“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Castore 2009

Storia di un racconto non scritto


Quando arrivi alla stazione c’è sempre un treno che non ha binario,
ed è sempre il mio.

Guardo con sconcerto il tabellone delle partenze, dopo una mattinata affogata di corse, ed eccolo là, bello rosso, in evidenza.
Porta mezz’ora di ritardo. Il tempo di chiamare chi mi attende, e si è già trasformata in un’ora.
Senza binario.

Stazione: gente di passaggio, personaggi stranieri, carichi, scocciati, perplessi, smarriti, ridenti, allegri. Strani. Un ragazzo dal capello lungo ha una visibile fontanella in testa, cuffie rosse, ciabattine infradito, e parla inesorabilmente da solo; un signore mi chiede una penna e mi ammira perché attendo al sole, e mi vuole offrire da bere; la fila al cambio treno, da minima, è diventata un serpentone, e adesso occupa tutto lo spiazzo di passaggio; ed io là, sotto il cocente sole, comodamente scrivo, e osservo, e aspetto inesorabilmente un magico numero a fianco al mio treno.

Si avvererà il sogno?

Finalmente appare, e il treno parte, con due ore di ritardo, verso il cielo.



Ho cominciato il mio viaggio verso il vertice: il titolo avrebbe dovuto essere  IL VUOTO SOPRA LA TESTA, riprendendo un concetto di Maurice Herzog espresso inAnnapurna. I primi 8000’, dove oltre il cielo c’è l’abisso del vuoto.



I sentieri degli dei sono verticali. La verticale è una linea che tende al vertice. Gli dei la percorrono per ritornare a casa. “ (In su e in sé Alpinismo e ps icologia – Saglio G., Zola C .)

Pinnacoli che svettano nel blu dell’aria, e sopra di loro la pienezza dell’altezza, ciascuna colma del proprio spazio d’intorno, a tessere verticali linee verso l’infinito. Posizione eretta, salita, un continuo districarsi tra sassi instabili, il piede a calpestare la via con la forza del corpo e la leggerezza del cervello, dentro quel mondo in bilico, sbrilluccicante della pietra più dura, più scura, oltremodo piatta.


Il peso dello zaino conferma il tuo essere nell’aria rarefatta, ti guardi attorno e sei circondata da miriadi di arzigogoli della neve, che, spessa, si appoggia come una colata su questa terra rocciosa. Sembra magma che avvolge la montagna, ne insegue i contorni, permea negli avvallamenti, li riempie e si crepa, cambiando colore, si taglia e si stratifica.




Laghetti cristallini di verde smeraldo specchiano l’intensità della volta celeste e interrompono la monotonia del suolo, circondati da chiazze di neve che ne esaltano il lume e i riflessi. Il cammino ti mette alla prova, il terreno instabile e mobile si assottiglia, fino a che parte dello scarpone rimane nel vuoto, costringendoti continuamente a ritrovare l’equilibrio, quello della verticalità prima, e dell’intelletto subito dopo. In questa altalena di armonie bilanciate i precipizi ti affiancano nello sguardo, la mano salda afferra gli ancoraggi per elevarti fino alla meraviglia.

L’ultimo pesante respiro corona lo sforzo, divenuto più che un sussurro a mescolarsi con la brezza della quota.

E il Gemello appare all’improvviso nel candore dell’intorno:


Le luci della sera avvolgono i ricoveri montani; il chiarore del mattino anticipa le luci artificiali e del cuore; il passo scricchiolante dei denti d’acciaio canta a mordere la neve, la linea elegante di salita si snoda tra le grigie e articolate spaccature della terra.

Un lungo traverso accompagna una catena infinita di corpi e intenzioni, legate tra loro da metri di corda ad avanzare tra speranze e certezze, interrotte solo da un flebile fruscio del fiato che si mescola alla voce del vento, accompagnandolo in armonia fino alla lunga terrazza sospesa nei verticali spazi vertiginosi della cresta.

