“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

nera Dancalia bianca: stille, stelle, stalle

Stille, stelle, stalle

Ho appena disfatto la borsa:
c’è la piccola piuma che porto da ogni viaggio, per farmi volare meglio;
c’è la brocchetta nera per la mia collezione, a ricordarmi ovunque il lavoro delle donne;
c’è il cappello da aggiungere al muro della mia stanza, che comunque sta sopra la mia testa, a ricordarmi i luoghi dove girovago;
ci sono i sassolini e le pietre che raccolgo lungo il mio cammino sconosciuto;
c’è il presepe da portare alla mamma, uno per ogni Paese, anche da dove la Natività non esiste;
c’è il sesto cucchiaino della stessa compagnia…aerea;
c’è il libro nero di viaggio, con i preziosi appunti.
Ecco, c’è tutto…

Ma guardo meglio l’interno e mi accorgo che manca qualcosa, qualcosa che è rimasto laggiù:

manca la foto di Massimo alle stelle appese nel cielo di Ahmed Ela;
manca la lava incandescente nel cratere crollato di Erta Ale;
manca il sorriso mescolato alle lacrime di Anna, cristallizzate dal calore salato di Assa Ale;
mancano le mani alzate del saluto dei bambini;
mancano le cose da donna;
mancano i sassi di Stefania che hanno reso ricco un poliziotto di frontiera;
mancano i pantaloni ad un bambino per coprirsi dal freddo dell’altipiano;
manca la felpa di Giorgio, regalata ad uno sconosciuto che sarà molto contento;
mancano le pile regalate al cuoco per illuminare il suo quotidiano sorriso;
manca il riservato silenzio di Mohamed;
mancano le cose da uomini;
mancano le pulci di Lalibela a condividere l’umana religiosità dei credenti;
manca il saluto ad Alfredo di apprezzamento per l’ascensione di uno dei tanti pellegrinanti santuari del periodo di Natale;
manca la musica di Solomon;
manca l’odore caprino e asinino, cancellato dall’acqua del lavaggio;
manca la terra e la polvere di tutti i colori del mondo;
manca la chiave di Mister Key;
manca il terzo caffè ad Orietta, che ha reso ospitale un casuale incontro tra donne;
manca il silenzio dei paesaggi di questa sconfinata terra;
manca l’ultima cena di Livio;
mancano i birr nella cassa di Claudio, per far quadrare i conti;
mancano le scarpe di Luisa a far contento un ragazzo;
manca l’arrogante furbizia di Yoele;
manca qualcosa di usato nella borsa di Leo;
manca l’ultimo saluto di Sabrina e Orietta.

Le stille iridescenti di mille colori:
salate, sferzanti, calde, preziose, trasparenti, emozionanti.

Le stalle, ricchezza dell’uomo e della sua fatica,
comunione di viventi beni preziosi per la sopravvivenza quotidiana;
ricovero di Nascita e punto di partenza per le stelle.

Le stelle, sospese a rendere brillante il nostro cammino,
verso lingue di fuoco,
verso lo scintillante cristallo salino,
verso la gioia del ballo,
cadenti sul mondo per avverare i nostri desideri.

Ma quello che manca sarà colmato da un’altra prossima conoscenza,
e riempirà di desiderio la borsa, fino a che non strariperà di altra gioia.


continua.....dancalia- La strada

nera Dancalia bianca: la strada

La strada



Album di foto accumulate sul tavolo, il libro nero dei viaggi davanti, la tastiera, il mouse.

Ci risiamo: non ho saputo resistere alla tentazione di spaziare in questo mondo, in modo virtuale, in senso fisico, in volo intellettuale.

Più mi agito e più scopro, più rifletto e più arrivo alla conclusione che le parole, le sensazioni, la realtà sfuggono, passano, non si arrestano.

