Gli alberi
sono lo sforzo della terra
per parlare
al cielo in ascolto
(Tagore)
sono lo sforzo della terra
per parlare
al cielo in ascolto
GLI ANNI MIGLIORI DELLA NOSTRA VITA
Il primo ramo: terra d’Abruzzo
Perché racconto questa storia? Perché sono rami diversi quelli che si dividono sulla stessa pianta, ma il tronco principale da cui partono è proprio la montagna, e che montagna! Quella d’Abruzzo, quella che ha visto crescere la mia infanzia e trasformarsi in adolescenza, quella terra che da piccola ho odiato con tutte le mie forze legate alla mia innata pigrizia, questa regione che ho amato quando il caso e la coincidenza mi ci ha fatto tornare, ormai cresciuta, e che mi ha avviato ad una passione maledetta….calcare la terra per andare verso il cielo.
Abruzzo, la mia seconda patria
Dicembre 1961 : la vera data non la so, dico Dicembre perché sono nata ad Ottobre, e la prima data più probabile in cui mi sono ritrovata al paese abruzzese sarà stata proprio questa: Natale 1961. Come di consueto, infatti, i periodi canonici di vacanza erano le feste di Natale, Pasqua, e la partenza estiva da Giugno ad Ottobre fino a quando, cioè, ricominciavano le scuole, ma talvolta anche oltre queste date. E a meno di abbandonare le figlie a Roma, mia madre ci ha sempre portato con sé, qualunque sia stata l’età.
La prima branca di vita, quindi è alla scoperta di questo strano mondo in forma vacanziera, rilassata, infantile.
Le origini ciociare ci obbligavano in qualche modo a passare per il paese materno prima di ogni trasferimento in terra d’Abruzzo, ma era solo il diversivo di un lungo ed interminabile viaggio fatto di curve, canti e fermate.
Il perché sia stata scelta questa regione, poi, proprio non lo so. O forse sì: mio padre all’epoca lavorava alla centrale di Scanno. Nei week-end ci veniva a trovare, quando poteva.
A Rivisondoli avevamo preso in affitto una casa sulla piazza del paese, tutto l’anno, e dopo un adeguato periodo al mare, ci trasferivamo con bauli e valigie in questa dimora, piccola, tre stanze, sala da pranzo, cucina e bagno. Il tutto troppo microbico per dodici persone, quando non quattordici, se consideravamo anche qualche cugina ospite.
Mio padre si concedeva un mese di ferie all’anno, e anche lui aveva una passione. Cercava sempre di trovare i giorni per andare in montagna, con noi, che quando non l’accompagnavamo, l’aspettavamo nella zona “franca”, dove scorazzavamo liberamente sotto gli occhi materni, mentre lui vagava per tutti i percorsi segnati su una vecchia carta IGM, studiandone la sera prima il tragitto, la logistica, il rientro.
Prima di ogni gita, anche impegnativa, consultava il tempo: prendeva un mazzo di carte, le mescolava, e cominciava un solitario. Ne faceva tre di seguito: se riuscivano tutti e tre il tempo era bello, e si poteva fare una gita impegnativa; quando le carte imbrigliavano le figure, il tempo ci avrebbe concesso solo una passeggiata nelle zone limitrofe. Se i tre solitari non riuscivano, erano dolori, e occorreva riconsultare le previsioni magari più in là. Noi eravamo tutti lì intorno ad aspettare l’esito dell’oracolo. Ancora oggi mescoliamo le carte per garantirci il benestare del responso divino: ma tre di seguito ne devi fare, altrimenti non vale!
Abbiamo continuato a frequentare paese e montagne fino al 1980, cioè fino a quando, a 3 anni dopo la scomparsa paterna, mia madre ha preferito caricarsi i ricordi e portarseli su al Nord. Anche noi figli ormai grandi abbiamo salutato questo polmone di vita e ci siamo dedicati a giorni cittadini più frenetici. Altri dieci anni dovevano passare, per me, prima di ritornare a visitare questi monti. Il paese, ormai triste della nostra gioia infantile attenderà molto di più: la mia prima rivisitazione sulla piazza di Rivisondoli risale al recente 2004.
Per molte delle mie sorelle quel giorno ancora non arriva. Troppi bei ricordi di un’infanzia spensierata, vissuta tra biciclette, corse, escursioni, pranzi, canti montanari, salite faticose, sciate e discese impegnative, gare e tornei, la ritirata delle mucche alle stalle, il tocco della campana ogni quarto d’ora, la pizza bianca, la nutella, le Naturella, il Topolino e la biblioteca.
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Abruzzo, la mia prima patria montanara
Pasqua, Abruzzo primi anni ’70 : la mia prima scialpinistica Monte Pratello – Aremogna
Sole accecante, gli scintillii dei granelli di neve riflettono senza pietà la loro luce caleidoscopica. I miei occhi si colmano di queste colorate schegge luminose, impedendomi di guardare oltre, avanzando.
E’ faticoso? Non so, adesso non me ne rendo conto; ma sembra che sia rimasto nei miei polmoni un senso di libertà piena, pur non volgendo lo sguardo se non alle punte degli sci e al calore del sole.
