“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Tutto in uno sguardo: Mani



Indice e medio sporgono uniti dal finestrino: un impalpabile cenno di avanzare comanda la strada: sconosciuto l’autore, nota l’usanza. Sulla via che da Jaipur si snoda verso Pushkar arrancano con lentezza immensi e pesanti camion, carichi all’inverosimile di marmi di tutti i colori: verdi, rosa, grigi, bianchi, venati, neri. Ti lasciano passare mentre trasportano la bellezza grezza della loro religiosità, della loro arte, della fervida fantasia. Immacolato materiale destinato al candore più puro, modellato da sapienti mani, guidate con gli occhi ormai resi ciechi da anni di polvere per incidere, trovare, far emergere particolari, minuziosità, schemi, genialità, colpi, leziosità. Racconti marmorei destinati alle intemperie, applicazioni filosofiche rese immacolate dai seguaci religiosi che lavano e purificano quel susseguirsi di scene, tratti, movimenti, espressioni, beltà fino a rendere i loro particolari sì brillanti quanto grossolani.
            

 
 



Lavorano le loro mani nell’intarsiare abilmente sculture e vita, concetti e realtà, sacro e profano; scalpellano con la delicatezza di una piuma il duro substrato marmoreo, fondamento dall’intrinseco significato di ‘lucente, brillante’ - in sanscrito ‘raggio di luce’ - che convive con la stessa radice a palesare frantumazione. Opere che sono create dalle mani dell’uomo,






bellezze eterne esaltate dal loro sudore, a rifulgere moti, gaiezza, armonia, schematicità, geometria; componimenti che lasciano riempire i vuoti ed eliminare gli spazi, che creano grandezze e superfici tutte su un piano alto mille piani. Luce, spazio, fantasia, staticità, brillantezza inseguono la divisione della terra, sviluppano l’interno di essa, in quella maestosità di raccoglimento ed incantevolezza che rapisce anche il più profano degli uomini.


Mani che scolpiscono l’arenaria, la plasmano, la incidono con il tocco di un pennello, con la forza dell’espressività, animate da una ludica estetica o da una consapevole gara: le haveli di Jaisalmer manifestano nei loro rilievi la gioia dell’arte e la fraterna competizione a costruire, sagomare, rifinire, arzigogolare quel materiale finemente friabile ma che, indelebile, dura nel   tempo.



Mani e bianco, marmo e candore, purezza e amore trasudano come gocce dalla onnipresenza del Taj Mahal, fuoriescono come le calde lacrime che versò il suo creatore alla morte della sua amata nei lunghi anni di costruzione del perenne ricordo, le identiche e vivide stille del sangue che sgorgò dalla mano recisa del suo capomastro, per impedire ripetizione di tanta maestosa bellezza, sorgente che alimenta con liquido vitale, sentimento e palpabilità la meraviglia eternamente destinata al mondo.


Mani callose che trascinano e smuovono pietre, terra, acqua, sudore, fatica, perseveranza, rassegnazione, per consolidare il senso della vita, per perpetuarla oltre la morte, per regalare a chi non c’è più la vitalità di una rievocazione perenne: arti che lasciano ai posteri la grandiosità dei loro muscoli e del loro intelletto, l’imponenza  e la magnificenza di quelle tangibili e storiche opere monumentali.



Così per se stesse e per la cavalleresca memoria di un intero popolo urlano le mani rosse sulle porte rajasthane dei castelli, delle fortezze, dei santuari, ad imprimere l’evidente fierezza e l’ardore delle donne Rajput, madri e mogli, concubine e figlie, fedeli e schiave, impavide e amanti, fino all’estremo sacrificio di donare la loro vita alla morte, di far vivere a ricordo perenne il loro mortale coraggio. Più alto è il numero del rosso sangue, maggiormente è elevata la gloria della fortezza.