“..In Etiopia viaggiare in auto è una specie di compromesso continuo: tutti sanno che la strada è stretta, malandata, ingombra di gente e di veicoli, d’altra parte devono entrarci. E non solo entrarci ma muovercisi, spostarsi, raggiungere le proprie destinazioni. Non c’è autista, guardiano di mandrie o viandante che ad ogni istante non trovi davanti un ostacolo, un rompicapo, un problema da risolvere: come passare senza urtare la macchina che viene in senso inverso? Come far avanzare mucche, pecore e cammelli senza schiacciare storpi e bambini? Come attraversare la strada senza finire sotto un camion, senza infilzarsi sulle corna di un toro, senza rovesciare quella donna con un peso di venti chili sulla testa? E così via. Eppure qui nessuno inveisce contro nessuno, nessuno si spazientisce, nessuno impreca, maledice, minaccia. Con pazienza, in silenzio, tutti compiono il loro slalom, le loro piroette, e i loro dribbling; manovrano, girano spingono e soprattutto avanzano. Se si crea un ingorgo, tutti si industriano a scioglierlo con calma e collaborazione; se c’è calca, millimetro per millimetro risolvono piano piano la situazione.” (Kapuscinski R. – Ebano)



Secondo ritorno in Etiopia, terra affamata, terra assetata, campi fertili, luoghi alberati, gole profonde, altopiani gradinati, spianate desertiche, ciottoli e dune sabbiose, sentieri vulcanici, acque salate, tramonti smorzati, albe silenziose, aria soffocante, polvere insidiosa, religiosità esultante, invasione straniera, fierezza difesa…….
E chissà quanto altro ha accantonato la mia mente.

Il titolo, perché ci vuole un titolo quando si segue un filo conduttore di ciò che ha impressionato il nostro sguardo, ciò che la mente ha disordinatamente archiviato nel recondito del cervello, ciò che farà accendere una lampadina dove l’elettricità non esiste, o dove è assolutamente inutile perché gli occhi vedono anche nelle tenebre più profonde.

Qualcuno la paragona ad un infernale girone dantesco, altri la chiamano Terra del Diavolo, ma si sa che l’Africa non è occidentale, è anni luce dal nostro vivere civile, è un altro Continente, con i suoi usi, i suoi costumi, le sue tradizioni e contraddizioni, ha il suo vivere civile dettato dalle necessità e dalla sopravvivenza.
Proprio come il nostro mondo occidentale. Solo che noi non dobbiamo fare i conti con la siccità dei deserti, con l’alternanza delle piogge, con l’inospitalità dell’ambiente, la crudeltà dei fenomeni atmosferici e geologici, con le guerre di confine per uno stralcio di terra, con il nomadismo dettato dall’acqua e dalla fame, con la mancanza di mezzi, ma non di motivazioni.

E la strada raccoglie tutto questo: la nostra diversità, la nostra curiosità mescolate al loro sistema di vita, appiedato, necessario, abitudinario, fiero.

Ma che introduzione al viaggio è?
E quale viaggio?

Terra d’Africa martoriata dal sole e dalla polvere; Terra nera di calore e di colore, Terra infame di fatica e di lavoro…..semplicemente


 Scintìllii d'Africa nella nera Dancalia bianca

Dormienti - Mimmo Paladino

nera Dancalia bianca: Dancalia incredibile Dancalia





Con Alfredo ho fatto diversi viaggi.
Alfredo non riesce a dormire più di tanto, e fuma.
Mi ha sempre elogiato per i miei scritti, ma non avevo mai letto i suoi.
Questo è l’effetto di una sua notte insonne,
nella calura che stringe la gola e il fumo che la soffoca,
 e non sai dove andare nel buio,
 illuminato solo dal chiarore delle stelle e
dal tuo cervello che schizza fuori scintille di parole.

E’ la sua premessa alla nostra Dancalia,
quella fiammella che alimenta la mia storia
e rende brillante il nostro vissuto


DANCALIA, INCREDIBILE DANCALIA!



La polvere si sposa con la sabbia,
il sasso si confonde con la roccia,
l'acacia protende i suoi rami smunti
alla ricerca di una stilla che non c'è.
Dancalia, incredibile Dancalia!

Lunghe distese di nulla, immense pietraie aride,
infinito deserto flagellato dal calore,
riflessi di luce che riverberano sul sale,
tocchi di vento incandescente.
Dancalia, incredibile Dancalia!

E in questo infernale scenario,
in tale palcoscenico lunare
ebbe origine l'uomo, sì proprio qui
l'umano ebbe l'ardire di presentarsi al mondo.
Dancalia, incredibile Dancalia!

Nella notte dei tempi le forze del male si unirono
per rendere truce, tragica, maledetta questa terra;
e i fiumi si seccarono inesorabilmente,
le piante lasciarono il posto alla squallida rena.
Dancalia, incredibile Dancalia!

