“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Dell’ equilibrio : se non è Amaro...non ci piace!








Un omaggio alla grande Madre: '..il componimento “La leggenda della gigantesca Maia“, una fiaba, tra le più affascinati del nostro Abruzzo, con i versi magistrali del poeta aquilano Mario Lolli e la musica di Camillo Berardi che lega il nome della maestosa Maiella al mito di Maia, la maggiore e la più bella delle sette Pleiadi figlie di Atlante e di Pleione.' 


Racconta una vecchia ed amara leggenda 
che Maia, la figlia d’Atlante, stupenda, 
scampata al nemico fuggì dall’oriente 
con l’unico figlio ferito e morente. 

Raggiunto d’Italia un porto roccioso, 
sfruttando le forre e il terreno insidioso, 
condusse il ferito, vicino al trapasso, 
in alto lassù sopra il monte Gran Sasso.
 
A nulla giovaron, nell’aspra caverna, 
le cure profuse da mano materna: 
al giovane figlio volò via la vita 
lasciando alla madre una pena infinita. 

E proprio quel monte d’Abruzzo nevoso 
racchiuse la salma all’estremo riposo. 

Il grande dolore di Maia la diva 
escluse al suo cuore la gioia istintiva; 
non ebbe più pace, non valse l’apporto 
dei propri congiunti a darle conforto. 

Sommersa dal lutto, sconvolta dal dramma, 
non ebbe più pianto, non era più mamma. 

Di vivere ancora non ebbe coraggio: 
si spense nell’ultima notte di maggio. 

Un mesto corteo con fiori per Maia 
salì a seppellirla in un’altra giogaia, 
rimpetto alla tomba del figlio adorato 
strappato alla madre da un barbaro fato. 

E quella montagna, al cospetto del mare, 
d’allora
MAIELLA si volle chiamare. 

FINALE 

“AMARO” ebbe nome la vetta maggiore 
per dare risalto al materno dolore.
 





Gli sci sono appesi al chiodo, in un oscillante dondolìo di vado-non vado: ondeggia la ragione verso il risparmio alla fatica, non riesce a superare l’incanto che potrebbe procurare una giornata dal cielo terso, blu, sfondo di pareti esultanti di verde pallido, germogli nuovi; fili d’erba arrostiti dal sole dell’inverno, dal gelo della neve che li ha preservati sani e nascosti alle intemperie della fredda stagione; dello sguardo incuriosito e poi indifferente del Principe delle Rocce, che fiero e selvaggio si staglia dai rilievi di quei dirupi impervi eppur così straordinariamente catalizzanti; dai canali sinuosi che invitano lo sguardo e poi il corpo a seguirli nelle loro viscere, sempre più attraenti, sempre più contorte, per uscirne solo con il ricordo di un’ammaliante salita nell’incommensurabile splendore di questa terra aranciata, grigia, altezzosa e lussureggiante.





L’equilibrio si sposta sul -non vado con gli sci-, ma ritorna a piombo sul desiderio di selvaggio.
La proposta di Fernando è: <<scegli tu..che so..verso la rava del Ferro>>, quella via che non sopporto, fatta già diverse volte e dannatamente lunga....

In cuor mio, l’ago ciondola al centro, - non per niente sono una Bilancia!-, do l’OK per la Rava, ma so che riuscirò a far cambiare idea: tutto dipende dalle condizioni del Canalino Intermedio, quel vallone che si insinua tra la Rava del Ferro e la Rava della Vespa, lì sulle pendici della Maiella.


Mentre lotto con i crampi su un delicato bilico di ripidità esterna e ansia interna, la risposta sorridente di Fernando alla mia imprecazione è chiara: <<te lo sei scelto tu>>, ed io a maledire le mie paure, la mia voglia di selvatico, il mio insoddisfacente allenamento, anche se provengo da una settimana di camminate negli splendori cristallini della bella Sicilia.


Ma l’inizio di questa bilanciata giornata sulla neve è salutata dal Principe delle Rocce: neanche siamo entrati nel canale che lui già pascola sulle alte cenge in mezzo ai mughi, sopra le nostre teste, a contrastare nel cielo, a controllare dall’alto le sue terre, indifferente alle nostre sussurrate voci per la sua scoperta.




Ma altro stupore ci farà entusiasmare: l’impronta palmipede inconfondibile dell’animale selvaggio e vagabondo per eccellenza, grande e chiara sulla neve, a ricordarci quanto siamo piccoli nei suoi confronti, lui gran camminatore, noi piccoli pedestri.


