di
Alessandro Papadakis http://www.bonsai.tv/foto/foto-dallalto/foto-dallalto-senza-vincoli-/
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Nuovi Poemetti
Il naufrago - Il prigioniero
"La vertigine"
Si racconta di un fanciullo che aveva
perduto il senso della gravità...
I
Uomini,
se in voi guardo, il mio spavento
cresce nel cuore. Io senza voce e moto
voi vedo immersi nell'eterno vento;
cresce nel cuore. Io senza voce e moto
voi vedo immersi nell'eterno vento;
voi
vedo, fermi i brevi piedi al loto,
ai sassi, all'erbe dell'aerea terra,
abbandonarvi e pender giù nel vuoto.
ai sassi, all'erbe dell'aerea terra,
abbandonarvi e pender giù nel vuoto.
Oh!
voi non siete il bosco, che s'afferra
con le radici, e non si getta in aria
se d'altrettanto non va su, sotterra!
con le radici, e non si getta in aria
se d'altrettanto non va su, sotterra!
Oh!
voi non siete il mare, cui contraria
regge una forza, un soffio che s'effonde,
laggiù, dal cielo, e che giammai non varia.
regge una forza, un soffio che s'effonde,
laggiù, dal cielo, e che giammai non varia.
Eternamente
il mar selvaggio l'onde
protende al cupo; e un alito incessante
piano al suo rauco rantolar risponde.
protende al cupo; e un alito incessante
piano al suo rauco rantolar risponde.
Ma
voi... Chi ferma a voi quassù le piante?
Vero è che andate, gli occhi e il cuore stretti
a questa informe oscurità volante;
Vero è che andate, gli occhi e il cuore stretti
a questa informe oscurità volante;
che
fisso il mento a gli anelanti petti,
andate, ingombri dell'oblio che nega,
penduli, o voi che vi credete eretti!
andate, ingombri dell'oblio che nega,
penduli, o voi che vi credete eretti!
Ma
quando il capo e l'occhio vi si piega
giù per l'abisso in cui lontan lontano
in fondo in fondo è il luccichìo di Vega...?
giù per l'abisso in cui lontan lontano
in fondo in fondo è il luccichìo di Vega...?
Allora
io, sempre, io l'una e l'altra mano
getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,
a un filo d'erba, per l'orror del vano!
getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,
a un filo d'erba, per l'orror del vano!
a
un nulla, qui, per non cadere in cielo!
Giovanni Pascoli
Vertigine
Afferrami alla vita,
uomo. La cengia è stretta.
E l'abisso è un risucchio spaventoso
che ci vuole assorbire.
Vedi: la falda erbosa, da cui balza
questo zampillo estatico di rupi,
somiglia a un camposanto sconfinato,
con le sue pietre bianche.
Io mi vorrei tuffare a capofitto
nella fluidità vertiginosa;
vorrei piombare sopra un duro masso
e sradicarlo e stritolarlo, io,
con le mie mani scarne;
strappare gli vorrei, siccome a croce
di cimitero, una parola sola
che mi desse la luce. E poi berrei
a golate gioiose il sangue mio.
Afferrami alla vita,
uomo. Passa la nebbia
e lambe e sperde l'incubo mio folle.
Fra poco la vedremo dipanarsi
sopra le valli: e noi saremo in vetta.
Afferrami alla vita. Oh, come dolci
i tuoi occhi esitanti,
i tuoi occhi di puro vetro azzurro!
Antonia Pozzi - Pasturo, 22 agosto 1929
Martedì 16 Dal Rif. Croz dell’Altissimo (1430m) –
Passo del Clamer - Cima Croz
dell’Altissimo (2237m) ; Discesa: Passo dei Camosci – Palon de Tovre - Rif. La
Montanara – Sentiero delle Grotte – Rifugio Croz- Sentieri: 322-344- 344B – sentiero dei
camosci- 340B.
Dislivello: circa 1000 mt in salita, 800 mt in discesa; 7
ore
Lo
svizzero mi viene incontro mentre sto scendendo dalla cima del Croz, e mi
domanda com’è il percorso. “Richiede attenzione”, ma lo sprono certamente ad
andare: è una bella soddisfazione arrivare lassù, dopo quel tratto delicato di tensioni
al cervello. Quando lo ritrovo più avanti, mi parlerà della cima mancata e di
una figlia, e di come quel senso di vuoto attrae più della volontà, ed è una sensazione
alla quale è meglio non lasciarsi andare, tanto la montagna è sempre là.
“Per De Luca però l’ascesa dell’alpinista non è
un’ascesi, e in montagna non c’è neanche il vuoto. In montagna “il vuoto è
tutta aria scalata, spazio che ti sei guadagnato sotto i piedi” e la
letteratura di montagna continuerà a esistere perché chi abita in
città avrà sempre bisogno di leggere degli “spazi aperti” delle montagne e
dei deserti.” (da www.letteraltura.it)
La valle è ancora in ombra, e umida, lo sento nelle
ossa.
