“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

L'Aquila Oggi

Il quinto ramo: Urla e tremori della Terra 
I due Terremoti:  Irpinia e L'Aquila


L’Aquila Oggi - 6 Aprile 2009  
(di Anna)
        
Sussurri
Il silenzio della città viva
All’ombra dell’alzabandiera
Volti
Volontari





Volontaria alla tendopoli di Sassa (AQ)

Quando il C.A.I. Abruzzo, in seguito al terremoto del 6 aprile, ha richiesto ad altre Sezioni la loro collaborazione per l’assistenza e aiuto ai campi di Sassa, lavorando al fianco della protezione Civile e dell’Associazione Nazionale Alpini, diverse sezioni abruzzesi e romane si sono organizzate per poter offrire il proprio contributo, alternandosi sul luogo con cambi settimanali.

Ho aderito al lavoro di volontaria presso il campo di Sassa Scalo dando la mia disponibilità al Cai di Isola- sottosezione di Pietracamela.

Quando ho ricevuto la conferma che c’era la possibilità di agire presso la tendopoli di Sassa una settimana di Agosto, ero già pronta molto prima di andare, trent’anni fa, con i miei familiari, non abbiamo esitato un secondo ad affrontare in Irpinia tragedia e solidarietà, e questa volta non mi tiro certo indietro.

Oggi ringrazio chi ha permesso, con questa opportunità di gemellaggio, di raggiungere un obiettivo concreto e consentire un contributo in forma di lavoro alla popolazione terremotata. Tutto ciò ha dato luogo non solo alla realizzazione fisica di opere e servizi per la stessa popolazione, ma ha sviluppato una catena di solidarietà tra coloro che vivono tutt’ora situazioni molto disagiate e chi presta la propria opera di volontario sostegno.

Ho cercato di esprimere nelle parole che seguono quello che ho vissuto in una tendopoli a distanza di mesi dalla tragedia, l’aiuto reale e la forte ricchezza d’animo dei volontari, fattori che hanno generato un incredibile susseguirsi di concretezza e partecipazione anche e soprattutto con la stessa popolazione.

Oltre al nostro lavoro al campo, sempre il Cai ha realizzato alcune attività di svago per i più piccoli, allestendo una palestra di arrampicata sportiva nella vicina località di Pagliare.




SUSSURRI

La tentazione è quella di spararsi nelle orecchie la musica a palla, violenta, acuta, stridente, scatenata.
Per non sentire il boato, il folle grido.
Del silenzio.
Il mutismo dei mancati aliti,
la leggerezza del fiato dell’animale che cerca,
l’affannosa voce che si affievolisce, alla ricerca della luce,
la silenziosità della speranza di percepire un flebile sussurro.

Il caos del vento sprigionato dalla terra;
il rombo delle viscere che prepotentemente si scaraventa fuori,
 annientando trecentonove sussurri con un solo grande respiro.


La tentazione è quella di rimanere in silenzio davanti a tante bare,
ai quadri appesi,
alle profonde ferite della nostra intimità,
al corpo fulminato,
al crocefisso appeso sull’albero,
alle nostre vite sospese, oscillanti in un soffio d’aria.


La tentazione è quella di urlare dopo il frastuono,
un attimo dopo il ritorno alla vita,
gridare a piena voce la paura, il panico, l’essere ancora qui;
urlare per essere consapevole che con questa supplica
sei nel dolore, nella tragedia, nel mondo.


La tentazione è quella di andare,
condividere il nostro clamore con quello sussurrato da chi non ha più voce,
rimasta incastrata nelle scale crollate,
schiacciata dal peso degli affetti,
abbandonata nelle cose più care,
folgorata negli oggetti inutili,
inabissata nelle viscere della terra.



La tentazione è quella di non tornare nei luoghi che ci danno gioia,
che ci regalano un sorriso,
che ci accrescono il cuore con le loro asperità,
visioni selvagge, competizioni, condivisioni, beltà, unioni.


Quei posti che ci hanno donato la certezza di un sorriso,
e oggi ci affogano di un pianto disperato, silenzioso, ammutolito.

