“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Difficile narrazione

Rami spezzati: la nostra dolorosa passione
riflessioni sulla montagna, gli amici scomparsi 


DIFFICILE NARRAZIONE


PERCHE’ E’ COSI’ DIFFICILE RACCONTARE LA MONTAGNA?

Ho appena chiuso un libro “freddo”, e non perchè racconta di una gelida salita al Nanga Parbat, e neanche perchè descrive la morte di un fratello, o ancora perchè con esso si vuole urlare al mondo la risoluzione di un senso di colpa vissuto per trent’anni, in aggiunta a fatti, antefatti, cronistoria di un’ascensione alta 8125 metri sopra il tetto del mondo, nel tentativo di un doloroso riscatto alpinistico e storico.
La Montagna nuda, il passaggio sulla Regina delle Montagne avrà suscitato qualche emozione, sentimento, sensazione. Giorni e giorni in mezzo al glaciale paesaggio, sotto e sopra chilometri di neve, ghiaccio, pericolo, strapiombo, roccia, illusione, speranza, desiderio, aspettativa, paura, competizione, appagamento.
E la freddezza di questo libro è sconvolgente. L’ ho riletto perchè la prima volta credevo di essermi persa qualcosa; alla luce del mio piacere scrivere, forse oggi potevo apprezzare quanto di più bello pensavo potesse essere scritto, oltre che “raccontato” con le foto, sopra e dentro il tetto del mondo.
Ma la delusione è grande: pagina dopo pagina, riga dopo riga non sono riuscita a trovare che arido racconto, l’esposizione più cruda di fatti che all’epoca comunque dovevano ispirare qualcosa. Perchè erano gli anni ’70, gli anni della conquista montanara e alpinistica internazionale, gli anni del nazionalismo italiano e straniero,  la conquista, l’impresa collettiva, le spedizioni, le commemorazioni di coloro che perduti e caduti in montagna resuscitavano attraverso analoghe imprese alpinistiche, la sfida, la galanteria, il romanticismo, il riscatto patriottico nel collettivo. Più semplicemente la  manifestazione al mondo di quei paesaggi spettacolari, di quelle realtà sconvolgenti, pure, terribili e terrificanti, grandiose, maestose, straordinarie, al di sopra delle nuvole e delle nostre menti, la visione di un mondo sopra il quale non c’è nulla, se non te stesso.
Da qui la mia ricerca, la mia insaziabile sete di sapere, di capire, di essere trasportata laddove non giungerò mai, se non con gli occhi di un altro, con le parole e la capacità di chi può descrivere, scalare, portarti nella tasca dello zaino, a pestare scricchiolando il ghiaccio sotto i piedi, a toccare la roccia pungente, tagliente, scivolosa, a interpretare vie, a maledire il freddo, a sentire i ‘chiodi’ nei polmoni, a rimbombare le parole nello spazio immenso, a trovare la pace nel tumulto dei tuoi pensieri, a godere di un’alba che illumina tutte le cime della Terra, di un tramonto che non ha eguali, se non in qualche parte del mondo a te sconosciuta, di gelo intenso, di follia acuta, di noia, di gioia, di pacatezza, di amore.

E questo è quello che ho trovato, in 10 anni di riviste alpine, al di là dei notiziari e racconti giornalieri:

Da un’intervista di Oriana Pecchio a Conrad Anker, specialista di big wall e scopritore del corpo di Mallory:
“Quali sensazioni hai provato in quel momento?”
me ne stavo seduto accanto al corpo di Mallory, ad alcuni minuti di distanza dai miei compagni e ho capito quanto fosse grande lo sforzo che avevano fatto quegli uomini ad arrivare fin lì, anche paragonando l’attrezzatura che abbiamo adesso a disposizione. ....E’ molto difficile provare sentimenti profondi a 8200 metri, ci si sente come quando si è bevuto troppo champagne..’

Da un’intervista di Roberto Mantovani a Marco Bianchi, alpinista che racconta la sua salita al K2:
.. al tuo arrivo in vetta”..   
Quando Christian Kuntner, Krzysztof Wielicki e io siamo arrivati in cima, l’orologio segnava le 20.18, ora pachistana. Ormai era buio e abbiamo scattato le foto con il flash di fronte al treppiede lasciato dai Ragni di Lecco. Peccato, perchè al panorama sul Karakorum tenevo molto..... e invece niente. Era come essere in una stanza buia: non si vedeva niente.’
“ Peccato, ma attraversando il Sinkiang avrete visto paesaggi spettacolari. Per esempio, come ti è sembrata la valle di Shaksgam?”
‘ Quello è un mondo a sè, selvaggio, lunare, deserto. E mi è piaciuto molto....’

Tutto qui salire oltre 8000 metri?

Roberto Mantovani, nel marzo del 1997, lamentava in un suo editoriale la difficoltà di reperire le informazioni alpinistiche nazionali ed internazionali, sia di conoscenza dei percorsi, sia di interviste ai big, sia dei silenzi talvolta ‘politici’, che comunque lasciano trapelare il non detto, concludendo con alcune riflessioni sulla correttezza delle notizie reperite.