Sono ad un bivio di impluvi: dietro le mie spalle
l’alta Valle delle Seghe, chiamata così per la presenza nel passato di antiche
segherie ad acqua distrutte dall’alluvione del 1966 e distribuite lungo il
percorso del Torrente Massò, corso d’acqua che nasce in Val Perse e sfocia nel
Lago di Molveno. Oggi ne rimane una sola, Taialacqua, restaurata per la
memoria del vissuto. Alla mia sinistra la Val Perse, selvaggia e chiusa a
difesa della Regina Madre, Cima Brenta.
Il peso dello zainetto è accettabile, dopo la
fatica del giorno precedente; oggi salgo alla scoperta di un sentiero che mi
perdo subito, immerso nelle escavazioni della montagna e nei suoi crolli. Il
letto divelto del torrente costringe a Lasciare costantemente la traccia e a
recuperarla metri più su; ma non è un problema per una salita quasi obbligata
fino alla Vallazza, scenario di roccia e pareti inconsistenti che chiudono la
Valle ad anfiteatro.
Da ieri, studiando la cartina, ho una tacita
curiosità su un certo passo dei Camosci dalla cima del Croz, da fare in discesa,
il cui nome è tutto un programma, ma di una curiosità infinita per me. Nel
fondo del cuore so che mi ci imbriglierò sicuro!
Di fronte a me, mentre salgo in questa valle
sconnessa, disordinatamente la montagna parla: contrafforti rocciosi che
attirano più per il loro sconclusionamento che per la linearità; un sentiero che
sale a sinistra con marcate zig-zagate porta alla Busa dell’Acqua e in Val
Perse.
Vorrei farle veramente tutte le valli che si aprono ad una ad una in
questo sconfinato mondo di roccia, verde e bianco, ma non è possibile.
Un pò rammaricata e con lo sguardo attento al
sentiero che più volte si interrompe giungo al bivio di valle: a sinistra c’è la
Busa dell’Acqua e si va verso il sentiero 314 per Malga Flavona, a destra la
mia via scelta per quest’oggi, per il Passo del Clamer, e la cima di Croz
dell’Altissimo. Giro questo per me molto ambizioso, perchè so che potrebbe non
regalarmi nulla di semplice la sua scoperta.
Con amarezza seguo con gli occhi il sentiero di sinistra, ma il mio corpo svolta nettamente verso le pareti apparentemente chiuse della Vallazza alta, verso passo del Clamer.
Dapprima scorrevole e via via
sempre più erto, sul sentiero seguo le tracce miste di roccia e terreno
scosceso, qualche passo con cavi, a quattro mani, ed infine una chiazza di neve
e un lontano masso in bilico, che mi predice l’arrivo al Passo.
I segni forse sono sotto la neve; l’istinto mi fa
abbandonare la facile via sul bianco per piegare a destra verso pendici dirupate,
e come sempre mi dà ragione sulla mia immensa razionalità: in breve, seppur
verticalmente, arrivo al passo, ad inseguire con gli occhi l’equilibrio poco
stabile di massi, affilate creste, e...... più in basso quella di cui conoscerò
ben presto l’ospitalità, Malga Spora.
Propaggini del Fibbion e sui prati Malga Spora |
Il riposo è doveroso, sono ancora indecisa se
compiere il giro di Piz Galino, o lanciarmi alla scoperta del Sentiero dei
Camosci, entrambe le strade mi attirano tanto, ed in fondo è ancora presto. Mentre
mi rifocillo, rigiro la cartina come più mi aggrada, tra un sogno e
un’attrazione.
Al giro più lungo del Piz Galino, che potrei
affrontare nei prossimi giorni, vince la curiosità del selvaggio, e un
messaggio di Ivan che forse domani mi potrà accompagnare per una tappa; e nel
profondo di questo desiderio ripenso alla Busa dell’Acqua, anche se il sentiero
è chiuso.
Via! verso la cima del Croz, lambendo lungamente la
cima dei Lasteri la cui croce attrae come e forse più di una calamita, ma sono pur
sempre da sola e i passaggi su roccia fino in cima potrebbero non essere
proprio agevoli.
Contornando la montagna, ritrovo paesaggi erti, dirupi, in
lontananza i colossi del Brenta a sfilare in tutta la loro eleganza e portanza;
tra questi e quelli, lontano, alta e fiera l’alta croce del Croz, lì sola a dominare
quell’orizzonte frastagliato di grigio misto a verde, calcare che si mescola al
colore della speranza, di fronte compatto e severo, ai fianchi frammentato e
gentile.
Al centro di questo spartiacque il mio passo si fa
sempre più certo a conquistarne la cima, a ricercare i misteri di un versante a
picco sulla Valle delle Seghe, lì a riscoprire l’occhio celeste del Lago di
Molveno, e i suoi monti collinari e dolci.
E’ presto e vedo scendere dalla cima già un paio di
persone, mentre il sentiero richiede attenzione.
