“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

La Tribù delle Yurte


La Tribù delle Yurte

Guardo in alto verso i pratoni sospesi tra il verde e il cielo, ho già rinunciato a cercare il sentiero in quota che mi farebbe arrivare a Malga Tuena senza dislivello. Ma non sono sicura che il sentiero sia segnato, anche se lo immagino sospeso nel vuoto, visto quello della Dena che ho appena salito, anzi al quale mi sono faticosamente aggrappata.

Lo scampanellio delle vacche non disturba il silenzio: forse più le voci di quei ragazzi che scendono lungo il rivo creato dalla sorgente. Ma non mi avvicino, sono un pò prevenuta sui ‘pastori’, soprattutto quando loro sono più di uno ed io sono sola.


Mentre mi allargo sul sentiero che non c’è, scorgo una donna tra loro, e l’approccio cambia: lì c’è l’acqua, ci sono le fragole e soprattutto fa un gran caldo, ma sono ancora in tempo dopo aver lasciato un messaggio a Luca sul mio arrivo certo alla malga, mi raggiungerà in serata.
Ancora non so che i giovani che riposano all’acqua sono Paola, Giacomo e soprattutto Angela, i ragazzi delle Yurte, quel caleidoscopio di gioventù che è sempre un piacere incontrare, soprattutto in questi luoghi aspri e deserti.

Da quando qualche ora fa ho lasciato a valle le due olandesi, l’unico essere che mi è venuto incontro è stato il fantasma dell’orso, su quel sentiero così ripido quanto inciso nella montagna per lui. E’ il sentiero della Dena, quello che ho appena salito, via che parte da un cartello rotto laggiù in valle, come a voler indicare di tenersi alla larga; ma io sono curiosa e salgo, linea dritta per dritta, tra il profumo di conifere che nell’ora più calda della giornata si espande su tutta la salita e le impronte dell’orso, che qui trova veramente il suo mondo.


Saprò solo dopo che mi sono avvicinata di molto alla realtà con il mio gioco di fantasia sull’animale: le vacche che stavano radunando i ragazzi si sono sparse sui prati spaventate dal suo passaggio durante la notte. E così li ho trovati, accaldati a radunare le bestie.

Dopo questo primo scambio di conoscenza mi riavvio sulle costole ripide dei pratoni verdi, verso le pendici della Livezza Piccola, entrando nel bosco nel momento in cui non ho ancora finito di trovare pace con gli animali: il mio piede rimane sospeso su un serpentello quasi mimetizzato sul sentiero.





Il tempo di indietreggiare, scattare la foto alla vipera e placare il battito del cuore che è andato a 3000, che già sono fuori dai guai e dalla fatica.




Da adesso in poi è solo discesa, la mia schiena ringrazia con il fardello da 14 chili sulle spalle, e mi godo la discesa in questo verde già esploso, sotto lo sguardo placido della Livezza Piccola



- che andrò a ritrovare il mattino successivo -, quello incuriosito di tutti gli asini di Angela, le vacche,
     


















la grossa cangèra che attende ai bordi della porta il latte appena munto








Ancora non  mi sono ripresa dalla sorpresa di tutti gli eventi della giornata che il piazzale della Malga si affolla di animali e richiami: “Rosa”, Bael, Simba, Diego, Pietro.........nomi ai quali non riesco a stare dietro che arriva un piatto di formaggio, piadina e miele, birra e sorrisi.





Sono capitata nel posto giusto, per ritrovare l’allegria e la serietà di questi ragazzi che si raccontano volentieri nella loro esperienza di vita e di ricerca. Universitari e volenterosi, lavoratori e spensierati, sognatori dalle idee chiare e tanta buona volontà.





Tutta la vita da scoprire è nelle loro mani:

forti sono quelle di Angela, a governare gli asini e i maiali, costruire yurte, ma delicate quando accarezza Bael, l’amichevole maiale thailandese, o riversa il suo affetto all’afflitto cane che stenta a camminare;



appiccicose quanto dolci le mani di Ottavia mentre fiera ti mostra il suo ‘mugoglio’, una sorta di miele-sciroppo che rende zuccherina anche la severità della vita di malga;

si imbrattano anche le mani di Teva, quando all’alba c’è da tirar via il latte alle vacche, le stesse che solerti compongono il pasto per i pellegrini di passaggio, insieme a Paola, o imparano a premer sulle corde di una chitarra che non ne vuole sentir parlare di esprimere note;
tenaci quelle di Giorgio ad impastare il miglior pane richiesto perchè cresciuto dal lievito madre, le stesse che rapide ed esperte di agitano sugli strumenti a ritrovare poeti attualizzati di altri tempi che vuole imparare a cantare;
decise sono quelle di Matteo nel gestire il bastone al raduno delle vacche, preparare il formaggio, così come energico è il colpo al suo tamburo esploso all’aria nel raro momento del divertimento;



anche se Giacomo è un cugino “aggregato”, qui ha scoperto il suo nuovo rapporto con la natura e la vita parentale, e le sue mani danno sollievo alle vacche appena munte col tiralatte, strumento oggi d’obbligo per una gestione non certo facile del luogo rurale. Impara e assimila dagli errori, anche quando per una ‘ragazzata’ ci ritroviamo sulla strada del rientro a dover studiare la cartina per uscire fuori da una cantonata stradale ingannatrice.





Questa piacevolezza di vita contadina ci ha portato a vivere tutti i momenti del breve soggiorno in sintonia, calorosamente, tutti ospiti l’uno dell’altro. L’interrogazione di Matteo su una decisione in merito alla malga mi lascia interdetta e stupita piacevolmente della considerazione che i ragazzi mi hanno reso in questi giorni stancanti ma molto sereni: un caro ricordo da conservare per stimolarmi a tornare a breve, senz’altro nel futuro.



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