“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Cortina


Il secondo ramo - calpestando la terra
Racconti montanari
CORTINA - Rif. Dibona
 ESTATE 2006



ARMONIE DI PANORAMI, ovvero,
SINFONIE MONTANE

La melodia sinfonica di Egidio accompagna i miei occhi a scrutare nel buio.
Dopo la giornata di sole e stanchezza il giusto riposo tarda ad arrivare, forse per la mia incapacità di rilassarmi, forse perchè sono troppo concentrata su quel suono troppo costante e persistente, tanto da spazientirmi e sfrattarmi dal giaciglio. Finirò la notte, ed il proseguo dei giorni, ad allietare il gineceo, silenzioso almeno per questa notte.

Siamo partiti da Roma, contenti di abbandonare la canicola che da giorni serra la città.
L’alba della partenza ci fa attendere i componenti dell’impresa: un’intera settimana in compagnia dei monti, dei panorami, dei silenzi, della socialità da vivere al Rifugio Dibona, nel cuore delle Dolomiti ampezzane.

E dopo un lungo viaggio la bontà della cucina locale non si fa attendere, e ci prepara alla lunga camminata del giorno dopo: da Passo Giau alla cima dei Lastoì del Formin.
Contemplate dal Rifugio, la bellezza di queste montagne esplode nella limpidezza dei suoi panorami: di fronte erge la Croda da Lago, che porge i suoi fianchi allo sghembo pianoro dei Lastoni, laddove il sole del pomeriggio catturato converge sulle sue creste, ad illuminare la variegata ed affilata propensione verso l’alto delle sue punte.
Accompagnando lo sguardo ad est, il massiccio del Sorapìss aspetta che la sua circonferenza si renda libera alla contemplazione; ma invano! una nuvola dispettosa l’accompagna in ogni momento della giornata, ora esile, ora più cospicua, fino a lasciar trapelare solo gli acumi della sua regale corona.

A degradare nella valle, gli scivoli dell’Antelao sembrano invitarti gentilmente alla loro scoperta. Ma le lastre rocciose si intuiscono più impervie del suo gesto cavalleresco, ed il tuo sguardo le abbandona, per concentrarsi sull’immensa parete alle spalle del Rifugio: la maestosa ed incombente Tofana di Rozes. Le pieghe più o meno profonde di questo verticale deposito calcareo sono state solcate da innumerevoli cordate, ogni giorno, alla ricerca della competizione, della prova, della resistenza, del divertimento, dell’inquietudine, della sconfitta, della caparbietà, della classe, dell’...... , ed ancora oggi attirano i molteplici conquistatori della sua linea.
Le luci notturne dei rifugi a sud-ovest lasciano intuire l’allegria quotidiana dei loro avventori, ospiti delle montagne su cui insistono: l’Averau, il Nuvolau, l’eleganza e la portanza delle Cinque Torri.

Ed ancora a nord, l’affilato profilo di Punta Anna, ferrata impegnativa e di richiamo da ogni parte del mondo, incanta lo sguardo e la volontà, fino a farti credere di poter solcare il suo camminamento con la sola naturalità dell’attrazione. Ma di molto più ingannevole è la realtà, verificata anche dai nostri amici pochi giorni più tardi.
Poco sotto, il sentiero attrezzato Astaldi accompagna le sinuosità del suo percorso con i colori grigio, verde, rosso, bronzeo, ramato, castano, dorato delle sue terre, interrotto solo da una cascata d’acqua, come a tirar via le impurità di quel terreno effimero e a rinsaldarne le particelle per poter essere attraversato.

Ed ogni sera la sinfonia di queste cime è armoniosamente esaltante: la luce radente, la pioggia purificatrice, la neve splendente intonano un concerto di colori, di nitidezza e candore che accompagnano il tuo sonno fino a sostituire interamente la melodiosa musica creata dall’ amico.

Alessandro, Stefano e Cristina sono stati accompagnati nell’impresa dai seguenti escursionisti intraprendenti: Flavia, Egidio, Cecilia, Moshen, Pina, Sandro, Antonella, Federico, Anna B., Lorenzo, Bruno, Roberta, Solidea, Federica, i due ciclisti-escursionisti Luciano e Sergio,
e, ovviamente,
l’inchiostro di
Derspina.