L’energia che ha cercato la propria libertà di vita con un solo, violento colpo di morte ha polverizzato trecentonove bisbiglìi di silenzio, vociferanti un solo urlo.


Quello della pace infinita.


Ascoltiamolo.
                                                            Anna                     6 Aprile 2009- Terremoto dell’Aquila

 



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Alla popolazione di Sassa Scalo, Genzano, Collefracido, Collemare e Maestra Teresa,
con affetto,
i Volontari dal 4 al 14 Agosto alla tendopoli di Sassa Scalo




IL SILENZIO DELLA CITTA’ VIVA



Alzo lo sguardo e vedo un stendino pieno di panni sul balcone dell’ultima piano.
Seguo con gli occhi la linea di confine tra palazzo e cielo e ascolto il grido disperato del silenzio.

E’ impressionante come i rumori si affievoliscono su una strada deserta, in salita, viale alberato pieno di speranze in tempi normali, tristemente vuoto e desolato oggi nella luce del crepuscolo.

La nera linea di frattura del palazzo è tra il piano terra e il primo piano: segue tutto il perimetro chiuso delle mura e ti chiedi come possa tale massa pesante di cemento sopportare quella enorme spaccatura dell’anima e sorreggere contemporaneamente l’unità del blocco variamente ferito.




Senza crolli, ma tristemente deserto.
Profonde croci di squarci profondi disegnano le facciate dei palazzi, marchiando ferocemente l’esistenza di un’intera città, addentrandosi nel suo cuore e isolandolo dal resto dell’universo: non è possibile entrare e neanche affacciarsi al centro cittadino.

Una città di macerie blindata dalla sua stessa distruzione; centinaia di uomini a difendere la sua intimità e la sua storia, e la sua intrinseca verità.

C’è un maestoso silenzio d’intorno, le finestre, i terrazzi, le porte, le strade, tutto parla da solo.

Percorriamo l’unica via della città che ci porta lungo il confine della disperazione, ne osserviamo le crepe, i crolli, i buchi, l’immensa violenza; talvolta neanche il perimetro casalingo appare, ma solo cumuli di macerie personali, di spaccati di vita interrotta, di quotidianità non più esistente.


Il cartello stradale recita Onna, ma il passo è sbarrato: rimangono solo gli infiniti chilometri di faglia che si estende per tutta la sua lunghezza nella piana dell’Aquila. Troppo vasta per pensarla, troppo orribile immaginare la sotterranea corsa liberatrice di tanta distruzione in superficie, troppo reale per renderla un incubo e aspettarne il risveglio liberatore alla luce del sole.


Meglio non vedere il colore blu del cielo che si mescola con i confini di stoffa di chi attende un rifugio sicuro, sterminata distesa di tende, follemente ordinate una dietro l’altra, una appresso all’altra a costituire un enorme e perfetto rettangolo umano; decine di divise colorate, arancioni, verde acido, gialle, vaganti e mobili nel mondo degli Angeli del terremoto; travi e impalcature che sostengono il peso non crollato degli anni di quei monumenti storici miracolosamente scampati all’urto dilaniante;
nastri colorati a circoscrivere e delimitare zone e passi, ovunque persone che si agitano, corrono, vanno.

Non riconosci più quelle strade familiari che hai percorso tante volte: completamente ribaltate dal ventre al cielo, cartelli, divieti, sbarramenti, automobili dal suono penetrante, ovunque aria di presenza istituzionale, oltre che umana.
Lo sguardo alla collina ti sciocca: decine di scheletri di case, colonne di cemento a sostenerle, legno dappertutto: interno ed esterno.

Ovunque gente che lavora, casco in testa e gilè colorato, non si fermano neanche di notte: grosse attrezzature coadiuvano il lavoro dell’uomo, e loro, le case, sono sempre lì, tristemente in fila, schierate nei loro cubi perfetti come se fossero sull’attenti, non un filo d’erba le separa, ma le sostengono quintali di cemento come a volere annientare la forza catastrofica, e rassicurare chi ancora conosce e vive la paura.
E non riesce a conviverci.