Le ombre si allungano con i raggi del sole nascente e la luce penetra tra le rocce, nelle nebbie, negli spazi delle bianche molecole, sino a riflettere del candore e del panorama, ad illuminare la via di salita e il tuo passo traverso.
Intrecci di corde, lame che si toccano, cortesie di passaggi, fino a giungere a quel massimo rilievo che rende vuoto lo spazio sopra la testa, e sei nell’abbraccio dei compagni, a salutare l’inizio di questa splendida giornata, e a spaziare, a giro di corpo, verticalità e orizzonti, vertigine ed incommensurabilità…….


…Ma io scrivo solo quello che provo, e l’oscuro mal di montagna ha fatto sì che il mio corpo conoscesse un’altra realtà, e quindi un altro racconto, quello

DEL VUOTO DENTRO LA TESTA, ovvero  La vera storia di Anna sul Castore.


Già dai primi passi sento i muscoli che non si legano con il resto del corpo, lo zaino insiste sui fianchi, ma è come un macigno che accentua la gravità. Cerco di distrarmi, ma il mio pensiero è vuoto, nessun racconto mi aiuta nello sforzo della salita, nessuna rincorsa di parole mi distoglie da questa pesantezza. Neanche il panorama d’intorno mi solleva, non riesce ad ispirare un seppur minimo aggancio al quale affidarmi, per lasciare trascinare lettere e concetti più veloci del mio passo e ad estraniarmi dall’immensa fatica che sto provando.

Le fibre dei tendini, per anni silenziose, oggi si manifestano in tutta la loro quantità; il fiato che costantemente è un sussurro oggi esplode all’esterno dei polmoni, creando un orribile frastuono dentro la testa, che rimane piena solo delle sue schizzanti e impazzite molecole.

La linea di salita è perennemente nascosta dai massi grandi e piccoli, ma sicuramente instabili che compongono la via; ringrazio R. che ci anticipa nella neve, ad evitare continui aggiustamenti di equilibrio dei nostri corpi un po’ caracollanti. La via si traduce in lama, e lo scarpone, rigido e insensibile, mi rende barcollante come una principiante, costantemente attaccata ad un grosso canapone, dal quale in tempi più lucidi mi sarei abbondantemente tenuta lontana.

Ma oggi posso salire solo così, contando i metri, tirando fuori l’aria, guardando solo il colore degli scarponi, afferrando quel nastro salvatore. Il grosso omino in pietra è il mio obiettivo per la fine di un incubo.



Seduta con la schiena allo stipite della porta, non sento l’andirivieni dei 100 aspiranti la cima; tutto si attutisce e perdo conoscenza con il mondo reale. Realizzo che le mie forze mi consentiranno solo la posizione orizzontale, ed un freddo intenso penetra nella mia pelle.

Anni di scarpinate mi hanno sempre visto saltellare e girovagare ai punti di arrivo, mai ferma con il corpo, mai lo sguardo riposato in un punto: tutto viene inglobato della delizia del cervello, a ricompensare della stanchezza e difficoltà.
Oggi il mio solo pensiero è affrontare quei 10 gradini che mi separano dall’oscurità degli sguardi e dalla pienezza delle voci. Il mio corpo, a sua difesa, tirerà fuori tutto ciò che gli è estraneo e pericoloso.

Il giorno successivo, mancando per la prima volta l’appuntamento con l’alba, non sarò sola a catturare con il calore dell’occhio vie e nuvole, pendii scoscesamene ripidi e tutte le cime più alte del nostro Paese.



Ancora la discesa mi rende impacciata, convincendo R. della mia insicurezza montanara, ma lascio che questa convinzione prevalga sugli anni di esperienza, e sul mio amor proprio! Non ho neanche più la forza di difendere il mio vissuto alpino.

Ma il mio più grande rammarico non è quello di non essere arrivata in cima, è di non averla condivisa con loro, i miei amici.

Quando arrivi alla stazione c’è sempre un treno che non ha binario, ma oggi il mio ce l’ha.

Solo che non ha la mia carrozza….





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