Scendono caute, e per me ecco
il tratto impegnativo; tra un passo delicato e il precipitare dello sguardo nel
vuoto raccolgo sorridendo l’ammirazione della coppia di uomini, forse perchè
sono donna sola, o perchè sembro tranquilla su quel terreno che non mi spaventa
più di tanto, avendo frequentato roccia per tanti anni. Non lo saprò mai, e
così tra un’attenzione al percorso e vertiginosi sguardi attraenti giungo a
quello scintillante miraggio, che tanto spiccava anche in lontananza.
Calzanti le parole del Petrarca nella sua ascesa al
Monte Ventoso:
“Avevamo appena
lasciato quel colle che già io, dimentico del primo errabondare5,
sono di nuovo trascinato verso il basso, e mentre attraverso la vallata vado di
nuovo alla ricerca di un sentiero pianeggiante, ecco che ricado in gravi
difficoltà. Volevo differire6 la fatica del salire, ma la natura non
cede alla volontà umana, né può accadere che qualcosa di corporeo raggiunga
l’altezza discendendo. Insomma, in poco tempo, tra le risa di mio fratello e
nel mio avvilimento, ciò mi accadde tre volte o più. Deluso, sedevo spesso in
qualche valletta e lì, trascorrendo rapidamente dalle cose corporee alle
incorporee, mi imponevo riflessioni di questo genere: «Ciò che hai tante volte
provato oggi salendo su questo monte, si ripeterà, per te e per tanti altri che
vogliono accostarsi alla beatitudine; se gli uomini non se ne rendono conto
tanto facilmente, ciò è dovuto al fatto che i moti del corpo sono visibili,
mentre quelli dell’animo sono invisibili ed occulti. La vita che noi chiamiamo
beata è posta in alto e stretta, come dicono, è la strada che vi conduce7.
Inoltre vi si frappongono molti colli, e di virtù in virtù dobbiamo procedere
per nobili gradi; sulla cima è la fine
di tutto, è quel termine verso il quale si dirige il nostro pellegrinaggio.
Tutti vogliono giungervi, ma come dice Ovidio, «volere è poco; occorre volere
con ardore per raggiungere lo scopo»8. Tu certo, se non ti sbagli
anche in questo come in tante altre cose, non solo vuoi, ma vuoi con ardore.
Cosa dunque ti trattiene? Nient’altro, evidentemente, se non la strada più
pianeggiante che passa per i bassi piaceri della terra e che a prima vista
sembra anche più agevole; ma quando avrai molto vagato, allora sarai finalmente
costretto a salire sotto il peso di una fatica malamente differita verso la
vetta della beatitudine, oppure a cadere spossato nelle valli dei tuoi peccati;
e se mai – inorridisco al pensiero – le tenebre e l’ombra della morte lì
dovessero coglierti, dovrai vivere una notte eterna in perpetui tormenti».” Francesco Petrarca, L’ascesa al Monte Ventoso (dalle Familiari,
IV, 1)
L’ho voluta ‘con ardore’, questa cima, la vittoria
sulla certezza dell’animo, la conquista del panorama ben oltre ciò che emerge a
360 gradi, è l’esplosione della razionalità del cervello, è la gioia
incontenibile dell’aria sottile, pura
come esce dai polmoni, leggera come si spande nell’aria carica di trionfo, del
successo dell’anima, della soddisfazione piena.
Il respiro è ampio dall’alto del diedro più in
basso, quel disporsi a 90° di linee geometriche che furono vinte solo nel 1946
dal forte Armani con Cornelio Pedrizzi, lungo le pareti Sud-Ovest, dove
un’arrampicata impegnativa porta a questa rarefazione dei pensieri,
all’affermazione della natura sull’uomo fino a che l’uomo non ne carpisce
l’anima e ne raggiunge il massimo livello, nella sublimazione del movimento,
elegante o faticoso qual si propone.
Abbandonando lo sguardo al vuoto e alla cima,
incontro lo svizzero che sale, e che ritroverò in discesa, lungo quel sentiero
selvaggio e un pò Camoscio, che tanto mi aveva attratto dall’inizio.
e
mi condusse ov’è scosceso il
colle,
e giù per balzi e per dirupi incolti
strada non già, ché non v'è strada alcuna,
ma cala un precipizio in una valle.
Qui
ci fermammo. Io, rimirando a basso,
tutto sentii raccapricciarmi, e 'ndietro
tosto mi trassi; ed egli un cotal poco
parve ridesse, e serenossi in viso;
onde
quell' atto più rassicurommi.
(Aminta di Torquato Tasso)
Il fluire delle parole ci accompagna in questo calare sì tranquillo quanto stupefacente per gli angoli di precipizi e verticalità che si aprono sotto i nostri piedi: squarci di vuoto che richiamano e respingono il corpo proteso, il passo sicuro ad inseguire la valle, le frasi a scendere di quota e la sete a crescere.
Al rifugio La Montanara le nostre strade si dividono,
non prima di esserci rifocillati dopo questa esperienza montana, lui a
ritrovare la famiglia, io a proseguire la scoperta di questo angolo di
Dolomiti, sul sentiero delle Grotte che spettacolare scende per poi risalire con
calma nello splendore della Valle delle Seghe.
La luna rischiara i miei sogni e l’alba illumina un altro giorno.
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