Ma non è questo che mi è saltato agli occhi.


Sullo stesso giornale, lupus in fabula, un articolo di Reinhold Messner mette a confronto i tre B...ig dell’alpinismo: Bonatti, Bonington, Bubendorfer. Non entro nel merito dell’articolo (La riv. della Montagna, n. 198/1997), ma il grande alpinista esordisce così: ” L’immagine che noi alpinisti diamo delle montagne corrisponde sempre meno alle montagne stesse. Negli ultimi cinquant’anni la nostra capacità di descrizione è scaduta progressivamente a una serie di numeri. Come se le esperienze, le sensazioni e i nuovi processi cognitivi fossero esprimibili solo attraverso la matematica. ..”  E via discorrendo.

Termino qui questa elugubrazione, senza nulla togliere alle fortissime capacità dell’alpinista; rispetto il suo dolore fraterno ed il suo desiderio di riscatto verso quel mondo che all’epoca ha frainteso le sue incomparabili doti alpinistiche, ma se posso esprimere un commento da esordiente “scrittrice”,  La Montagna nuda, di R. Messner, insieme a Parete Nord e Sette anni in Tibet di H. Harrer, trova posto nella mia libreria solo tra i fatti di cronaca.

 “Io mi rizzai a sedere e vidi là in fondo all’orizzonte una straordinaria visione. In quella luce di una trasparenza quasi siderale, raccolta in una scena d’intensa e precisa bellezza, un gruppo di montagne appariva, stagliato sul cielo come una città di leggenda. Non avevo mai veduto nulla di simile. I monti rocciosi e nevati, vestiti alle falde di un azzurro immateriale, di un religioso azzurro, scolpivano, incidevano i loro picchi nell’oro dell’alba con sì veemente nititezza che si sarebbe detto facesser parte della sua divina essenza. Sopra, il cielo veniva disfumando in un tenerissimo cilestro, dove vedevamo morire le stelle. Il vento, che aveva deterso l’atmosfera con furore quasi maniaco per tutta la notte, faceva adesso rivivere quel paesaggio con tale arcana vivezza a gagliardìa di linee e di toni, da recare quasi dolore agli occhi. Pareva passasse in noi stessi l’angosciosa tensione da cui l’aria era posseduta. E ce ne restammo là tutt’e due, silenziosi, sopraffatti dall’emozione.” 

Siamo sul tetto del mondo? no!, nell’Alto Làrio, sulle Alpi Centrali.

Nicolò Berzi scrive, al ritrovamento e traduzione di un diario inglese sull’ascensione a Huascaran(6768 m), in Perù: Ho sentito una punta di invidia per l’ignoto anglosassone capace di raccontare i suoi sentimenti, anche se immagino che sotto l’atteggiamento rude e la facciata impassibile di tutti gli alpinisti ci sia la capacità di emozionarsi e di innamorarsi perdutamente, o no?”
Dal diario, verso la cima: “...Sono due ore che cammino pensando alle foto che ci ha fatto Andrew mentre sott’acqua teniamo in mano quel polpo. Me la immagino in tutti i particolari mentre metto in fila un passo dietro l’altro. Il cielo occupa sempre di più il mio orizzonte. Susy si ferma un’altra volta. Mi volto, le sorrido e mi giro in fretta, perchè mi viene da piangere. Venti passi e poi basta. Fine, non si sale più. Questa sofferenza smetterà. Ti vedo con la maschera da sub e ti bacio goffamente. Voglio mettermi la mia splendida maschera TUSA gialla. Faccio ancora quindici passi. Voglio le mie pinne verdi, sono bellissime. Quattro passi, ti desidero con tutte le mie poche energie, ti sto portando quassù con me. Trattengo a stento le lacrime, non mi va di farmi vedere piangere. Ancora un passo, ti penso con tale intensità che mi aspetto di trovarti materializzata sopra quest’ultimo metro che mi aspetta. Poi basta. L’emozione fortissima di questi ultimi metri sparisce nel gesto di piantare la piccozza e sedermi a terra. Stop. Capolinea. Il sole e il vento sono testimoni di questa assurdità. Forse quei quindici metri di emozioni e di coscienza aperta e dilatata sono la ragione di tutto questo. Forse. ..”

E ancora, in una montagna che non è nè maledetta nè straordinaria, pericolosa e respingente, perchè sono gli uomini che la rendono impossibile e tragica, fatale e unica, inaccessibile e vera, lei ha il solo dovere di essere lì, ad accogliere con la sua prestanza tutti gli sbalzi di umore del tempo, dello spazio, del fisico e del sovrannaturale, della forza e dell’onnipotenza, dell’uomo e del suo desiderio.

Pochi giorni prima di compiere il suo ultimo volo di farfalla sul Dhaulagiri, scriveva di se stessa Chanthal Mauduit sulla sua tenda: - Io mi definisco un girasole, che si arrampica sulle cime, alla ricerca del sole -. 
E alla speranza di “ un altro giorno, che ci auguriamo radioso. Che ci bruci di vivere.”  ha dedicato il suo mondo, contemporaneamente lasciando al nostro:

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