Due ore è durato il giro nella distruzione, laddove sono bastati una manciata di interminabili secondi per azzerare vite e futuro.

Troppo poco tempo  per realizzare la salvezza, troppo poco tempo per capire,
ma troppo tempo ci vorrà per garantire la ricostruzione, oltre che delle case, …  …..della vita.





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ALL’OMBRA DELL’ALZABANDIERA


Le note dell’ammainabandiera ti colgono di sorpresa nei gesti che stai compiendo. Ti richiamano fuori e sei indecisa, è un evento che hai sempre odiato.

E’ quasi la fine della prima giornata, o della seconda? Non lo so più: il tempo si è infinitamente dilatato; in queste giornate così piene si riesce a perdere la nozione del tempo e della realtà, tanto da farti credere che le stradelle che portano alle tende si chiamano veramente Via Treviso o Via degli Alpini. Questi piccoli accorgimenti al campo indicano quanto la presenza di chi desidera riportare alla normalità una condizione fuori dal normale sia forte e incidente.

Le tende azzurre si fondono con il cielo, fili aerei che assicurano il contatto, oggetti casalinghi che viaggiano in questa che è la loro casa, quella degli sfollati da l’Aquila, dalle loro case in pietra di Sassa, dalle zone limitrofe.

Il primo giorno ti senti spaurita, tutto ruota intorno alla velocità della luce, cercando di rimanere bloccato nella tua mente, ma è un turbinio di notizie, osservazioni, consigli, sguardi d’intorno. Hai paura di non trovare la tua dimensione per aiutare o organizzare, o semplicemente capire.
Per fortuna siamo in diversi: gli alpini Veneti hanno la padronanza della zona cucina, a noi montanari viene spontaneo compensare prevalentemente nella distribuzione.

Il lavoro principale è la gestione di una grande mensa: garantire i pasti ad un numero variabile di circa 500-600 persone che giungono a ore definite tre volte al giorno. Facile sulla carta; dopo aver scritto i numeri a fianco ai nomi, il gioco è semplice: in realtà il meccanismo deve essere perfetto, poiché ogni tassello si deve incastrare nell’altro; la distribuzione dei pasti ai paesi esterni deve avvenire ed ultimarsi prima dell’apertura della mensa, poi c’è il momento delle pulizie e già ci si riorganizza per il pasto successivo.

La gente: il primo pasto è uno shock, non ricorderai mai tutti i nomi, devi controllare i cartellini e le liste, guardarli negli occhi e cercare di impressionare i loro visi nella tua mente già affollata da tanti e troppi pensieri.
Un’ unica processione di volti e vite, che lentamente scorrono davanti a te e al tuo cuore, e sai già dove sarà il tuo posto da oggi in poi.
Cerchi di leggere qualcosa oltre ai numeri che portano: qualcuno ha impresso ancora l’espressione di dolore nel proprio sguardo, altri manifestano rassegnazione per una condizione ormai stabilizzata, e ritrovo in molti di loro il motivo delle situazioni tragiche già vissute nelle stesse condizioni in un altro e lontano terremoto, sopravvivere.

La giornata scorre frenetica sin dalle prime ore del mattino, e prosegue con la preparazione del pranzo, quando ad un certo punto inizia il balletto dei numeri: tutto si avvicenda freneticamente intorno a queste cifre, che non dicono niente ma sostengono la giornata.

Centinaia sono le persone che si presenteranno;
migliaia sono gli ingredienti necessari: cucchiaini, bicchieri, piatti, posate, tovaglioli;
decine sono i chili di scatole, pasta, cibo, i gradi di caldo, e i gruppi di abitanti esterni al campo;
ed infine la splendida dozzina, gruppi di persone da 2 a 12 che compongono la popolazione del campo, e non, che si mescola ai vassoi, alle buste, al parmigiano, alla frutta, all’acqua.
E al sorriso di tutti.
Unica è la stanchezza a fine giornata, come sola è la luna, in mezzo al cielo, piena, gigante, illuminata. Fino al mattino successivo quando la ritrovi là, che splende al primo chiarore che risalta le creste e ingentilisce le stelle.