DIASPORE

Lastoni del Formin, Tofana di Rozes, .....


La levata di Alessandro è inesorabile: “alle 7.00 colazione”.
‘ Insomma, a che ora dobbiamo essere pronti?’ rispondi tu, e alle 6.20 maledici la sua sveglia implacabile che trapassa i muri.

Ma nella stanza sono già tutti agitati dalle prime luci: scricchiolii di buste, moschettoni, caschi, denti, sbadigli, corse, incontri al bagno, scale, caffè, latte. Sbirci in fondo al tavolo: di che umore è Federico? che ci dice il tempo? cosa facciamo oggi?...

Un susseguirsi di domande, ma mute sono le risposte, che talvolta riescono a scaldare anche gli animi più chèti. Quelli inquieti ci faranno aspettare la cena, alle sette e mezza spaccate si alza un notes con il menù e la penna :‘il piatto del giorno è...’. Ma l’elenco settimanale è sempre quello, e si assaggerà tutto. I nostri decani approfittano dello sprint ciclistico e montanaro per assaporare i piatti della carta; Egidio non pago, tenta di saltare la cena ogni sera macinando chilometri per andare ..... a dare uno sguardo al Rifugio Giussani. L’andirivieni di aderenti fa sì che ogni sera i commensali siano un numero variabile e variegato, mai lo stesso; tuttavia, l’organizzazione ferrea di penna e taccuino non dà spazio all’anarchia, e costantemente a fine pasto ognuno recita il suo rosario dissetante: vino, birra, coca cola.

La prima diaspora di Anna B. dopo due giorni è sostituita con i nuovi arrivi : due moto, un bucolico Lorenzo, altre donne, e ......Bruno!

Il primo giorno è quello di prova: tutti pronti all’orario stabilito, deposito macchine perfetto, la giornata, non particolarmente serena, rincuora ugualmente gli animi: il lungo traverso consente di conoscerci un poco, il gruppo rimane quasi unito: i più veloci danno uno sguardo alla sella, si pranza prima della cima, sotto l’ala della Croda da Lago. Anche Anna B. proseguirà, dando prova di sportività montanara, in una giornata che al termine sarà comunque stancante: il sentiero in discesa accoglie la competizione podistica tra Egidio e Federico, si snoda lungo i massi di un torrente asciutto, confondendo più volte i meno esperti, ma non di meno volenterosi e caparbi; i più distratti lasceranno un segno dopo il recupero macchine.

A letto presto, domani, se è bello, la Tofana di Rozes ci attende, con i suoi 3225 metri di elegante ma frammentata altitudine. Altra prova per i dilettanti, superata egregiamente con applauso caloroso in cima, tutto per Antonella ed il suo primo 3000, in un continuo di esortazione ed attenzioni, di cui anche gli stranieri pellegrini gioiscono (simpatia italiana o socievolezza del gruppo?). In discesa i due rami umani si ricongiungeranno più volte fino al Rifugio Giussani, lasciando solo alla pioggia la diaspora: “Sta iniziando a piovere, io scendo”, le voci di Flavia e Bruno si confondono con le gocce. E tu spalanchi gli occhi e ridi, sorpresa di tanta incongruenza.

Ma i meno esperti insistono, nel regno delle ferrate vogliono assaporare la montagna in modo diverso, però la giornata nasce sotto la pioggia ed il primo abbandono ritarda le partenze.

E’ un susseguirsi di decisioni e discussioni, lacrime e compromessi, culminate nella mia separazione dal gruppo: loro ad inseguire l’acqua delle metalliche cascate di Fanes, io a scoprire sotto l’acqua le trasparenti cascate alla Dogana Vecchia.