Mani celate dietro le scene di un teatrino muovono i fili della storia guerriera, i loro protagonisti, i loro attori, la loro musica, diventando arte della nomade quotidianità e della loro incontenibile sapienza. Storie infinite di amori e passioni, tradimenti e virtù, guerre ed armistizi, stragi e riconquiste narrate in un poema infinito lungo una vita, quella dell’Uomo. Mani capaci di interpretare e smuovere la Storia, di narrarla allegramente a suon di musica: ogni colpo di tamburo un’impresa, ogni fragore sordo un amore o disperazione.


E non bastano mille fili di un rocchetto a far sventolare nell’aria migliaia di aquiloni: ciascuno di essi reca un motivo diverso, un disegno vivace, un messaggio nascosto, lanciato nella lotta e nella conquista da piccole mani esperte. Ogni aquilone trascina con sé l’essere bravo nelle mani agili di un bambino, a sopravvivere nell’ immenso azzurro più degli altri, a comandare il cielo. E come il danzatore nel mondo delle marionette si cela, anche il pilota di aquiloni è occulto, nascosto all’ombra dei terrazzi, attento a non cadere in altrettanta sconosciuta trappola. Vincitori saranno coloro che nel groviglio di fili riusciranno ad abbattere i concorrenti e a trovare il trofeo, abbandonato al vento durante la battaglia, per essere immortalato gioiosamente e festosamente nelle mani del suo piccolo conquistatore al suo ritrovamento.

Ed è ancora un filo interminabile quello narrato dalle agili mani di una donna che danzando porta il mondo a conoscenza di epopee e drammi, poesia ed opere: la lirica della Storia e della letteratura concentrata nel gesto, nella mimica, nel canto, nel sinuoso movimento della danza, laddove ogni impercettibile guizzo, sguardo, espressione, posizione degli arti, gestualità, sorriso, nota e salti traduce e rilancia l’ epica universale della Storia rajasthana.


Sono mani animali quelle che, nella città delle vedove, rapide sottraggono la vista a Giovanni. Come la gazza ladra spazza lo scintillìo, mani scimmiesche veloci rubano tutto ciò che per loro è curioso o addestrato: l’urlo di Rosetta si espande lungo il fiume, gareggiando con quello della bertuccia che ha appena calato sugli occhi il suo essere cieco animale. Le stesse pelose mani che tolgono violentemente il cibo ad un’anziana signora, sottolineando il selvaggio potere nel dominio della Tower of Victory: gloriosa costruzione antropica, totale egemonia bestiale.

                         

Mani oleose e leggere, energiche e sensibili strapazzano il tuo corpo, lo lucidano, lo plasmano, lo spremono, lo massaggiano, fino a che l’ultima cellula o lo stirato nervo non gridano sollievo, donando alle terminazioni sensoriali il meritato riposo. Vigoria e delicatezza che trasformano la tua rigidezza e stanchezza in energia e spossatezza, forza e abbandono, garantendo così la prosecuzione del tuo pellegrinare e la tua conoscenza.  



E sono divine e sagge le mani umane e animalesche che si protendono a sostenere simboli: da 4 a 14, le mani avvolgenti di Ganesh,  a rappresentare quanto di più sublime ha il nostro essere: la mente, l’intelletto, la coscienza e l’ego. E per un buon auspicio il metafisico animale è manifesto nelle sue effigi sulle porte dei novelli sposi, ed ancora le sue mani sono protagoniste nel trascrivere i sacri testi, trasformando così il dio in patrono della scrittura, linguaggio manuale per eccellenza.

Mani, quelle del bramano, che donano ai suoi fedeli,  e quelle dei proseliti che ugualmente ricevono da chi partecipa la cerimonia; mani che segnano tilak, elegantemente portati come portafortuna sul viso a rappresentare il terzo occhio; mani che toccano il pavimento, la fronte, il toro. Miele, riso, fiori, latte, pasta di sandalo, incenso, elementi e doni per compiere la puja, cerimonia di offerta e di adorazione, canti e letture per adorare gli dei.

Ed il cerchio si chiude laddove è iniziato, lungo la strada che porta all’ascesi: immortalità e purezza ricercate nel sacro e candido luogo, finemente scolpito, ardentemente partecipato fino al raggiungimento di serenità e ricchezza interiore.


Nessun commento:

Posta un commento