           




E nell’ammirare il gioco dell’orso, la limpidezza della giornata, il verde degli spalti rocciosi e la poca neve scintillante, il passo va da solo dietro il roccione di separazione delle Rave: basta un’occhiata per decidere senz’altro la via di salita!








 


Alzo lo sguardo da quella distesa di sassi accumulati, senza ordine, in delicato equilibrio uno sopra all’altro a sostenere i vuoti e a coprire il solido: terra in movimento che genera altra terra, in questa comba riflettente di grigio assottigliato, sperando di arrivare alla fine di questa interminabile salita. Lame sottilissime di tenace calcare, dai bordi taglienti, incastrate confusamente, e dall’aspetto solido inducono prudenza nel calcare il passo. 
La mia ombra si allunga su di esse ondeggiando in un balletto da funambolo su quell’aerea cresta tra le pareti sommitali della Vespa e l’anfiteatro in testata al canale, a cercare la via d’uscita su quelle fini pietre che non permettono passi falsi, pena il movimento unico verso valle di tutto il pendio, con te compresa.







Questa Montagna è Terra d’Abruzzo, luogo che difende i suoi gioielli regalando fatica e sudore, ansia e gioia ma solo al risultato finale, qualche ceppo di legno e metalliche croci.



La tenacia dei miei muscoli doloranti, pronti allo scatto elettrico ad ogni pressione del corpo mi costringe ad andare oltre questa arida collina, a trovare i panorami di quegli spazi sconfinati che non entrano nella visuale dell’occhio tanto sono ampi, che non sai dove guardare perchè la neve ha modificato il paesaggio e l’ha reso contemplativo in tutti i suoi particolari, spaziando dalle creste dei Tre Portoni, al Pescofalcone, a Cima Pomilio, al Focalone, alla non lontana Acquaviva e Monte S. Angelo, tutte ancora imbiancate, tutte scintillanti a questo sole che oggi non vuole coprirsi per mostrarti tutta la beltà della Grande Madre.



Scorgo Fernando e Luciano in attesa forse di un mio invito a fare la cima: quasi rinuncio per la spossatezza dei miei muscoli, e li lascio  andare a ritrovare la croce ed il bivacco, e quella Valle di Femmina Morta che lungamente si adagia alle pendici meridionali della cima, a  costituire la verde anticamera della gioia finale.



Il mio riposo è a girovagare per inghiottire ogni particolare di questo paesaggio isolato, scintillante, pieno di sè e dei suoi tesori.
Mi avvio solo per cercare altre visuali, anche se in cuor mio so che affronterò ancora l’ultima fatica, quella di cercare nei paletti e nella croce finale il filo che mi lega a tanto entusiasmo.


Ed il piede va da solo a ritrovare quelle monotone collinette, aride alla vista, amare al gusto, ma mestamente cariche di dolore materno che si spegne solo alla vista della sua immensità panoramica dal punto più alto: quel mare che dà tranquillità eterna, la vastità dei prati di Femmina Morta, gli strapiombi delle valli sottostanti, dove scintilla l’unico ricovero delle anime perse in questi isolati e assolati luoghi.




Le nuvole non vogliono coprire sì tanta bellezza: scorrono veloci sulle pendici verso valle, accarezzando solo la grande Madre, in un gesto di pietà sconfinata, lasciando che sia l’amorevolezza del pianto a colmare di lacrime quel pozzo profondo in mezzo alla landa, unica sorgente essenziale, sottile specchio di vita scintillante.


E l’ago spostato dal centro alla cima ritrova la carica del suo pendolo per tornare nella posizione iniziale: la comba della Rava del Ferro ci accoglie bianca e iridescente di nevi solcate, immacolate per la recente nevicata, cariche di umidità tali da rendere fermo il passo anche nei punti più ripidi.




Avvolta nelle assolate rocce a contorno mi immergo nel manto bianco a gustare, sola, quel senso di pace che esprime il silenzio della natura, 




non saziandomi mai di far vagare l’occhio sulle punte, sui contorni, sulle cenge, sui risalti, come a voler stanare anime vaganti in quel contesto superbo.













Forse il mio sussurro silenzioso è stato ascoltato: un ultimo sguardo indietro sulla nascosta via da poco abbandonata, talvolta ingannevole natura che confonde, ed ecco che come ha aperto le danze quotidiane appare di nuovo sugli spalti del suo Regno, la sua compagna fuggevole ai suoi amorosi tentativi, lui Principe incontrastato delle Rocce, il Camoscio. 


By Derspina, foto di Derspina e Fernando

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