestar  tra i miei simili, pellegrini sì, ma di sol  mestiere diverso. Costoro, in seguito all’ultima sconfitta di Chittor, diventarono nomadi e fabbri ambulanti, loro i LOHAR, la casta di armaioli di Chittorgarh.

La loro storia or la musico così, come colui che l’ha scritta, e che io posso sol trasferire a voi con le mie note:

 
‘QUALCUNO CANTA A CHITTOR’

<<C'era in India una città circondata da mura. Di lei si diceva che coronava la collina su cui era costruita come un elmo rosso cinge la testa di un guerriero. La collina era stata cosparsa di sale e cenere perché non vi crescesse nemmeno un filo d'erba. Ma ai suoi piedi scorreva un fiume dalle acque azzurre, un fiume che scendeva cantando dalle montagne più alte del mondo e sulla sua sponda sì che c'erano alberi e alte erbe, pascoli per i bufali e risaie. La collina si chiamava Chittor, la città della muraglia Chittorgarh e il fiume Gambhiri.
A Chittorgarh vivevano gli irascibili guerrieri luhar, avvolti in grandi mantelli azzurri, armati di lunghe lance, agili nella selva come la tigre o il serpente. Chi attraversava il fiume Gambhiri doveva pagare, con la borsa o la vita, o con entrambe, un pedaggio ai luhar. Ogni luhargi era un re e ogni guerriero, in sella al suo piccolo cavallo afgano, era una parte del vento che soffiava sull'immensa pianura...
Ma a Delhi stava seduto su un trono simile alla coda di un pavone un imperatore mogol, Akhbar Khan, sovrano crudele e pacifico allo stesso tempo, per il quale mille architetti avevano eretto palazzi affinché il gran monarca delle trombe d'oro potesse studiare la profonda scienza degli echi.
Tutti i giorni gli arrivavano notizie delle cruente scorrerie dei luhar, e un giorno i luhar rubarono dodici coppe di giada verde piene di tè d'autunno che l'Imperatore della Cina aveva mandato a suo cugino il Gran Mogol dell'antica Delhi.
Akhbar Khan si fece arricciare i capelli; su questo punto mi attengo a Tavernier, e con Tavernier viaggiava uno del mio paese, Seijas Lobera, turcimanno del levante, ammiraglio nel mare australe magellaneo, corsaro del re cattolico, corrispondente di Newton e di Gipsy, quello della palingenesi, e membro della Reale Accademia delle Scienze di Parigi. Tavernier spiega cosa facevano i Khan di Delhi quando partivano per la guerra: innanzitutto s'arricciavano i capelli. Subito dopo gli portavano davanti un giovane elefante e di fronte a quel simbolo di lunga vita e di infallibile memoria, il Khan giurava di compiere queste e quelle imprese. Dopo l'arricciatura dei capelli e il giuramento, il re mogol faceva un bagno in tre oli diversi: di noce, di palma e di cocco, poi si profumava e passava tre settimane a consultare oracoli e ascoltare astrologi e, durante quei giorni mantici, toccava solo oggetti di ferro. Se le stelle e i presagi erano propizi, il Gran Mogol, con sette tuniche dalmatiche, partiva per la guerra.
Così Akhbar Khan arrivò davanti alla collina chiamata Chittor e la assediò per un anno sotto il sole, sotto le grandi piogge e un'altra volta sotto il sole e quando il Gambhiri dalle acque azzurre rimase in secca i luhar si consegnarono alla clemenza del Gran Mogol.
Il Gran Mogol, contrariamente a quanto si pensava, non ordinò di sgozzare i luhar. Fece sedere i guerrieri sconfitti sulla collina deserta e impose loro cinque divieti che i guerrieri accettarono pronunciando una sacra e solenne promessa secondo il rituale che creava, conservava e differenziava le caste e le sottocaste in India.
(Molte caste nascono per esclusione, iscrizione a un mestiere, a un'arte o a un lavoro e, generalmente, la casta così nata promette, nel caso di ascrizione per punizione, di attenersi alle proibizioni, le quali diventano quindi "volontarie", a guisa di voti religiosi; in tal modo, secondo Kane, si otteneva "che una casta si autocontrollasse per evitare il sacrilegio e lo spergiuro, peccato destinato a ricadere su tutta la casta, che sarebbe stata punita nella sua totalità per una sola violazione individuale").
I luhar, davanti al Khan, accettarono di non allontanarsi dalle strade, di non salire mai più a Chittorgarh, di non attraversare il fiume Gambhiri, di non costruire case durature, di non attingere acqua ai pozzi e di non cantare
Ruppero sulle ginocchia le lance di bambù i luhar sconfitti, sotterrarono i morti e si incamminarono sotto una luna enorme e gialla...