E giungono le note dell’alzabandiera, che scandiscono il passo della battaglia quotidiana e richiamano al lavoro i volontari.  Ma come dice Marco: “io sono pacifista!”, e sarà la sua sprizzante vitalità a rompere le abitudinarie righe.


Ognuno di noi, restio all’inizio, parteciperà con distanze e motivi diversi a questa elevazione del pezzo di stoffa, che unisce umanità e desiderio, volontà e sentimento: dopo una settimana di scambi e contatti con la popolazione, l’ammainabandiera è partecipata anche da loro.
La tenerezza di Pierino impettito che canta il suo inno; le braccia lungo i fianchi, come fossero distratte, di chi è in attesa della cena; il riaddrizzarsi delle schiene al comando dell’Attenti, tutti segni di una ritrovata ripresa alla vita, o di una nascente cordialità con chi in quel momento garantisce la sussistenza. Senz’altro uno scambio di solidarietà e aggregazione creato da sinceri rapporti umani.

E questo riempie di gioia e infonde coraggio, genera energia vitale per quel moto propulsore a non lasciarsi andare al compatimento, alla pietà, alla rassegnazione da parte di chi vive la tragedia in prima persona: la volontà di N. ad unirsi al nostro lavoro per allargare il suo mondo, e combattere così la paura della solitudine nella tragedia; i consigli della signora Giovanna in una cucina tanto grande e allegra, quanto disperdente, sulla pulizia delle verdure o sulle arti culinarie, per sconfiggere la rassegnazione; le rose di Pierino che abbelliscono il tavolo e rendono felice chi è stato omaggiato; le serate con Anna e Nicola, parole di corsa che sfuggono nell’aria, ma che si ritrovano nei disegni e nella dolcezza di lei, quel suo venire incontro tutte le sere con il sorriso a scavalcare il tavolo come se non ci fosse, solo per venirti ad abbracciare.

Così, solo perché è contenta di vederti.

Per condividere insieme a te l’umanità che porti.


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VOLTI

Ancora non so cosa devo fare: ho una lista di nomi davanti, a fianco dei numeri, e ho appena ultimato di mettere crocette sui pasti consegnati ai paesi esterni – Pagliare, Collefracido, Collemare, Genzano e Poggio S. Maria (Maestra Teresa) -.

Ma il numero dei commensali è molto più alto. Verranno da tutte le frazioni limitrofe, e Sonia tenta di spiegarmi come devo rilevare i pasti, ma sono già confusa alle prime parole, e ho paura di perdermi i primi volti.

La prima volta che mi scorrono davanti il mio sguardo è rivolto e concentrato sui bambini, sono seduta alla loro stessa altezza e mi è più facile contattarli: scoprirò presto la timidezza ostile di Besar, quella molto eloquente di Giulieta, entrambi stranieri e quindi apparentemente riservati, ma solo per poco; lo spalancare degli occhi celesti e silenziosi di Marianna; la dinamicità alla ricerca dei chiodi del piccolo e troppo vivace Antonio; il porgere muto dei tesserini di Azik solo per ricevere in cambio il suo numeretto 1. Cristian poi, adolescente già cresciuto, mi divertirà con il suo modo di fare impertinente.

Ma con il passare del tempo, e in quello scorrere in fila ordinato e lento, la mia mente li seleziona uno ad uno ed impara a conoscerli: la comunità macedone prova gusto a prendermi in giro quando li devo contare, ed io con loro; Pierino richiede sempre lo stesso numero perché lo stropiccia in bocca per avere le mani libere; Carmine può essere secondo solo dietro a Pierino, di cui rispetta la veneranda età, o per cavalleria dopo la signora Giovanna, donna che vuole sempre capire anche quando non c’è nulla da capire.
E così a procedere, Ruggero A., che aspetterà paziente il mio risolvere le lacrime l’ultima sera quando mi saluta, perché solo io posso dargli quel fogliettino di vita; Suor Michela, che ha sempre al seguito un numero variabile di ragazzi da 7 a 11; le due famiglie numerose da 10 componenti, quella ritardataria da 15. E da ultimo, la signora Marinucci, con la sua cesta dei tempi che furono ed il suo numero personalizzato, sempre di corsa e sempre alla chiusura.

