“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Iran- Metagrammi: veli,peli,teli


METAGRAMMI: VELI , PELI, TELI


Metagramma: è stato inventato da Lewis Carroll (autore di Alice nel Paese delle meraviglie): si prendono due parole che abbiano attinenza tra loro e formate dal medesimo numero di lettere. E ci si gioca.



Entro nel Mausoleo di Imamzadeh-ye-Hossein a Qazvin e rimango incantata.

I miei occhi non si staccano da quell’insieme di specchi sfavillanti, rilucenti, senza colore eppur pieni di colori. Caleidoscopici frammenti di arte e bellezza, luce e fantasia, allegria e splendore.



Sono trasecolata, mi rigiro su me stessa e sembra che sia stata catturata dal rotore di un meccanismo vorticoso, centrifugata in quello spettacolare insieme di ritagli fluorescenti che compongono disegni razionali, che imprigionano lo sguardo in una visione tridimensionale e ti fanno dimenticare dove sei.

Di colpo abbassi lo sguardo alla realtà: Giulia sta lottando con il suo improvvisato e temporaneo chador, colorato, sguisciante, immettibile. Ha perso il velo. In un luogo così sacro, dove le donne baciano la tomba, si commuovono, pregano la salma del figlio dell’Ottavo Imam, un’irriverenza turistica così evidente diventa totalmente sconveniente, e ti affretti a tenderle una mano, per districare quel miscuglio di tessuti, sottili e quasi trasparenti, impalpabili...così delicati che... non ti sei accorta che tu, il chador, non l’hai indossato proprio!
Nello stesso istante ti senti sprofondare il terreno sotto i piedi.... quei mille specchi immediatamente rilanciano in tutto l’ambiente le parole spezzate del quasi sacrilegio, l’offesa più grande in un luogo analogamente sacro, profanato dalla tua nuda e trasgressiva civiltà occidentale.
La tua disperazione viene placata da un solidale e scuro braccio teso: è la guardiana del Mausoleo che, con un sorriso comprensivo, fa lievitare il tuo corpo a livello del pavimento porgendoti quell’ àncora  di salvezza che ha le sembianze di un mantello.

Il primo impatto con quel mondo coperto - dopo tante raccomandazioni, attenzioni, preparazioni, - ti ha lasciato delusa, amareggiata nel suo primo contatto con la popolazione e con quanto di più sacro convive nella loro realtà religiosa, sociale, culturale, tradizionale.

Ma sei pronta il dì successivo a riscattare questa distratta insensibilità: nel giorno del tuo ennesimo compleanno sfoggi gli abiti del compromesso familiare : <<Te lo compro, ma non ci vai! Ok, se proprio ci vai ti presto il mio velo nero>>, le parole materne.

Ed eccomi avvolta e infagottata nella città più teologa e islamista dell’ovest iraniano, vestita di nero per essere come loro, per aiutare a perdermi in questo luogo “velatamente ostile”, per cercare di capire le parole apertamente incomprensibili e fastidiose del mullah sulle donne, la famiglia, la libertà, la negazione dell’olocausto, l’odio verso Israele.

Il velo che copre le sembianze, telo svolazzante che rende tutte uguali, quel non gesticolare per poter tenere chiusa la propria femminilità, quel portare la mano sulla bocca a tacere della propria indipendenza.

Donne che si sistemano continuamente il tessuto avvolgente, chiudono ripetutamente al mondo le loro fattezze, in un gesto che non vuole essere definitivo perché solo così si garantiscono la possibilità di indipendenza dalle loro casalinghe mura imprigionanti.
Il loro lasciapassare per vivere nel mondo è chiudersi strettamente nel telo, decidere che nella strada e nell’incontro con chi è gemella a loro è riposto il segreto della libertà  cosciente, al contrario delle donne yemenite che non escono affatto dalla loro torre d’avorio, o delle donne afgane che affidano la loro autodeterminazione e libertà al tessuto integrale,
perché “..il burqa che i taliban ci hanno imposto come strumento di negazione e umiliazione, è il nostro passaporto. Sotto il burqa siamo tutte uguali, alla frontiera .....non riescono ad identificarci...Ci vogliono come i fantasmi? I fantasmi oltrepassano i muri. Figuriamoci le frontiere.” (Zoia, militante della RAWA, Revolutionary Association of Women of Afghanistan).

Portare con eleganza il drappo scuro è un’arte: solo i manichini senza testa ci riescono, perché, anche se nella loro ordinarietà e piattezza, non si può nascondere la sensualità dell’essere donna, la tentazione della soggettività femminile, la procacità e la bellezza sensuale, l’armoniosità delle forme che geneticamente si sprigionano dall’altra metà del cielo.


Abyaneh - copyright  di onchiles

Non si rassegnano al nero le donne di Abyaneh, la loro è una rivolta colorata, vociferante, con il loro cicaleccìo in un mondo silenzioso, dove ogni parola è misurata, soffusa, sussurrata. Sono consapevoli che sono diverse, che hanno conquistato la loro diversità tra l’uguaglianza degli indumenti, che possono sfruttare la loro fiorita differenza esteriore con chi poco comprende che siamo tutte uguali, nelle azioni, nelle aspettative, nelle speranze, nelle ambizioni, nell’essere. Sorridono compiaciute e complici che non le fai la foto, ma silenziosamente la scatti alle loro spalle, semplicemente perché è una bella foto.