Sono passati quattrocento anni da quel giorno.

Adesso, in virtù della legislazione del Congresso indiano sulle caste, il Pandit Nehru è andato a Chittor e ha ricevuto sulla porta di Chittorgarh i tremila guerrieri discendenti degli antichi Godulia Luhar che ancora percorrevano le strade senza allontanarsene;  ha annullato i divieti di Akhbar Khan e i luhar hanno ritirato le sacre promesse e sono entrati nella fortezza con le loro lance nuove, hanno attraversato il fiume in barca e coi carri, hanno bevuto l'acqua dei pozzi, hanno messo il primo mattone di una casa a Chittor e uno di loro ha cantato una canzone, una canzone d'amore e di guerra, la stessa che quattrocento anni prima cantava ogni luhargi che partiva in cerca di battaglia e di bottino...

Tra tutte le proibizioni e promesse, credo che la più dura da mantenere sia stata quella di non cantare. Provare amore e non cantare. Sentire gli uccelli che cantano e non cantare. Sentire la gente che canta per strada e non unirsi al canto. Tenere in braccio un bambino appena nato e non potergli cantare, madre, una ninna nanna. Che labbra buie con quattrocento anni senza canzoni! Se ho raccontato la storia dei luhar, di cui si parla in questi giorni sui giornali, è solo per questa ragione: perché dopo quattrocento anni di sete, di sete di canzoni che forse è ancora peggio della sete d'acqua, qualcuno canta a Chittor... Non c'è mai stato un re più crudele di Akhbar Khan, il Gran Mogol di Delhi.>> (..di Alvaro Cunqueiro) - Tutti i diritti riservati agli eredi)


A voi che mi ascoltate, se alla fine il mio racconto è stato questo, sappiate che io canto fantasie, le saghe eroiche e le bellezze di un fiero popolo e della sua arte, compresa di bugie e dolci inganni.

Può esser che realtà non sia pur vera, di questo me ne scuso ma così è giunta alle mie orecchie e alla mia gola, nel divertirvi io mi riscatto, e ad incantare un pubblico  ‘sì attento, è facile oltremodo,..... ed io l’ho fatto!

E se a seguirmi ancor continuerete, non due, ma mille storie come questa ascolterete..................
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RAJASTAN:   Tutto in uno sguardo


MOVIMENTI




Delhi: 17 milioni di abitanti, 17 milioni di teste pensanti.

Delhi: 10 milioni di risciò, tuc-tuc, biciclette, macchine, camionette, motorette, motorini, carrelli spinti a mano, carri, pulmini, camion, furgoni.

Delhi: 7 milioni di gente a piedi.
Incidenti: nessuno. Anche i neonati sono parte del caos cittadino.

E’ un unico frastuono quello che si sente attraversando la città: un lungo e assordante strombettare di clacson, in un ordinato e convergente disordine meccanico.


Tuc-tuc da tre, sei posti in su straripano di carne umana fino all’inverosimile, tre persone davanti con il guidatore che molto spesso ha una gamba fuori della vettura.