E quando metto l’ultima crocetta è comunque sul nome di Anna e Nicola, che giungono spesso separati, ma che vedo andar via nella mia immaginazione mano nella mano, troppo vicini per stare lontani. La loro dolcezza la raccoglierò nel mio bagaglio di vita, così come le storie commoventi di ciascuno di loro, i loro saluti, i loro ringraziamenti: ho seduto a fianco di una perfetta sconosciuta che inesorabilmente mi racconta la sua vita, bilanciata tra la paura di un’altra grande scossa e la sveglia di sua madre, sistemata tutte le notti alle 3,30, per poter essere sveglia nel momento del grande urto.

Altre storie si intrecciano, e altre scosse arrivano, non solo dell’animo; e allora li ritrovi tutti lì, sotto il tendone, in anticipo, a raccontarti come è stato, la loro fierezza nella reazione di quegli attimi, il loro comprensibile spavento per quel tremendo ritorno.
Per ciascuno di loro cerchi parole di conforto, e provi solo ad immaginare, senza riuscire, cosa può essere stato quell’unico, tragico momento a sconvolgere le loro esistenze, così come non sai come sarà dopo il disallestimento del campo.
E per razionalizzare le azioni ti ritrovi a parlare con un rappresentante dei campi esterni, quelle tendopoli dove ci si ritorna a dormire al termine di una giornata di lavoro, o dove le “nonne” trascorrono la giornata in compagnia, cenando insieme per alleviare la lunghezza della giornata.
Sei lieta di condividere con lui l’ammirazione per il gruppo ed il lavoro degli scout, ragazzi dall’entusiasmo e volontà impagabili, che anche al nostro campo hanno reso più semplici diverse giornate affaticanti.
La loro spensieratezza ha permesso il trascorrere delle serate in distrazione per molti abitanti di queste zone martoriate dalla paura e dall’angoscia, aiutando a sollevare gli animi e a concedere un allegro diversivo alle tristi e anguste ore.

E quello che rimane è cancellare dalla mente la disperazione di N., ragazza già provata dalla vita, che trova nella forza della reazione e nell’aiuto del volontariato la capacità di scoprire quel mondo ancora sconosciuto per lei, che mi farà commuovere insieme a lei lungo la strada che da domani guarderà con altri occhi, quelli di una rinascita della speranza e dell’amore verso se stessi e verso nuove conoscenze, a sconfiggere la paura e a provare a ricostruire…..la vita.

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VOLONTARI

Il giorno successivo al cambio di turno settimanale degli Alpini scriverò nel mio diario:
“Veramente queste giornate sono preziose di rapporti umani, di cordialità e fiducia, e tantissimo rispetto”.

Mi viene incontro deciso: “Signora, venga a vedere come abbiamo risolto i volumi!”, ed io di rimando: “Se mi chiami signora non vado da nessuna parte!”, questo il primo scambio con quello che sarà il nuovo capocampo, Mario, figura fino a quel momento a me ignota anche nei compiti, ma che infonde una certa sicurezza sul fatto che le decisioni finali le prende lui. Infatti, mi è sempre sfuggita la finezza del comando, ma da questo istante in poi non è mai stata presente, lasciando ad ognuno di noi la libertà di decidere e scegliere le soluzioni più attinenti alla situazione, anche se sotto il suo velato e celato controllo.