Eppure di lassù il panorama è superbo: Serra Rocca di Chiarano si estende lungamente con la sua strapiombante cresta, adagiandosi nella parte terminale alle pendici del Monte Greco; poco sotto, nella pianura si immagina il laghetto di Pantaniello con gli stazzi, difesi l’estate da ringhiosi cani maremmano-abruzzesi, terrore di noi piccoli al solo loro abbaiare. Di fronte, la cresta del Monte Rotella, e ancora più a sinistra, si intuiscono le pendici del Monte Morrone di Pacentro. Ma di queste consapevolezze cimose ne prenderò coscienza solo molti anni più avanti.
Oggi il mio solo pensiero è abbronzarmi come le mie sorelle, dei cui visi scuri sono particolarmente invidiosa. Sono rimasta a letto influenzata per tutta la vacanza, e l’unico giorno in cui potevo abbronzarmi mio padre ci porta a fare questa scarpinata con gli sci! Senza pelli (non so proprio cosa possano essere), il passo torna continuamente indietro, e la fatica si manifesta con un sudore spropositato: goccioline miste a crema scivolano sul viso dentro al collo, per fortuna scoperto, considerato l’atto di vanità. Ma la Nivea entra negli occhi: “Anna, mettiti gli occhiali”, il consiglio deciso di mio padre. Faccio finta di non sentire. Figuriamoci se mi metto quegli occhialoni, che poi mi si vede il segno del bianco che spicca sull’abbronzatura. Se mi impegno, forse oggi ce la faccio a recuperare il colore nero delle mie sorelle. “Anna, rimettiti la crema!”. Ci mancavano anche questi assurdi richiami, io che non sopporto creme, figuriamoci oggi che devo salvare la mia vanagloria!
Sole implacabile, più avanzo faticosamente con le gambe – ma chi me l’ha fatto fare, oggi, a venire a questa traversata, che stavo tanto bene giù ad aspettare al sole dell’Aremogna? – e più regalo il viso al sole, gli occhi chiusi, il pianto del sudore sulla pelle che scivola via dentro al corpo.
Di questa splendida giornata ricordo questo, e la sera, un dolore acuto agli occhi: tanti aghi che mi costringono a tenerli chiusi e a fare impacchi di camomilla. Dolore atroce, pelle ingrossata come quando il pugno ha scelto giusta la sua direzione. Anche sulle guance, gonfie sono le vesciche piene d’acqua.
Di nascosto mi guardo allo specchio: però, Anna, che abbronzatura! Mi sa che ne è proprio valsa la pena!
1994: la seconda rinascita
Un’amicizia nata due anni prima per telefono, quando Stefano chiamava Giovanna, mia coabitante, e rispondevo io. Lei praticava nei fine settimana sport che all’epoca ancora non capivo: scialpinismo, canyon, arrampicata, trekking, tutte parole astruse ma che dopo la conoscenza con lei mi hanno aperto la porta ad un mondo per me sconosciuto, e mi hanno invitato a solcarlo.
Nel 1992, la chiamata di Stefano è per una escursione al Monte Amaro, grande nome sinonimo di Maiella. Maiella sinonimo di infanzia, e infanzia significa gita, padre, cime, pigrizia. Come non resistere alla curiosità! Quel giorno ho dovuto attraversare una lingua di neve, ancora non credevo di esserne capace: se fossi scivolata mi sarei ritrovata nella valle poco sotto, non lontana, ma comunque un’esperienza da non provare.
Quelli sono stati i primi passi della mia ritrovata passione montanara, quella sofferenza che mi trascinerà da quel momento in poi tutti i fine settimana alla riscoperta di queste familiari montagne, a calpestare terreni già consumati nel passato e dal passato: il Blockhouse, il Monte Amaro, la Direttissima, la Valle di Femmina Morta, il Porrara, Fondo di Maiella, Tavola Rotonda, Campo di Giove, la Stazione di Palena, le Pietre Cernaie, il Monte Croce- oggi parte terminale della lunga cresta del Rotella- , il Bosco di S.Antonio, e tutte le valli che si affacciano sulla statale da Sulmona a Castel di Sangro.
Troppi luoghi e troppi ricordi, per una bizzarra coincidenza della vita: dal 1996 l’affitto di una casa a Rocca Pia influenzerà non poco la mia malattia per questi monti. In aggiunta, l’amico che sembra abbia un piacere perverso a trascinarmi in tutto questo, esaudendo ogni desiderio montanaro e d’ambiente, di ‘selvaggio’ e di impegnativo, di conoscenza e di scoperta mi condurrà dal 1995 al 2008 su e giù per questa regione macinando in tutti i modi kilometri di dislivello, di impegno, di beltà, di divertimento.
E così questa aspra terra, ricca di anticime, viene solcata da noi in lungo ed in largo, nei suoi angoli più remoti, a piedi, con le corde, nuotando e stupendoci ogni volta quando la finestra si spalanca su uno dei suoi sconfinati panorami, con la piccozza in mano, con l’imbraco indosso, sotto la pioggia scrosciante, all’alba, al tramonto, sotto le stelle, nei suoi rifugi e negli ospitali bivacchi.
In quello stesso anno mi sono iscritta al corso di scialpinismo, dopo essere stata selezionata “non perché sai sciare (poco più dello spazzaneve a curve), ma perché hai tanta buona volontà”, mai frequentandolo a causa di una brutta caduta. Ma non mi sono fermata: con la pazienza di chi mi era intorno, solo tre anni dopo affrontavo il mio primo 3000 su ghiacciaio, sciavo su tutti i versanti dei monti, arrampicavo sulle vie classiche delle palestre sportive e di montagna.
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