I mezzi si sfiorano fino alla larghezza di un capello, si evitano con maestria e perizia, corrono all’impazzata verso mète che sanno solo loro, lungo percorsi che si presume siano i più convenienti.



Macchine strombazzanti chiedono la strada; camion caracollanti stracarichi di tutto, lenti come lumache, hanno a loro vantaggio un’unica scritta colorata sul retro “ BURN UP, PLEASE”, ed altro non possono fare.
E la popolazione non se la fa scappare questa occasione d’oro: ogni guidatore di qualsiasi mezzo ha un clacson, ciascuno di loro vuole incidere nella vita, dimostrando la propria presenza con un effervescente suono, e ci riesce. Qui le caste non contano, chiunque può andare, chiunque può suonare per confermare di essere.

Dall’alto del nostro pulmino, osserviamo sbalorditi quella ridda di baccano e colori, movimenti e partenze, salite e discese, corse ed affanni: i guidatori di motorette tutti con il casco in testa, il loro seguito è una donna che stringe un piccolo, di traverso, senza difese. Con la testa, ma senza casco.

Impotente guardi quel marasma di ferro, carne, colori, pazzia, frenesia, assurdità.
Tutti confluenti in un unico budello asfaltato.
Tutti impazziti in una sola direzione.
Gigantesco fluido umano in movimento.

La risata parte dal cuore: siamo fermi al semaforo, e scintillando di chiaro, la scritta RELAX dentro il disco rosso invade tutta la sfera di fermata, e finalmente ti tranquillizzi anche tu.
Infatti fino a quel momento avevi lo stomaco tirato, gli occhi piccoli e stretti, come a voler diminuire al minimo il percorso della loro chiusura, la mano sempre tesa per allontanare il vicino del vicino, nel timore che in quella girandola meccanica qualcuno ci rimetta la vita. Un europeo a Delhi è fortemente a rischio infarto!


Ma appena fuori città, si spalanca il mondo della strada: pellegrini a piedi, fabbriche di mattoni a cielo aperto, con le loro elevate torri incandescenti di calore, terra magistralmente tagliata, case dello stesso fango tirate su come ricoveri per i lavoranti, pile ordinate di mattonelle argillose a tappeto attendono di essere distribuite in tutto il paese da rilassati dromedari trascinanti carretti su gomma, colmi di qualsivoglia materiale edile: blocchetti, sabbia, sacchi.


Laddove non regna l’agricoltura, il fango prende piede e conquista il territorio.

  
Durante il nostro andare sono molte le costruzioni in via di realizzazione, e nessun componente della famiglia trova scampo alla sua crescita: donne sui tetti partecipano, mattone dopo mattone, alla chiusura della loro vita, dentro il villaggio, dentro le case, nelle campagne. 

Ed insieme al limo, lo sterco.
In tutte le cittadelle, nei paesi, in città, il rifiuto di vacca è sacro come l’animale: si secca, si accumula, si cura. E l’ultima tua foto è l’emblema di questo paese che sta crescendo: due colonne di blocchetti di fango, impalcate da pali di bambù sostengono in aria tutto il calore dell’inviolabile letame, a costituire la porta del paese, ad invitarti ad entrare nel loro mondo, tu che ne stai per uscire.


Siamo fermi ai binari della stazione, una bandiera rossa di traverso sventola, a ricordarti, come quando eri bambina, che il treno sta arrivando: l’emozione di noi grandi è la stessa, identica l’attesa, medesima la gara a chi per primo lo vede spuntare, a scrutare l’orizzonte per assicurarci che il vapore di quella locomotiva è lo stesso fumo che attraversa la savana, altro viaggio, altre genti, stesse pellegrine speranze.


Conversano piano ed incuriositi i casellanti, ma entusiastici sono gli urli dei viaggiatori al passaggio, uniti ai nostri gioiosi saluti.