In questo primo giorno di cambio turno quello che salta agli occhi sono altri occhi, quelli del capocuoco, Massimo, un po’ persi e sprovveduti, pur consapevoli della portata del lavoro, ed esperti per questo: alla mia richiesta di divisione dei compiti, proseguendo come già realizzato, il suo sollievo è evidente, guadagnandosi anticipatamente e tutta insieme la stima di molti che lavoreranno intorno e a fianco a lui.
Per imparare il nome di Alis ho impiegato quattro giorni, ma è bastato un attimo per capire che splendida persona fosse;
Giovanni, cuoco (o vice?), dalla calza nera in testa, sarà tanto riservato quanto attivo;
Alessandro, più silenzioso di Giovanni, confesserà solo alla fine la sua saturazione per la friggitrice sua fedele compagna.
Insieme, questo quartetto ha estasiato ogni giorno circa 600 persone con piatti semplici ma gustosi, facendoci per un attimo dimenticare i numeri, e deliziando il nostro e l’altrui palato.

 
Ma la cucina è grande, e le portate diverse, per cui la cottura dei primi è arte separata: Arnaldo, cuoco molto burbero ma sotto la scorza un cuore d’oro, macina chili di pasta riuscendo sempre a fermarsi per tempo; Luciano lo segue fedelissimo, e ha già adottato dalla prima sera Marianna, graziosa bimba bionda del campo, per conto della nipote; Renata, donna infaticabile dentro e fuori i fornelli, - tutti affiancati ad uno dei nostri, Marco, Raffaele o Prassede che sia - hanno moltiplicato chicchi, fusilli, pennette, parmigiano e condimenti, il come lo sanno solo loro!

Però, l’unica cosa che è sempre avanzata è stata il complimento….

Ma non è solo la cucina che ha vissuto, e che senza un cambusiere senz’altro non sopravvive: il braccio e la mente che mi hanno accompagnato in tutti questi giorni sono proprio di Ruggero, alpino schietto e caloroso che mi ha sempre tenuto costantemente aggiornata sulle mancanze o eccedenze dei complicati magazzini, e talvolta delle mie lacrime.

Come ape laboriosa, Iris si posa sul suo stesso e altrui fiore: se non ci fosse stata l’avremmo coltivata ugualmente. Dappertutto con la semplicità e la vitalità di gioventù, ingenuità e freschezza nelle idee, non lesina sulle 5 del mattino per tenerti compagnia, o per gioire di portare via la caffettiera, solo per veder alzarsi bene i suoi compagni, sprizzante nelle idee di  ‘una ne fa e cento ne pensa ’, le realizza poi tutte;
e che dire di Giovannino, detto il Cavaliere dai suoi compagni, che se per sbaglio finisci la frase di un tuo desiderio in sua presenza, questo è già creato con le poche e strane armi che ha a disposizione! Ma da uomo ingegnoso quale è, ti aspetta sempre puntuale all’ora della merenda con i suoi occhialetti tondi e il suo bicchiere in mano!
Lino, Danilo, Peppe con 3 P, è il trio di Valdobbiadene: si recita logistica, ma compiono di tutto, e a tempo perso creano un ricordo favoloso per chiunque approda a questo campo: la casa-tenda- rifugio in miniatura della Madonna delle Nevi, opera d’arte che simbolicamente unisce il presente provvisorio con il futuro di solidità, della popolazione, degli Alpini, dei montanari, la comunione e l’amore  per la montagna nelle due realtà rocciose Dolomiti-Gran Sasso, il confluire dei due fiumi che sfocia nel mare dell’umanità.

Ma ci manca qualcuno con la testa sulle spalle a frenare fantasie culinarie e a correggere le liste, approvvigionando l’intero campo: la precisione e il richiamo di Italo, il caposquadra; la calma serafica di Monica adottata anche nelle situazioni più ingarbugliate; la disponibilità all’ascolto e alla risoluzione sempre pronta di Tamara.
Il tutto a svolgersi sempre e sotto lo sguardo vigile del capocampo, Mario, che oltre a ridurre i volumi di una quintalata di plastica viaggiante, ha aumentato a dismisura le nostre allegre risate nei momenti spensierati.

