In tutti i miei viaggi ho sempre calato un occhio particolare sulla condizione femminile dei paesi che sto visitando, forse per solidarietà di comprensione, o più in generale perché con le donne il linguaggio e la comunicazione è più facile per il vissuto di una stessa condizione, così come lo scambio di esperienze e situazioni.
Ultimamente, però, sono entrata in un altro pianeta, molto più oscuro, e non solo nelle sembianze, ma soprattutto nella sostanza, quello del mondo islamico, arabo, musulmano, oltre i confini del nostro occidentale. Ed il mio cervello ha fatto tilt.
E’ difficile penetrare in un mondo che resiste, che è curioso ma non comunica, che si stupisce ma non trasmette diversità, che è indifferente all’apparenza pur essendo profondamente differente. Ed in questi Paesi mi sono sentita profondamente straniera, quasi quanto mi sono sentita bianca nell’Africa nera.
Nell’epilogo del suo libro, Il mio Iran, scrive Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace 2003:
“ Sulla mia scrivania a Teheran c’è il ritaglio di una vignetta che mi piace tenere sotto gli occhi mentre lavoro: raffigura una donna che indossa un elmetto spaziale, piegata su una pagina bianca e con una penna in mano. Mi rammenta una verità che ho imparato vivendo e che riecheggia nella storia delle donne iraniane attraverso i millenni: la parola scritta è lo strumento più potente che possediamo per proteggerci, sia dai tiranni sia dalle nostre tradizioni. Che si tratti della leggendaria Sheheradaze che si sottrae alla decapitazione raccontando mille e una storia, di poetesse femministe del Novecento che hanno sfidato con i loro versi la percezione della cultura femminile, o di avvocatesse come me che difendono in tribunale chi non ha alcun potere, per secoli le donne iraniane hanno fatto affidamento sulle parole per cambiare la loro realtà.”
Non sono iraniana, ma tenterò di descrivere le sensazioni che ho provato nell’ immergermi in questa terra così diversa nell’uguaglianza, così irrilevante alla diversità, così troppo curiosa e istintiva tanto da unire piuttosto che escludere. E se la strada porta ad un vicolo cieco, tornerò indietro per la stessa via, avendone comunque conosciuto la fine, e con ancora la voglia di uscire dal dedalo dell’incomprensione.
IL PESO DEL VELO
“Libertà di pensiero”, sono le parole del ruhani incontrato; “libertà di essere” si contrappongono le nostre; il velo sulla testa la catena per l’autodeterminazione.
Toccarsi, ridere, ballare, baciarsi, spettano solo al privato e al giorno più bello, anch’esso legato ad un contratto da anelli di monete: se prosegue per la vita diventa patrimonio, al contrario si trasforma nella chiave del lucchetto per la propria libertà. Matrimonio temporaneo è il ricatto e talvolta il riscatto delle vedove, delle donne più povere, di quelle emarginate.
Bambine con il capo coperto tengono tra le braccia l’unico essere veramente libero nella sua innocenza: occhi spalancati di un neonato che ridono del tuo sorriso, e questo lo porta ad emettere gridolini e gorgoglii comunicanti gioia. Sono loro che riconoscono lo sconosciuto, ti chiamano, ti sollecitano, e la voglia di esprimere la loro gaiezza ti spinge a rispondere con l’unico gesto veramente internazionale di divertimento.
Ma la spensieratezza è interrotta dal carico sulla testa: due lembi di stoffa che stringono il collo, lo avvolgono, lo strozzano, l’incastrano per una vita intera, e non c’è prezzo per la sua libertà, non un filo di ribellione fuoriesce da quella gola coperta, serrata, nascosta, non un alito di indipendenza si dissolve nell’aria, ma rimane intrappolato, muto, nelle 4 mura.
Frastornata ti aggiri per strada: volti troppo uguali differenziano corpi drappeggiati di nero, all’ultima moda; medesima tristezza e rassegnazione sui volti dei manichini femminili diversificano le stoffe, e dove non si vuole evidenziare l’identità femminile, la decapitazione del cervello è più che manifesta.