D’intorno, gli alberi di acacia, svettanti nel paesaggio desertico, protendono le loro braccia monche al cielo - neanche loro sono esenti da quell’aura religiosa che permea la quotidiana vita di questo popolo -, tagliate fino a dove la loro massima espressione glielo consente, per scaldare e rendere produttiva ogni più piccola particella di esse; gli stessi arti che tramandano di generazione in generazione, con gesti aggraziati, poemi e drammi, epopee e saghe, princìpi e favole, religione e filosofia. Le stesse membra, che con la loro fibra, garantiscono vita ad ogni genere animale.

E come il clacson è l’emblema della città, grovigli di fili elettrici corrono lungo tutto il paese ad illuminare il resto del pianeta indiano:




la tenue luce che rende Jaisalmer cittadella da favola delle Mille e una notte;



quella vivida che scintilla sullo sfarzo d’oro dei tesori nei castelli;


quella eterea, che comunica all’Universo che esiste questo mondo.
Pali e fili prepotentemente abbracciano e inglobano lo spazio costituendo la brillantezza di tutte le tue foto.




Ma fili di rame, mattoni, internet e STD// ISD sfumano nelle campagne coltivate, dove una coppia di buoi, esortata dal suo padrone, gira in circolo a smuovere catene di maglie e bielle di un mulino ad acqua, dal sapore antico, dalla realtà sconvolgente: una ruota dai secchielli equidistanti tira su l’acqua per i campi gradonati.
Acqua circondata e protetta da pietre come un tesoro, trasparente liquido che pesa sul capo delle donne, che assicura il soffio vitale quando è custodita in quelle anfore fuori ogni porta, ad indicare calore familiare, candore, sudore, vagabondaggio.





Espressione di sussistenza, pulizia, guarigione.


Alternarsi di fame e ricchezza, di staticità e nomadismo: dall’acqua nasce una pianta, che sfama l’uomo e l’animale, e blocca l’avanzata del deserto; ferma è libera di accumularsi nelle lacune e negli stagni, dove intorno pullula la vita contadina, ma dai suoi abitanti viene intrappolata nei canali che diminuiscono le falde.
La sua carenza è inizio di incessante pellegrinare in giro per le campagne di pastori e contadini, vaganti, alla continua ricerca di questa sostanza essenziale, i quali abbandonano i villaggi e lasciano le donne ad accudire il prezioso bene, poichè dall’acqua nacque la terra, e dalla terra, il mondo e Brahma, e da lui tutti gli Dei’, nell’eterna altalena di morte e rinascita,  siccità e fertilità, lordura e nettezza, di fine e di inizio, stanzialità e peregrinazione.




Sulla strada che si snoda dai templi di Ranakpur a Kumbalghar Fort, inalterabile passaggio dall’ascetico alla storia, scorre la vita allagata dei campi: muretti a secco limitano confini inesistenti, seguono in un unico sottile filo il contorno del paesaggio, la montagna, il torrente.

Nel suo immobilismo, quel mondo campestre va incontro alla vita, facendo girare le pale di mulini con le uniche ricchezze disponibili: la sacralità dell’animale e la fluidità del tesoro da far emergere, patrimonio superficiale, fortuna sommersa: “come i secchi girano intorno alla ruota idraulica, così l’uomo sempre rinasce nel grembo materno”.




Paglie rossastre assorbono i raggi del sole nel cuore degli alberi, in attesa che si compia la loro maturità, per costruire, al termine del loro ineluttabile ciclo, l’apice di un  rifugio sicuro di quelle comunità rurali: le secche pagliuzze assieme alle screpolature di fangose pareti rendono antiche le umili case.

Ma solida è la convinzione che permea le strade polverose, anche dei villaggi più sperduti: se in questa, la vita prende,  nella successiva darà.