Il secondo giorno di presenza dei Veneti al Campo scriverò:

“l’affiatamento con il gruppo degli Alpini si fa sempre più forte: da attimi di smarrimento siamo passati ad un’intesa e cordialità notevoli.. ……… ……La cosa più bella di oggi è stata leggere negli occhi di Massimo un momento di gioia che non si creerà più per la spontaneità con la quale è nato: eravamo tutti intorno al lavandino, alternati noi (del CAI) e loro, e cantavamo, tutti insieme, affiatati, chi lavava, chi asciugava, e chi semplicemente cantava. Attimi stupendi. Ed eravamo tanti!”

Quando arrivo al campo, dopo essermi persa tre volte, c’era già qualcuno, chi non ricordo: in quell’intensificarsi di giornata tutto è fuggito nell’angolo della memoria, e forse con l’aiuto di qualcuno lo tirerò fuori.


Fatto è che mi sembra di conoscere Menni da una vita, Massimo G. già lo frequento, e Marco S. è un vecchio amico di adolescenza, anche se ci siamo persi nel corso del tempo. Il giovane del gruppo, oltre a Simone che viene risucchiato in cucina, è Marco C., che si aggira dappertutto con il suo cappellino nominato in testa, portando allegria ovunque.

Saranno giorni molto intensi a capire il meccanismo, a prendere l’iniziativa, a lavorare anche faticosamente, a decidere le soluzioni migliori, e negli spazi vuoti, a raccontarci. E così scopro che Menni, pur vivendo lontana da me, frequenta amicizie comuni; il continuo scambio con Marco giovane ci riporta indietro nel tempo, ma lui non si tira mai indietro, e le chiacchiere dei ragazzi riescono a far fare le ore piccole persino a Marco S. parlottando del più e del meno fino a notte fonda.

Ma al mattino, tutti in piedi più puntuali dell’alzabandiera, ciascuno nei propri ruoli assegnati da noi stessi, in un ‘armonia di intenti che rasenta la massima collaborazione, quell’affiatamento che ci porterà l’ultima sera a condividere una splendida serata di canti e festeggiamenti con l’ultimo cambio alpino veneto già insediato.

Per la prima volta sono senza parole per descrivere lo scorrere e il vivere dei nostri rapporti in quei momenti: è qualcosa che lega più della necessità o del semplice fare; è come se ognuno di noi, nel sapere cosa fare migliora l‘altro a dare, ed in questa piccola catena di generosità involontaria ognuno si appaga del proprio agire.
L’arrivo di Raffaele, che scoprirò con gioia, solo alla fine però, già conoscere per aver viaggiato insieme una quindicina di anni fa, Massimo A., Bruno, Miriam, Francesco, hanno solo consolidato al meglio questo rapporto di intesa e armonia, permettendoci di realizzare, anche con il gruppo degli Alpini, uno splendido legame che va oltre il solidale pensiero.
Per questo Bruno ed io siamo rimasti oltre il consueto cambio.


Ovviamente non mancano le perplessità sull’intero meccanismo del volontariato, dell’organizzazione, dell’insieme verso il futuro, le analisi sulla realtà che si sta vivendo e su quanto questo meccanismo possa incidere a livello globale come aiuto umanitario. Ma qualunque considerazione possiamo aver intrapreso, nulla è stato tolto allo spirito di cordialità e solidarietà,  accresciuto e coeso anche in alcuni momenti critici.

E se sotto l’aspetto organizzativo complessivo qualche critica ed osservazione sarà d’obbligo segnalare, sotto il profilo umano l’esperienza è irripetibile, unita anche e soprattutto alla realtà della popolazione locale: nessuno di noi resterà indietro ad instaurare rapporti, anche semplici e fugaci, con gli abitanti del luogo, favorendo così quello sgorgare di lacrime e commozione che ci hanno accompagnato al momento dei saluti.
Così come nessuno deve ringraziare l’altro di essere come lui, perché è proprio in questi momenti che è importante essere.


E tutti noi, alpini, montanari, gente comune, lo siamo stati fino in fondo.

Volontaria al Campo di Sassa Scalo,  4-14 Agosto 2009

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