Ma rimangono gli occhi a comunicare al mondo che l’universo di donna non è tutto uguale, piatto, privo d’intelletto: l’incrocio degli sguardi si perde nella sete di conoscenza e comunicazione, dialogo e curiosità, urlando al mondo occidentale ciò che le parole non dicono, ma che esprimono tutto il loro volere essere donna nell’identità internazionale.
Il peso del velo ti ricorda chi sei, lo porti senza dignità, appartiene ad un altro mondo, ma ti ci stai abituando: lo tocchi, lo sistemi, vuoi essere sicura che copre quel tanto che basta a non offendere un nemico invisibile, a smorzare una voce che non c’è ma che non ti abbandona, anzi ti lega a quel pezzo di stoffa. Lo palpi, lo senti, sei più tranquilla. Il rispetto che esso crea ormai è iniettato in te, diventa quasi naturale averlo, ti senti monca a non percepirlo. I tuoi amici costantemente te lo ricordano, ma ormai è considerato parte del tuo essere in questo Paese, se vuoi condividere, seppur pesantemente ed involontariamente, la quotidianità della popolazione e comunicare con queste genti.
Ovunque incroci gli sguardi delle donne che con curiosità, ed un pizzico di stupore, vorrebbero conoscerti, e lo fanno, e tu, tra la gioia dell’incontro e la fugace incomprensione, ti senti sempre più straniera, frustrata di quella assurda incomunicabilità.
In molti ti hanno ingannata: paese pericoloso, diritti umani inammissibili, libertà negate. Tutto questo forse in parte è vero, così com’è reale anche il baratro creato tra l’occidente ed una nazione che non ne vuol sapere di prendere coscienza della propria indeterminazione.
Ma le voci di donna si sollevano anche sotto il velo nero; l’unione dei paesi forse si allontana, ma vicina è comunque quella globalizzazione che rende tutti uguali, seppur viventi in mondi diversi.
Ed eccole allora le donne che pur gestendo quotidianamente la religiosità legata a questa società e a quel sottile pezzo di stoffa, non tacciono delle ingiustizie legate alla condizione femminile, anche se inconsapevoli del loro femminismo nascente; donne che non sopportano con rassegnazione il laccio al collo del fazzoletto, ma che con lo stesso panno legano insieme speranza e determinazione a far valere in ogni campo il proprio essere donna, ed in alcuni casi, anche solo il proprio essere.
E quando cade questo fazzoletto? Quando questa aureola che reprime la giocosità di un’infanzia spensierata – perché già da adolescente devi prendere precocemente coscienza della tua inferiorità sessuale indossando l’hejab–, quando questo alone svanirà nella limpidezza dell’aria, assieme alle colombe che identificano il moto circolare della vita ed insieme ad essa si solleveranno nel cielo delle libertà dei diritti?
Sono arrivata al muro di un vicolo cieco, il rammarico è grande, ma l’ostacolo è troppo alto per passare oltre.
Torno indietro e ripercorro la strada, ma forse occorrerà attendere un altro viaggio, o accettare la consapevolezza che ciascuno nel proprio Paese intraprende battaglie per il vivere civile, e che la mia comprensione da sola non è sufficiente ad esprimere affermazione di libertà verso quel mondo in cui ogni donna è uguale nella sembianza ma profondamente diversa nella propria soggettività.
Non credo che lo saprò mai, perché sono occidentale, e perché ormai è radicato in me quel senso di autodeterminazione che mi impedisce di vivere un cammino diverso dal mio, un tragitto che accetta il peso del velo in cambio di una vita dignitosa.
Esistenza che non spetta a me giudicare, tutt’al più comprendere.
E sono contenta di averci provato.
P.S. : mi hanno aiutato in questa ricerca di consapevolezza femminile:
Giuliana Sgrena, Il prezzo del velo – Febbraio 2008
Lila Azam Zanganeh, Chi ha paura dell’Iran? - 2006
Lilli Gruber, Figlie dell’Islam – Ottobre 2007
Renzo Guolo, La via dell’Imam – Maggio 2007 Shirin Ebadi, Premio Nobel per la pace 2003, Il mio Iran – 2006 Conversazioni con Mehran, traduzioni, modi di dire, dialoghi e scambi dal farsi all’italiano, Ottobre 2008