“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Battiti - Maiella

                               (da Fara S. Martino a grotta dei Callarelli)


Sento il cuore che batte come un tamburo, rimbomba nel corpo vuoto e fa rimbalzare il suono di ossa in ossa; il fiato si fa sempre più corto, ogni passo è un soffocare il respiro, le gambe non rispondono, sono pesanti..pesanti.. pesanti come macigni; i muscoli fanno male, sono affaticati, il respiro mi soffoca, sento nella testa un gran rimbombo, e l’unico mio pensiero è che sono solo all’inizio di quelli che saranno oltre i 1200 metri di dislivello da fare. Non ce la posso fare, e crollo, lì sul sentiero, tra le lacrime ed i sassi, il caldo rovente e la mia speranza mancata.


Davanti al richiamo dell’amico e del selvaggio, dell’ottima compagnia per il week-end, in Maiella!!, il pensiero di non poter affrontare questa giornata mi ha messo KO più della fatica del dislivello, con lo zaino leggero studiato per due giorni, circondata dagli amici più cari, l’atroce desiderio di percorrere una via sconosciuta ma da sempre incuriosita, l’arricchimento di altre vedute straordinarie a picco sul mondo, come essere un camoscio o un rapace che lì regna incontrastato: eccolo il mio più grande sogno in quel momento, che piano piano sfuma sotto i colpi accelerati di un cuore tormentato.




Ma gli amici sono amici, e sebbene l’ora non sia tra le più fresche e anticipate, riposano con me per oltre un’ora senza essere mai partiti, dandomi l’opportunità di riprendermi, almeno per poter provare a salire al bivacco.

I primi passaggi sono nella stretta gola del Vallone di S. Spirito, così famosa per essere una feritoia dal passaggio sottile, largo quanto l’apertura delle braccia a raccogliere tutta l’intensità della roccia strapiombante su di essa.





Non si apre mai deciso, il Vallone, a piccoli tornanti lascia intravedere picchi di paesi aggrappati ai colli, sospesi allo sguardo ed emergenti dalle pareti, come fossero lì, ancorati tra la roccia e il cielo, a metter le radici nella solida pietra circondata dal verde.





E, strano ma vero, è proprio il verde che ci accompagna sin dall’inizio di quei battiti furiosi, dove il cuore lascia alla nebbia del cervello arrogarsi il diritto di fulminare l’entusiasmo. 



Ma ci vuole ben altro per bloccare la mia esuberanza di ritrovare la traccia del passato, inseguire scomparse greggi su per i pascoli più verdi ed aspri, dove il contrasto tra roccia, prati, bosco e pietre la fa da padrone, ripidi tornanti che in modo più erto ti ergono verso quella Cima della Stretta, che non si vede se non solo quando ci stai sopra.

 

Nel bosco, il passo insegue le foglie, ormai secche; i germogli che non hanno visto primavera sono già avanzati verso l’autunno, cercando nella profondità del piede ricchezza d’acqua che non c’è, solo pietrame.


A picco sulla valle sfilano le gobbe, animate dal verde più intenso, alternate agli alberi più esili, spogliati dei loro vestiti più belli da un crudele e pesante inverno di neve, e chissà, forse da un passato incendio.




Ma regna incontrastato il colore della speranza, emergente a risalto con le rocce aranciate, bucate, lavorate dal tempo e dall’uomo, incrociate a formare una cornice naturale al paesaggio di pianura, sottostante ormai migliaia di passi più in giù. 


La traccia riemerge nella parte terminale di questa lunga ascensione, che ancora ci porta ad una fonte ristoratrice, ma non per il mio corpo che oggi non ne vuole sapere di ingurgitare sostanze vitali!

E così, dopo aver espulso tutte le sostanze estranee al mio corpo, pianto i piedi, disperata, non potrei fare un metro in più, quando Stefano mi dice: - da adesso in poi è solo in piano!-. E ci  credo, così tanto che rimango incantata da quelle enormi pareti che riavvolgono la montagna, creando una casa per i viandanti e le loro greggi, la fonte, il ricovero, il canyon, quell’incasso di natura che si stringe e si dipana in un piacere incommensurabile allo sguardo, alla fatica, al riposo.




Ormai possiamo solo godere di questi spazi elevati, attorcigliati, pendenti sulle nostre teste, ma così rassicuranti, ridenti, solidali, tanto da farmi agire così familiarmente come se fossi a casa mia, a scovare il nostro amico camoscio solitario nel fosso, e ad accendere la fiamma del calore amichevole per cucinare il pasto.







Son solo chiacchiere, quelle che si consumano davanti ad un piatto di pasta, un sorso di vino, un pezzo di salame e del formaggio, tutti ingredienti che scandiscono la semplicità dell’essere in quei luoghi, e anticipano la nostra stanchezza per un riposo sotto il cielo.




Scovato il giaciglio, ognuno di noi prenota una stella nell’universo da fissare dopo il passaggio della Luna.

E guardando quell’immensità stellare, ci abbandoniamo al silenzio delle tenebre.








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