“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Il balletto delle anime leggere


IL BALLETTO DELLE ANIME LEGGERE




Vanno
vengono
ritornano
e magari si fermano tanti giorni
che non vedi più il sole e le stelle
e ti sembra di non conoscere più
il posto dove stai
(Le Nuvole, di Fabrizio De Andrè)


Delicate si alzano le foglie, spiccano il volo nel respiro trasparente, sollevate nella loro anima verso il cielo a cercare altri cammini dove spaziare, altri letti di terra su cui atterrare. Il vento trapassa sferzante tra i rami, incurante degli ostacoli che incontra: sibila tra le pietre sospese nel vuoto, e poco importa se crea tra loro un falso equilibrio di solidità.




Nello spazio circoscritto dell’auto lo sento che aggredisce ogni superficie che incontra: osservo i prati ondeggiare alla furia delle sue carezze, fili d’erba che dapprima si inerpicano verso il cielo e subito dopo rasentano il terreno scaraventati verso il basso dalla violenza del suo alito, un ritmo a singhiozzo, e subito dopo definitivamente prostrati in omaggio alla sua violenza e alla sua silenziosa forza.






Lassù, nel cielo aperto, greggi di nuvole leggere migrano veloci a nascondere la montagna e il sole, bianche, ricoprono i suoi raggi in una divertita maschera roteante che copre occhi e splendore, e con essi il panorama, nel giocoso ruolo di scoprire il volto per nasconderlo ridendo subito dopo.
  
Dalle prime sferzanti raffiche capisco al volo che non ci sarà salita: se il vento del piazzale sta spazzando tutto ciò che incontra con la robustezza che sento, a 1900 metri è più di un tornado, neanche mi chiedo come sarà sopra i 2500, ed affrontare il pendio con questa sinfonia che spezza il fiato senza poter giungere a nulla non regala senso allo sforzo da fare.



Non ho il coraggio di dirlo a Ruth, che con Angelo è già diverso tempo che sta aspettando una schiarita per poter affrontare l’ultimo tratto di salita, dal Rifugio Franchetti alla cima. L’Abruzzo talvolta è la regione delle attese: su questa montagna non si può avere fretta, nè tanto meno esser certi di arrivare, l’ho imparato nel corso degli anni, più volte respinta anche da situazioni più tranquille; la montagna appenninica il suo tempo per farsi scoprire se lo prende tutto.
Certo, il dispiacere e la delusione si leggono negli occhi al nostro incontro, sono dispiaciuta anch’io che non abbiano potuto godere di quell’immensa bellezza che regala lo spazio aperto della cima, o dell’abbraccio delle costole rocciose delle tre Vette che circondano il ghiacciaio, o ancora del riverbero dei lucidi pendii, resi vertiginosamente profondi e ripidi dalla tanta neve ancora accumulata nel loro cuore e nel risalto delle acuminate rocce di cui si delimitano. Sento lo sconforto della lunga attesa, della giornata dalla costola strappata, quell’incompletezza che porta via la gioia dal volto e lascia solo una confusa rassegnazione.

In questa lunga pausa, io mi sono persa nelle pieghe del Vallone, a ritrovare pendii nevosi che colano dall’altro delle rocce instabili, disordinatamente appoggiate ai loro fianchi, troppo alte per consolidarsi, troppo esposte per compattarsi.

 


















Sassi in bilico aspettano di cadere a valle con quel boato che solleva frotte di uccelli: nell’attesa della remota gravità giacciono inermi ai piedi dei faggi, riposando con tutta la pesantezza del loro marmoreo corpo in un connubio simbiontico tra loro non vitale.




L’istinto mi fa attendere riparata dai rumori che sento giungere dall’alto del vallone: mi aspetto di vedere sopra di me i prìncipi incontrastati di questi luoghi; si aprono di fronte a me il Picco dei Caprai e l’ampia Conca del Sambuco, scintillante tra roccia e neve, nelle sue allineate e frantumate pieghe orizzontali traverse.



Li troverò invece sul prato, giocosi, giovani, saltellanti, incuranti di quella tempesta trasparente che li avvolge, loro, gli scattanti camosci, che in quest’istante si rincorrono veloci, l’attimo dopo sono già spariti, inghiottiti dall’ombra delle pareti, dal calcare scoperto e dal bianco colante.