Ma ancora non è tempo di unioni, il ricongiungimento serale con i nuovi arrivati è talmente breve, che già dalle prime luci del mattino successivo si è pronti per una nuova separazione: Stefano, Flavia, Bruno e le ultime gitanti viaggiano alla volta del Rifugio Vandelli, premiati dalle acque cristalline color giada del suo laghetto glaciale; gran parte del gruppo con Cristina e Alessandro in testa porrà finalmente fine all’impazienza dei moschettoni, agganciando corde, cordini e materiale all’acciaio delle ferrate dell’Averau, del Nuvolau, della Gusela, in un appagamento alpinistico che ricarica di energia le stanche membra, messe a dura prova dal tempo ballerino.

Lorenzo ed io, in un incrocio di occhi da Cip e Ciop, a cercare e trovare il silenzio delle montagne, laddove la regale corona di sua Maestà Sorapìss adagia le sue punte, difesa dalle inaccessibili pareti dei Tonde. L’incredulo Lorenzo, rammaricato di non poter scavallare l’intransitabile Valico, mi conduce laddove il mio infallibile orientamento lascia il posto alla labile sicurezza. La delicata salita alla Forcella della Ponta Nera impegna ancora le menti e lo sguardo verso tanta bellezza montana.

Ma la pioggia non dà tregua, si mescola agli intrepidi escursionisti e al loro riposo, regalando la mattina più uggiosa della settimana. Ma non è ancora l’apice: in quel giorno i più arditi tenteranno un cambio valle, nella speranza di racimolare uno squarcio di cielo. Invano! L’acqua consentirà loro solo di unirsi con l’ombrello alle agitate acque del Lago di Braies.

La sera ci coglie a vagare sui sentieri adiacenti il rifugio, in un caleidoscopio di colori e di contrasti, di ruscelli e nebbie, nulla lasciando presagire del candore che scenderà il dì successivo.

Fiocchi pesanti, leggeri, misti, puri, indecisi, sovrapponenti ed infine stanchi, si posano su ogni dove, mutando in poche ore il paesaggio circostante.

Rassegnati, con il libro in mano, il naso incollato al vetro, attendiamo la schiarita, fiduciosi di ottenere almeno una giornata senza acqua. E così sarà. Le solite decisioni del minuto, si parte alla volta del Rifugio Lagazuoi, chi a meditare nelle buie gallerie del passato, chi a ritrovare i percorsi vissuti, chi a fare a gara con il proprio corpo ed un gruppo di vicentini, nella speranza di vincere una sfida soddisfacente solo a se stesso. Non sono le intemperie che fermeranno la compagnia, forse la cengia, resa a tratti scivolosa dalla neve, o forse la montagna che ha stuzzicato troppo l’animo inquieto di chi cerca pace nella solitudine dei suoi imbiancati sentieri.

I progetti per il giorno dopo si sussurrano, in una sorta di scaramanzia legata ai capricci di un tempo biricchino. La scissione è inevitabile: ancora un agganciare continuo di moschettoni ai cordini, il controllo dei caschi e dell’imbraco, si va, non si va, di qua, di là.

I più esperti decidono l’appagamento sull’imbiancata Punta Anna, in una prima estiva-invernale unica del suo esistere; coraggiosi scalatori affrontano con entusiasmo Punta Fiames, cima di poco elevata, ma di spettacolare bellezza panoramica, ferrata dall’appiglio giusto al momento giusto, talmente godibile in tutto il suo sviluppo da perforare la telecamera di Moshen ed attrarlo verso il vuoto, sotto le grida di incitamento di Pina e la consapevolezza alpinistica di Lorenzo, così sicura e marcata da accompagnarla nello stesso giorno ad intraprendere l’altrettanto panoramica ferrata del Col Rosà. E l’incontro è sotto la cima con la furente Cecilia, che dalla rabbia ha risalito, quasi senza accorgersene, il rognoso Gravone di Pomagagnon - scosceso ghiaione ormai privo di sassi - lasciando sbalordito chiunque contemporaneamente lo affrontava in discesa; il mio abbraccio con Sandro ed Antonella per l’impresa arrampicatoria abbandonata da anni e lì ritrovata, il ricongiungimento con il sofferente Federico, espiante l’impresa competitiva del giorno prima.