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RAJASTAN:   Tutto in uno sguardo

MANI




Indice e medio sporgono uniti dal finestrino: un impalpabile cenno di avanzare comanda la strada: sconosciuto l’autore, nota l’usanza. Sulla via che da Jaipur si snoda verso Pushkar arrancano con lentezza immensi e pesanti camion, carichi all’inverosimile di marmi di tutti i colori: verdi, rosa, grigi, bianchi, venati, neri. Ti lasciano passare mentre trasportano la bellezza grezza della loro religiosità, della loro arte, della fervida fantasia. Immacolato materiale destinato al candore più puro, modellato da sapienti mani, guidate con gli occhi ormai resi ciechi da anni di polvere per incidere, trovare, far emergere particolari, minuziosità, schemi, genialità, colpi, leziosità. Racconti marmorei destinati alle intemperie, applicazioni filosofiche rese immacolate dai seguaci religiosi che lavano e purificano quel susseguirsi di scene, tratti, movimenti, espressioni, beltà fino a rendere i loro particolari sì brillanti quanto grossolani.
            

 
 



Lavorano le loro mani nell’intarsiare abilmente sculture e vita, concetti e realtà, sacro e profano; scalpellano con la delicatezza di una piuma il duro substrato marmoreo, fondamento dall’intrinseco significato di ‘lucente, brillante’ - in sanscrito ‘raggio di luce’ - che convive con la stessa radice a palesare frantumazione. Opere che sono create dalle mani dell’uomo,






bellezze eterne esaltate dal loro sudore, a rifulgere moti, gaiezza, armonia, schematicità, geometria; componimenti che lasciano riempire i vuoti ed eliminare gli spazi, che creano grandezze e superfici tutte su un piano alto mille piani. Luce, spazio, fantasia, staticità, brillantezza inseguono la divisione della terra, sviluppano l’interno di essa, in quella maestosità di raccoglimento ed incantevolezza che rapisce anche il più profano degli uomini.


Mani che scolpiscono l’arenaria, la plasmano, la incidono con il tocco di un pennello, con la forza dell’espressività, animate da una ludica estetica o da una consapevole gara: le haveli di Jaisalmer manifestano nei loro rilievi la gioia dell’arte e la fraterna competizione a costruire, sagomare, rifinire, arzigogolare quel materiale finemente friabile ma che, indelebile, dura nel   tempo.



Mani e bianco, marmo e candore, purezza e amore trasudano come gocce dalla onnipresenza del Taj Mahal, fuoriescono come le calde lacrime che versò il suo creatore alla morte della sua amata nei lunghi anni di costruzione del perenne ricordo, le identiche e vivide stille del sangue che sgorgò dalla mano recisa del suo capomastro, per impedire ripetizione di tanta maestosa bellezza, sorgente che alimenta con liquido vitale, sentimento e palpabilità la meraviglia eternamente destinata al mondo.


Mani callose che trascinano e smuovono pietre, terra, acqua, sudore, fatica, perseveranza, rassegnazione, per consolidare il senso della vita, per perpetuarla oltre la morte, per regalare a chi non c’è più la vitalità di una rievocazione perenne: arti che lasciano ai posteri la grandiosità dei loro muscoli e del loro intelletto, l’imponenza  e la magnificenza di quelle tangibili e storiche opere monumentali.



Così per se stesse e per la cavalleresca memoria di un intero popolo urlano le mani rosse sulle porte rajasthane dei castelli, delle fortezze, dei santuari, ad imprimere l’evidente fierezza e l’ardore delle donne Rajput, madri e mogli, concubine e figlie, fedeli e schiave, impavide e amanti, fino all’estremo sacrificio di donare la loro vita alla morte, di far vivere a ricordo perenne il loro mortale coraggio. Più alto è il numero del rosso sangue, maggiormente è elevata la gloria della fortezza.

Mani celate dietro le scene di un teatrino muovono i fili della storia guerriera, i loro protagonisti, i loro attori, la loro musica, diventando arte della nomade quotidianità e della loro incontenibile sapienza. Storie infinite di amori e passioni, tradimenti e virtù, guerre ed armistizi, stragi e riconquiste narrate in un poema infinito lungo una vita, quella dell’Uomo. Mani capaci di interpretare e smuovere la Storia, di narrarla allegramente a suon di musica: ogni colpo di tamburo un’impresa, ogni fragore sordo un amore o disperazione.