Sei combattuta tra quello che hai letto e quello che stai vivendo: in questa realtà di rassegnazione al terrore e negazione scopri la scelta di coloro le quali rimangono a vivere tradizioni e cultura accettando tacitamente ed inconsapevolmente il susseguirsi del silenzio e del tempo, lasciando ad altre paladine la conquista delle loro libertà con un doveroso urlo fuori confine, verso quel mondo di privazioni: quella più grande è non poter vivere liberamente nel proprio Paese, proprio lì dove la nascita della tradizione e cultura diventa legittima e si trasforma secondo l’essere, dove loro sono state strappate al cuore, agli affetti e alla speranza che in un futuro si possa tornare a far cantare il cielo della loro dignitosa soggettività.

Conoscere questo popolo a metà è sconvolgente, ti lascia sempre il dubbio su quale sia l’interpretazione giusta per affrontare un dialogo, uno scambio, una certezza, un gesto.

Vivi il rimorso di non aver stretto una mano maschile che hai abitualmente offerta, osservi con stupore donne che si recano dal parrucchiere, contraddizione palese di una civiltà nascosta sotto il velo e manifesta solo nelle mura familiari.

Ancora i nostri occhi si allargano alla incredibile vista di una sposa velata, e perché, poi?, visto che nel nostro occidente le spose sono molto più che velate!

E’ un circolo vizioso, ciò che la mente reputa inconcepibile per il nostro occidentale modo di essere, viceversa è naturalmente assurda l’incredulità per questa parte di pianeta; se per noi è una contraddizione, per loro è un costume di vita.

E allora proseguo con velature sicure, quelle che rendono il paesaggio soprannaturale, in una mattina dove il sole brilla sulla strada, fluorescente, scintillante, riflettente, abbagliante, totalmente abbacinante verso lo scuro mausoleo di Khomeini a Teheran; foschia che si posa sul nostro sonnecchiare alla luce del primo mattino, mentre il sale si confonde con la terra, si trasforma e si colora di bianco e diventa neve ai nostri occhi, creando quella confusione di visioni che bene si inserisce in questa realtà disordinata.


E sono ancora veli finissimi quelli degli atomi visibili che coprono la terra verso la Storia, infinitesime particelle di verde uranio biancastro che, attivate, sconvolgono il mondo più di ogni nostro pensiero o convinzione.

Ci pensa la luna di Kashan, grassa ma nebulosa, a non delimitare i contorni di questa trasparente violenza, circondata da un alone di gioia per la mia maturità, e tale che la sua pienezza di luce mi illumina sui tremolii della notte, scambiati per continui sussulti della terra, in realtà verificatisi il giorno successivo comunissimi rimbalzi di un frigorifero singhiozzante troppo attaccato al mio ‘peloso’ letto.

Metagramma: peli... veli....teli

Paradossalmente, il nero del velo ricoprente si trasforma, per sua ulteriore accezione, in un telo appeso al portone del defunto ad identificarsi in un festone funerario: circondare le mura di dolore per rendere evidente e partecipe con gli altri la scomparsa e la conseguente sofferenza, gridata all’esterno anche dallo sventolìo di nere bandiere.

Ancora teli separano il mondo femminile, all’entrata di zone riservate alla rivelazione della propria intimità: copiose coperte separano il nostro universo femminile da quello maschile, per garantire la riservatezza di un velo calato, di una vanità fugace, e fortunosamente liberandoti dall’angoscia di scoprire, solo contemplando una scrittura indecifrabile, quale sia effettivamente la porta giusta!

Lo stesso telo però ricompone l’unione familiare e ti invita a partecipare la calorosa ospitalità: ovunque ci sia la possibilità e un prato dove stendere un tessuto sul colore della speranza, gruppi familiari condividono l’allegria e la gustosità di un desinare, non esitando ad offrirti parte del loro nutrimento solo per spartire il loro momento di gioia. E noi si accetta con tutto il cuore quella cordiale accoglienza, che unisce linguaggi e popoli diversi sotto un unico idioma.

Il nero, il bianco, il verde. Tre colori di questo popolo, colori che contraddistinguono nell’essenza della coscienza civile e politica iraniana quella intrinsecamente religiosa: i rappresentanti e le figure portanti della società iraniana si evidenziano oltre che nel pensiero, anche nell’indumento regale.
Il turbante nero individua l’appartenenza alla comunità sciita di quei religiosi discendenti di Maometto, teologi e studiosi, padroni del sapere e della scienza teologica e interpretativa, oltre che spirituale;
teli bianchi fasciano il capo dei soli sacerdoti, coloro che solo professando la fede abbracciano la conoscenza religiosa;
capi verdi caratterizzano credenti che discendono solo dal Profeta, o che nella loro vita hanno intrapreso il pellegrinaggio alla Mecca.


Teli o veli, stoffe e tessuti che tinti di colori caratterizzano un Paese, lo rendono vivo, lo affermano, lo distinguono, esprimono la circostanza dell’essere e di quello che non è.


Indossarli o meno identifica l’appartenenza delle donne alla loro condizione ed al loro rapportarsi nella società: il corpo esibito e privo di veli condanna la donna all’esterno della società iraniana.
Il corpo nascosto dal velo come simbolo di anti-occidentalizzazione risolve la condizione secondo il credo e lo status religioso scelto, tessuto che diventa anonimo per la donna che non vuole essere visibile perchè credente e rispettosa delle tradizioni.
Si connota strumento di visibilità laddove l’essere femmina costringe a nascondere l’esteriore ma la rende indipendente nella sua dipendenza dal tessuto, poichè questo può essere personalizzato da ciascuna secondo il proprio gusto e le proprie battaglie, permettendo così l’affermazione della specifica soggettività anche dove questa non può essere totalmente manifesta.


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