Stanchi, soddisfatti, dormienti, finalmente uniti intorno ad un tavolo a vedere volare la penna sul taccuino, le mani sui calcoli, le cifre che scappano, i soldi che passano.

Ma la storia è scritta ed il gioco dei numeri quadra, e se i conti non tornano.......

dalla vostra temporaneamente ampezzana
ma costantemente montanara,
Derspina


IL SENTIERO DEI CAMOSCI

Sentiero dalla Dogana Vecchia verso il Bivacco Slataper

 
Un albero spezzato manifesta tutta la sua freschezza arancione, il cuore del suo legno vivo che ancora non muore. I resti dei rami vicino raccontano del fulmine che lo ha colpito, ma l’albero non è isolato. Nella sua unicità è accompagnato da tanti pini che come lui cercano di sopravvivere alle pendici del massiccio Sorapìss.
La nebbia avvolge il paesaggio, regalando l’atmosfera da favola: vapore acqueo che permea ogni angolo dei verdi germogli; il caldo e la pioggia penetrano ormai da tempo nel mio corpo, i funghi emergono dal terreno ad ostacolare il mio cammino.

Sto solcando una vecchia sterrata ormai ricoperta di vegetazione, che, dolcemente, mi sta portando alle falde rocciose della montagna.

Terminata la strada, improvvisamente il sentiero si fa a tratti molto scosceso.
Ora sono su ghiaie, le ragnatele lungo il percorso mi avviluppano, imprigionandomi nella seta bianca: sono l’unico pellegrino a percorrere questo tratto, circondata da alberi alti, terminanti a pennacchio, scortecciati e resi arancioni dal passare del tempo.

Mentre l’acqua incessantemente scende, il sentiero si stringe, ed intanto che riprendo fiato, scorgo un movimento davanti a me: la schiena di un camoscio mi induce sorpresa a rimanere immobile, senza risultato. Il tempo di guardarci negli occhi ed è già sparito.

La pioggia non lascia tregua, decido comunque di continuare dopo una breve pausa; ed ecco che i giochi di questa nebbia inconsistente fanno sì che lo spettacolo che mi si apre davanti sia grandioso: un unico colpo d’occhio cattura la strada delle saette, disegnata da sghembi rami di pini isolati ed emergenti dalla vegetazione sottostante, sullo sfondo svetta tra le nuvole e la nebbia la maestosità della cima della Tofana di Rozes, e di fronte a lei si delineano i contorni delle Cinque Torri, aleggianti nel candore di quell’immenso vapor acqueo.

Volgo lo sguardo alla montagna, laddove credo ci sia il passaggio verso le cenge.

Un cuneo enorme e gigantesco di roccia staccata è adagiato alla parete: è impressionante, il mio cuore sobbalza ed io sono proprio sulla sua linea di distacco. Avanzo con cautela, su quel terreno fatto ormai solo di ghiaie e massi appoggiati che impediscono la speditezza della camminata.

Ho la certezza di avere perso il sentiero originario, poichè davanti mi si apre uno spettacolo agghiacciante: blocchi giganteschi di sassi e sfasciumi accompagnano il mio sguardo, mentre l’adrenalina rende viva ogni fibra del mio corpo.
Il muro di roccia, oltre gli sfasciumi, è compatto: non è quella la via, ma le mie gambe si rifiutano di camminare, rapite ed intrappolate da tanta inconsistenza, mentre al contempo lacrime di bellezza escono dai miei occhi, rassegnate a lasciare un segno del mio passaggio e della mia delusione. Lo spettacolo ed il gioco di nebbie continua, e per lunghi istanti rimango bloccata e affascinata da tanta forza ed evanescenza.

Il gioco dei bianchi contrasti non è finito, ma decido di scendere. E mentre mi lascio andare sulle ghiaie di quel mobile e detritico terreno ancora una volta ho la certezza che anche quella strada di rientro non è la stessa dell’andata.

Ma la curiosità scendendo mi conduce laddove non ero riuscita prima, ed un rumore assordante e vicino mi spinge ad andare a verificarne l’origine.
Ed ancora una volta rimango senza fiato: una cascata d’acqua sgorga e precipita nei massi sottostanti, un segno bianco-rosso, inequivocabile, splende sulla roccia: alzo lo sguardo e rido, ma come rido!, divertita.