E non bastano mille fili di un rocchetto a far sventolare nell’aria migliaia di aquiloni: ciascuno di essi reca un motivo diverso, un disegno vivace, un messaggio nascosto, lanciato nella lotta e nella conquista da piccole mani esperte. Ogni aquilone trascina con sé l’essere bravo nelle mani agili di un bambino, a sopravvivere nell’ immenso azzurro più degli altri, a comandare il cielo. E come il danzatore nel mondo delle marionette si cela, anche il pilota di aquiloni è occulto, nascosto all’ombra dei terrazzi, attento a non cadere in altrettanta sconosciuta trappola. Vincitori saranno coloro che nel groviglio di fili riusciranno ad abbattere i concorrenti e a trovare il trofeo, abbandonato al vento durante la battaglia, per essere immortalato gioiosamente e festosamente nelle mani del suo piccolo conquistatore al suo ritrovamento.

Ed è ancora un filo interminabile quello narrato dalle agili mani di una donna che danzando porta il mondo a conoscenza di epopee e drammi, poesia ed opere: la lirica della Storia e della letteratura concentrata nel gesto, nella mimica, nel canto, nel sinuoso movimento della danza, laddove ogni impercettibile guizzo, sguardo, espressione, posizione degli arti, gestualità, sorriso, nota e salti traduce e rilancia l’ epica universale della Storia rajasthana.


Sono mani animali quelle che, nella città delle vedove, rapide sottraggono la vista a Giovanni. Come la gazza ladra spazza lo scintillìo, mani scimmiesche veloci rubano tutto ciò che per loro è curioso o addestrato: l’urlo di Rosetta si espande lungo il fiume, gareggiando con quello della bertuccia che ha appena calato sugli occhi il suo essere cieco animale. Le stesse pelose mani che tolgono violentemente il cibo ad un’anziana signora, sottolineando il selvaggio potere nel dominio della Tower of Victory: gloriosa costruzione antropica, totale egemonia bestiale.

                         

Mani oleose e leggere, energiche e sensibili strapazzano il tuo corpo, lo lucidano, lo plasmano, lo spremono, lo massaggiano, fino a che l’ultima cellula o lo stirato nervo non gridano sollievo, donando alle terminazioni sensoriali il meritato riposo. Vigoria e delicatezza che trasformano la tua rigidezza e stanchezza in energia e spossatezza, forza e abbandono, garantendo così la prosecuzione del tuo pellegrinare e la tua conoscenza.  



E sono divine e sagge le mani umane e animalesche che si protendono a sostenere simboli: da 4 a 14, le mani avvolgenti di Ganesh,  a rappresentare quanto di più sublime ha il nostro essere: la mente, l’intelletto, la coscienza e l’ego. E per un buon auspicio il metafisico animale è manifesto nelle sue effigi sulle porte dei novelli sposi, ed ancora le sue mani sono protagoniste nel trascrivere i sacri testi, trasformando così il dio in patrono della scrittura, linguaggio manuale per eccellenza.

Mani, quelle del bramano, che donano ai suoi fedeli,  e quelle dei proseliti che ugualmente ricevono da chi partecipa la cerimonia; mani che segnano tilak, elegantemente portati come portafortuna sul viso a rappresentare il terzo occhio; mani che toccano il pavimento, la fronte, il toro. Miele, riso, fiori, latte, pasta di sandalo, incenso, elementi e doni per compiere la puja, cerimonia di offerta e di adorazione, canti e letture per adorare gli dei.

Ed il cerchio si chiude laddove è iniziato, lungo la strada che porta all’ascesi: immortalità e purezza ricercate nel sacro e candido luogo, finemente scolpito, ardentemente partecipato fino al raggiungimento di serenità e ricchezza interiore.

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