Ma il Sole volle attenuare questo misero destino
lasciando perenne un suo raggio brillante,
fissando il suo colore, un dorato ricamo
per ingentilire queste lande ostili.
Dancalia, incredibile Dancalia!

E anche la Luna, col suo tocco timido e flebile,
posò il suo manto sul lago affinché i cristalli di sale
potessero ritemprare con un'incredibile  e soave luce
questa sventurata terra, brulla, dimenticata.
Dancalia, incredibile Dancalia!


Triste, impervia, sconfinata,
bruciata,battuta dal vento afoso...ma
affascinante, meravigliosa, piena di vita
esaltata dai colori, eterna...
Dancalia, incredibile Dancalia! 

Al                               (Alfredo Moretti)



Tutto in uno sguardo: Mani



Indice e medio sporgono uniti dal finestrino: un impalpabile cenno di avanzare comanda la strada: sconosciuto l’autore, nota l’usanza. Sulla via che da Jaipur si snoda verso Pushkar arrancano con lentezza immensi e pesanti camion, carichi all’inverosimile di marmi di tutti i colori: verdi, rosa, grigi, bianchi, venati, neri. Ti lasciano passare mentre trasportano la bellezza grezza della loro religiosità, della loro arte, della fervida fantasia. Immacolato materiale destinato al candore più puro, modellato da sapienti mani, guidate con gli occhi ormai resi ciechi da anni di polvere per incidere, trovare, far emergere particolari, minuziosità, schemi, genialità, colpi, leziosità. Racconti marmorei destinati alle intemperie, applicazioni filosofiche rese immacolate dai seguaci religiosi che lavano e purificano quel susseguirsi di scene, tratti, movimenti, espressioni, beltà fino a rendere i loro particolari sì brillanti quanto grossolani.
            

 
 



Lavorano le loro mani nell’intarsiare abilmente sculture e vita, concetti e realtà, sacro e profano; scalpellano con la delicatezza di una piuma il duro substrato marmoreo, fondamento dall’intrinseco significato di ‘lucente, brillante’ - in sanscrito ‘raggio di luce’ - che convive con la stessa radice a palesare frantumazione. Opere che sono create dalle mani dell’uomo,






bellezze eterne esaltate dal loro sudore, a rifulgere moti, gaiezza, armonia, schematicità, geometria; componimenti che lasciano riempire i vuoti ed eliminare gli spazi, che creano grandezze e superfici tutte su un piano alto mille piani. Luce, spazio, fantasia, staticità, brillantezza inseguono la divisione della terra, sviluppano l’interno di essa, in quella maestosità di raccoglimento ed incantevolezza che rapisce anche il più profano degli uomini.


Mani che scolpiscono l’arenaria, la plasmano, la incidono con il tocco di un pennello, con la forza dell’espressività, animate da una ludica estetica o da una consapevole gara: le haveli di Jaisalmer manifestano nei loro rilievi la gioia dell’arte e la fraterna competizione a costruire, sagomare, rifinire, arzigogolare quel materiale finemente friabile ma che, indelebile, dura nel   tempo.



Mani e bianco, marmo e candore, purezza e amore trasudano come gocce dalla onnipresenza del Taj Mahal, fuoriescono come le calde lacrime che versò il suo creatore alla morte della sua amata nei lunghi anni di costruzione del perenne ricordo, le identiche e vivide stille del sangue che sgorgò dalla mano recisa del suo capomastro, per impedire ripetizione di tanta maestosa bellezza, sorgente che alimenta con liquido vitale, sentimento e palpabilità la meraviglia eternamente destinata al mondo.


Mani callose che trascinano e smuovono pietre, terra, acqua, sudore, fatica, perseveranza, rassegnazione, per consolidare il senso della vita, per perpetuarla oltre la morte, per regalare a chi non c’è più la vitalità di una rievocazione perenne: arti che lasciano ai posteri la grandiosità dei loro muscoli e del loro intelletto, l’imponenza  e la magnificenza di quelle tangibili e storiche opere monumentali.



Così per se stesse e per la cavalleresca memoria di un intero popolo urlano le mani rosse sulle porte rajasthane dei castelli, delle fortezze, dei santuari, ad imprimere l’evidente fierezza e l’ardore delle donne Rajput, madri e mogli, concubine e figlie, fedeli e schiave, impavide e amanti, fino all’estremo sacrificio di donare la loro vita alla morte, di far vivere a ricordo perenne il loro mortale coraggio. Più alto è il numero del rosso sangue, maggiormente è elevata la gloria della fortezza.