Sono eccitata di aver ritrovato la strada persa.......ma questa è un’altra storia.



CASCATE

Riprendo in discesa la strada ghiaiosa, lentamente e un pò rammaricata di essere stata bloccata da quella massa di roccia instabile, di cunei appoggiati, di sassi acuminati, di blocchi giganteschi.
Il cielo a tratti regala i contorni delle montagne, volgo ancora lo sguardo indietro e “sento” i chili di roccia incombenti, enormi, bagnati.

Da pochi istanti ha smesso di tirare giù acqua dal cielo: la cascata di pioggia mi ha allietato la salita, mescolandosi con il vapore acqueo delle nebbie e donando al bosco un incanto ineguagliabile. Leggo il terreno per capire e ricordare la via di salita, ma non insisto molto con la memoria, perchè da dove sono, qualunque strada percorro raggiungo comunque la civiltà.

E sebbene mi voglia perdere ancora su quei sentieri selvaggi, all’improvviso mi ritrovo sulla strada inerbita percorsa in salita e, nell’attimo di indecisione necessario per capire il verso di percorrenza, l’istinto mi guida ancora una volta in alto: in fondo è ancora presto e ancora non sono sazia di aria pura.

Proseguo, e inaspettatamente i miei occhi sbalordiscono, e poi splendono, e dal profondo di me parte una grande e gioiosa risata: una stupefacente cascata d’acqua si sviluppa copiosa ai lati della montagna. Il segnale bianco-rosso indica il sentiero 241 e la sua variante facile, e scopro di essere contentissima di potermi ancora lanciare alla scoperta di questo sconosciuto e selvaggio itinerario.

La mattina, giust’appunto, avevo rifiutato la compagnia di chi comunque avrebbe affrontato un’altra cascata, stavolta mista a ferro: la ferrata alla cascata di Fanes, per cimentare l’animo e cementare il corpo ad imprese più ardite.


E così insisto nel mio peregrinare, in salita, sotto le rocce, a svicolare sassi in bilico e a tirarmi su, verso gli omini di pietra ed il cielo. E come pochi istanti prima, sbucano dalle veloci nuvole le linee eleganti del Pelmo, in lontananza quelle della Tofana e delle Cinque Torri. Lo sguardo è combattuto tra l’ inseguire avanti il verde delle cenge, frammisto all’arancione delle rocce sovrastanti ed il nero dei blocchi accumulati e giacenti sotto le pareti, o a volgersi indietro, a rincorrere il movimento rapido della massa bianca che di scatto si solleva, e poi stanca si riposa sui rilievi del paesaggio, o molto affaticata non si muove dalle pendici dei monti.

Il sentiero è ripido ma scorrevole, e finalmente si apre in traverso, a manifestare le tracce dell’evidente cengia. Escrementi di animali mi segnalano la presenza di specie selvagge e rustiche, popolanti quel tratto di montagna: in un grande anfratto, è evidente il giaciglio di questi ungulati animali, camosci, stambecchi, cervi. Buchi alle pareti della grande grotta lasciano intuire la sua popolazione al crepuscolo: tane di pipistrello costellano il muro.
E lì, fissandole, riprendo fiato.

Uno sguardo più in là, e già assaporo la lunga camminata che traversando mi porta in quota verso la ferrata Berti, e più su, al Bivacco Slataper.

E anche se con rammarico volgo i miei passi verso il rientro, sono contenta di ritrovare un motivo di ripetizione e risposta al richiamo di queste montagne, così da tutti frequentate a valle ma da pochi conosciute e calpestate a monte.

Avrò ancora modo di ridere, stavolta dentro di me, quando, ormai giunta alla macchina, un gentilissimo e premuroso poliziotto, notando il mio casco, mi avverte di stare attenta perchè il sentiero che ho appena fatto è poco frequentato e sconsigliato, poichè soggetto a facili ed improvvise cascate ...di sassi! Non me ne ero accorta!


la vostra Derspina, cascata nelle nuvole

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