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Avevo dieci anni quando ho messo piede in piscina. Sono lì che agito le braccia, e i polmoni mi stanno quasi esplodendo, ma non demordo. All’improvviso sento una gran botta al collo, e mi rigiro violentemente, bevendo tutta l’acqua di superficie, e forse più! L’istruttore sta sbraitando come mi ci sarei dovuta abituare ben presto, urlando se ero impazzita. La tavoletta appena tirata galleggia inesorabile sul pelo dell’acqua, ignara del male che mi ha fatto. Mi guardo intorno perplessa, senza capire, sotto lo sguardo mezzo sorpreso e mezzo divertito di altri quattordici ragazzini, tutti maschietti. “Margherita!, ma chi ti ha insegnato a non respirare?!”. Mi rivolgo intorno confusa, cercando di scoprire chi fosse Margherita, ma non vedo altre bambine tranne me, e alla fine comprendo che forse sono io il soggetto della situazione. Quando accenno al fatto che mi chiamo Anna, ormai è già assodato:”Margherita, perché sei la sola femmina in mezzo a tanti ragazzi! Potrei dire un fiore”. Col senno di poi, questa situazione si è catalogata nella mia memoria come il più bel complimento ricevuto, e ne ero orgogliosissima: quando ero lì nell’acqua ero una margherita, con tanti petali intorno a farmi trasformare in fiore. Alla visita medica mi fecero soffiare in un apparecchio, di cui solo oggi conosco il nome – spirometro -, ma all’epoca non era importante. Volevo eccellere e l’ho fatto, soffiandoci dentro con tutte le mie particelle vaporizzate scovate nei meandri dei polmoni, e ho dovuto ripetere l’esame perché non ci credevano: avevo il fiato pari a quello di un ragazzo grande! Questo precedente ha contribuito a rendermi vanesia e competitiva in questo sport: a farmelo amare, a non farmi stancare mai, e soprattutto ad imparare a nuotare perfettamente dopo soli quattro mesi, in tutti e quattro gli stili. L’acqua è sempre rimasta la mia prima passione, tutt’oggi che vedo solo montagna, quella distesa informe ha sempre avuto su di me un fascino particolare, un’attrazione verso quella calma, quella vastità, quel silenzio, che ancora oggi mi tira verso di lei, anche nelle sue agitate acque. Non ho mai avuto paura dell’acqua, delle sue onde, dei suoi ospiti o di temibili pericoli che si spalancano ai tuoi occhi quando sei adolescente. Facevo il morto e rimanevo a galla per ore, a vivere il lento movimento del corpo senza gravità in quel liquido leggero, a volte trasparente, molto spesso torbido, a lasciarmi trasportare dalla corrente, che ti rigira e ti lascia inconsapevole della tua posizione: solo le nuvole si specchiano nel mio sguardo, si rincorrono come le onde che mi trascinano in alto ed in basso, a seguire un sentiero che non c’è. Anche quando il mare si arrabbia, una volta dentro trovo la pace, quella posizione assurda di tranquillità nella tempesta, quando la schiuma bianca ti avvolge e il mulinello tenta di risucchiarti verso il basso: rilasso i muscoli e mi lascio trasportare da questa agitazione furiosa. “Ogni tanto dammi un sguardo”, è la mia frase ormai consueta quando mi lancio tra le onde e mi perdo perpendicolarmente alla costa. Mai parallela, come se la lontananza dal mondo mi facesse avvicinare al fulcro della Terra in questo placido andare. E ogni volta mi devo forzare a fermarmi e tornare indietro, non senza essermi vissuta ancora e lungamente il gioco del sole e delle nuvole, del silenzio intermittente, della musica delle onde nel cervello. Solo tre occasioni mi hanno colto di sorpresa in mezzo a questo fluido rassicurante: due di queste hanno a che fare con il contatto improvviso dell’acqua gelida con il mio corpo. Era un Giugno caldo di sole, a primavera avanzata, verde, calmo il lago, un invito al solo sguardo, ed il gesto unico e abituale: di corsa verso l’acqua, un unico tuffo e via le bracciate! Nel contatto con l’acqua invano cerco il movimento muscolare, ma sento i polmoni esplodere, un’ improvvisa tenaglia gelata avvolge tutto il mio corpo, spalanco la bocca per urlare, ma non una singola e striminzita sillaba fuoriesce dalla mia gola. Panico! Anna respira, muoviti, fai il morto. Nulla, nessuna fibrilla risponde, e il fiato esplode tutto insieme. Il riflesso degli anni mi salva: mi rigiro e come un fulmine agito le braccia in apnea, non ho più fiato, per molti istanti l’ho perso, e sono fuori. La terza volta è stata nell’oceano spagnolo: non ero preparata alla forza delle maree, non mi sono resa conto della violenta attrazione che aveva quella grande quantità di acqua su di me, tanto da farmi entrare e non più riuscire ad uscire. Sentivo una forza sconosciuta che mi tirava verso il basso, nelle sue viscere, prepotente, costante, implacabile. Per la prima volta ‘sentivo’ la quantità gigantesca di quella forza sconosciuta, ammaliante, subdolamente tentatrice. Ho frequentato anche mari aperti, profondi, cristallini o fortemente opalescenti, ma una sensazione di inibizione così forte come quella provata davanti alla gigantesca massa oceanica non si è più ripresentata, ed il suo ricordo è ancora molto vivo, sebbene siano trascorsi diversi anni. |
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“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)
Perle - schizzi d'acqua
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