Mani celate dietro le scene di un teatrino muovono i fili della storia guerriera, i loro protagonisti, i loro attori, la loro musica, diventando arte della nomade quotidianità e della loro incontenibile sapienza. Storie infinite di amori e passioni, tradimenti e virtù, guerre ed armistizi, stragi e riconquiste narrate in un poema infinito lungo una vita, quella dell’Uomo. Mani capaci di interpretare e smuovere la Storia, di narrarla allegramente a suon di musica: ogni colpo di tamburo un’impresa, ogni fragore sordo un amore o disperazione.


E non bastano mille fili di un rocchetto a far sventolare nell’aria migliaia di aquiloni: ciascuno di essi reca un motivo diverso, un disegno vivace, un messaggio nascosto, lanciato nella lotta e nella conquista da piccole mani esperte. Ogni aquilone trascina con sé l’essere bravo nelle mani agili di un bambino, a sopravvivere nell’ immenso azzurro più degli altri, a comandare il cielo. E come il danzatore nel mondo delle marionette si cela, anche il pilota di aquiloni è occulto, nascosto all’ombra dei terrazzi, attento a non cadere in altrettanta sconosciuta trappola. Vincitori saranno coloro che nel groviglio di fili riusciranno ad abbattere i concorrenti e a trovare il trofeo, abbandonato al vento durante la battaglia, per essere immortalato gioiosamente e festosamente nelle mani del suo piccolo conquistatore al suo ritrovamento.

Ed è ancora un filo interminabile quello narrato dalle agili mani di una donna che danzando porta il mondo a conoscenza di epopee e drammi, poesia ed opere: la lirica della Storia e della letteratura concentrata nel gesto, nella mimica, nel canto, nel sinuoso movimento della danza, laddove ogni impercettibile guizzo, sguardo, espressione, posizione degli arti, gestualità, sorriso, nota e salti traduce e rilancia l’ epica universale della Storia rajasthana.


Sono mani animali quelle che, nella città delle vedove, rapide sottraggono la vista a Giovanni. Come la gazza ladra spazza lo scintillìo, mani scimmiesche veloci rubano tutto ciò che per loro è curioso o addestrato: l’urlo di Rosetta si espande lungo il fiume, gareggiando con quello della bertuccia che ha appena calato sugli occhi il suo essere cieco animale. Le stesse pelose mani che tolgono violentemente il cibo ad un’anziana signora, sottolineando il selvaggio potere nel dominio della Tower of Victory: gloriosa costruzione antropica, totale egemonia bestiale.

                         

Mani oleose e leggere, energiche e sensibili strapazzano il tuo corpo, lo lucidano, lo plasmano, lo spremono, lo massaggiano, fino a che l’ultima cellula o lo stirato nervo non gridano sollievo, donando alle terminazioni sensoriali il meritato riposo. Vigoria e delicatezza che trasformano la tua rigidezza e stanchezza in energia e spossatezza, forza e abbandono, garantendo così la prosecuzione del tuo pellegrinare e la tua conoscenza.  



E sono divine e sagge le mani umane e animalesche che si protendono a sostenere simboli: da 4 a 14, le mani avvolgenti di Ganesh,  a rappresentare quanto di più sublime ha il nostro essere: la mente, l’intelletto, la coscienza e l’ego. E per un buon auspicio il metafisico animale è manifesto nelle sue effigi sulle porte dei novelli sposi, ed ancora le sue mani sono protagoniste nel trascrivere i sacri testi, trasformando così il dio in patrono della scrittura, linguaggio manuale per eccellenza.

Mani, quelle del bramano, che donano ai suoi fedeli,  e quelle dei proseliti che ugualmente ricevono da chi partecipa la cerimonia; mani che segnano tilak, elegantemente portati come portafortuna sul viso a rappresentare il terzo occhio; mani che toccano il pavimento, la fronte, il toro. Miele, riso, fiori, latte, pasta di sandalo, incenso, elementi e doni per compiere la puja, cerimonia di offerta e di adorazione, canti e letture per adorare gli dei.

Ed il cerchio si chiude laddove è iniziato, lungo la strada che porta all’ascesi: immortalità e purezza ricercate nel sacro e candido luogo, finemente scolpito, ardentemente partecipato fino al raggiungimento di serenità e ricchezza interiore.