 








Ritorno sui miei passi nell’attesa che spuntino le due figure con gli sci caracollanti, e dopo l’incontro c’è solo un chiacchiericcio un pò amareggiato, la ripresa comunque di questo tempo avvolto dal gelido velo trasparente, in un pomeriggio di dialoghi, panorami, battute, ricordi e sole.

 

 Trascorre così la prima di due sconsolanti giornate, consumate all’urlo dei venti, dell’accecante sole e della compatta neve, ma decisamente respingenti sul fronte del divertimento.



L’alba si concede sui Monti della Laga, nella risalita dei pendii di Prato Selva che unisce il pascolo al bosco, gli sci al cammino, il viso al sole. La salita della Valle è scricchiolante in compagnia degli amici emiliani che sceglieranno la via più diretta e assolata, di delicato e faticoso impegno, fino alla vetta.


Non vedo più nè Ruth nè Angelo, inghiottiti dalla ripidità del canale a sinistra, coperto per me dal Monte Mozzone. Nell’anfiteatro spettacolare il silenzio è imperante e la quantità di neve maestosa: è la prima volta che non si vedono alla base le rocce affioranti, mettendo a nudo così la vera anima della Montagna. 


Seguo per un pò la risalita degli emiliani, la mia termina qui e sono fiera di queste piccole riconquiste nella montagna, pezzettini di motivazioni che mi permettono di gioire anche di poco. La discesa è perfetta sulla neve giusta, da sola assaporo il divertimento che regala il movimento e gioisco di questo piccolo spazio incantato.

L’attesa dei due nuovi amici non è lunga, me la godo tutta al sole perfetto, ed insieme ritorniamo mesti al punto di partenza. Troppo delicate le creste del Monte Corvo riportate dal vento, aguzze, strapiombanti sugli appicchi del fosso del Crivellaro da un lato, e del Monte dall’altro. Col senno di poi, i nostri amici hanno fatto la scelta giusta a giudicare dalle condizioni delicate di discesa, ma anche di salita, riscontrate dagli emiliani, e allora ancora per un anno il Trittico di Ivan dovrà aspettare!

Ancora un balletto ci attende, stavolta sulle sinuose curve di una regione tutta da scoprire, e tra Valloni e Canali poderosi giungiamo a godere dell’oscuro tramonto sulle Rave del Morrone: la Rava Grande e la Rava Macaragna si stagliano sottilmente bianche al centro del massiccio.

L’alba di un nuovo giorno è solo per loro, e della più viva compagnia che già popola la montagna: Italo è già in viaggio per la sua traversata sulla Rava del Ferro e del Pisciarello; i miei compagni storici da Roma sono già partiti per ricongiungersi tutti dentro la Rava del Ferro, li saluterò in discesa; Annibale-Fabrizio sta arrivando e Rinaldo puntuale è lì che da un pò aspetta tutti noi. E la salita nel canale riserva ancora piacevolezza, nell’incontro in equilibrio precario ma assolutamente gradito dell’intero squadrone del Cai di Camerino, popolo camerte che sembra sia rimasto incantato da una bacchetta impertinente.

Ma troppo rapidi sono i passi per tentare un inseguimento che non ci sarà: è la prima volta che questa Rava si lascia riconciliare da me delle sue pieghe e delle sue pendenze, ed è con gioia che arrivo alla sommità della sua massima pendenza e decido che è ora di ritornare al sociale, a ritrovare chi del passato ho perso, e chi invece del nuovo ho conosciuto.


E riabbracciando il passato, rido e subito dopo condivido della gioia di Ruth, che trovo raggiante al mio arrivo, finalmente soddisfatta di queste pendenti righe appenniniche.
Non la farò desistere da un futuro canale “bolloso” e svalangato, sarebbe vano il tentativo, le lascio godere quegli attimi di ridente felicità che noi, appenninisti, viviamo stagionalmente.



Le foglie riposano a terra la loro fatica, e le nuvole ormai stanche di girare sono stese lungamente nel cielo a coprire altri soli e la mia anima è senz’altro più leggera a ritrovare questi monti.

Wink  Derspina