“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

AV 1 - CIRCOLARITA'


Se fuori da queste ampie mura del mondo
Si stende lo spazio
La mente vuole alzarsi a vedere
E in quel vuoto l’animo mio peregrinare.
(Lucrezio, De Rerum Natura, II, vv.1044-1047)



CIRCOLARITA’ – Viaggio itinerante intorno al Civetta






Sfera di cristallo, leggo il futuro. Appaiono montagne, colori celesti, numeri perfetti, la leggerezza del passo, il piacere dell’occhio, l’emozione dell’intraprendenza, canali, intagli, rotondità, croci, mani, ferri, zaini, voci, verde, sole, grigio, roccia, vie, inghiottitoi, acumi.....


Ci risiamo, Anna, quando fai l’elenco così è ora di ripartire, è ora di scovare frasi intere per questi sostantivi, soggetti per i verbi, aggettivi per i nomi. 
Unendo il tutto esce fuori il vissuto di una settimana al silenzio delle voci, alla cecità della bellezza, al passo della lentezza, alla grandezza della conquista.

La serie dei numeri è perfetta:


 è la nostra Alta Via, stavolta circolare, a spirale verso la cima, avvoltolata su se stessa a chiudere un cerchio;



i componenti dell’esperienza, seconda volta sul cammino impegnativo e panoramico;



numero perfetto per accompagnare i   ed i 5 
sui sentieri dell’alto percorso;


 i giorni di cammino,




 le albe lasciate al giusto riposo.




 « Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia  » 
(Inferno III 109-111)


Sotto la canicola che ci accompagna da giorni, lentamente ricompongo le poche cose nello zaino, all’insegna della leggerezza, non escludendo però il minimo di ferraglia che ci permetterà di affrontare, se mai li decidessimo, percorsi più impegnativi.
La carta mi stuzzica, e studio i percorsi, non troppo, quanto basta a permettere qualche variazione che speriamo non dimenticare.


Gino ci ha dovuto abbandonare per accompagnare altri occhi a vedere, ad Alessandro hanno tirato un colpo mancino, lui che è assolutamente destro, ed eccoci ritrovati in due di nuovo sulle tracce del passato: quelle della fortezza del Moschesin, delle poesie di Italo Rossi, dei medici alpinisti Angelini, Berti, Sperti, degli scalatori intraprendenti sulla ‘parete delle pareti’, delle ferrate storiche, degli oronimi, delle nostre tracce dell’anno passato.


Ancora siamo indecisi su come avanzare nel giro, se costeggiare a destra il sentiero Angelini, o se lanciarci nelle pieghe agordine, selvagge coste che strapiombano nel cuore della terra, spalti erbosi che, sospesi nel cielo, precipitano negli inferi della natura selvaggia, al confine del vuoto e del baratro, rilievi tortuosi perpendicolari alla linea piatta dell’orizzonte.




Questo moto circolare ci condurrà a spirale verso l’elevazione suprema,la cima del Civetta, verso quello spazio infinito sopra l’ultima pietra che sconnessa domina la Terra, in un bilico tra sicura gravità immobile e leggerezza di volo in caduta libera; questo movimento che roteando intorno a quell’ammasso di pareti lisce, compatte, indomite, ne permette la scoperta di tutti i suoi anfratti, le sue guglie gloriose, le sue ferite, il suo disordinato scomporsi nell’unità del cielo e del suo immenso abisso apicale. 






La scoperta dei suoi fianchi più nascosti, scoscesi canaloni che disordinatamente dirupano verso valle, ripidi, sconnessi, rotti ghiaioni pericolanti, vestiti di sassi instabili che al solo movimento estremo piombano rotolando a ricercare fissità sui terreni più agevoli: la libera corsa di un camoscio rompe il silenzio di questa eterea vacillazione, assicurando comunque vita a tali remoti luoghi selvaggi e solitari.



Ritornare al punto di partenza più leggeri, nell’animo e nel passo, l’occhio più ricco e la gamba più ferma; ecco il fine ultimo di questa sgambata sui monti.






In una calda e assolata giornata di giugno inizia il nostro peregrinare sulle coste di ‘sì splendida parte montana, isolata e silenziosa, lussureggiante e pietrosa, sconosciuta, seppur a tratti fin troppo nota.




segue con :  Sulle tracce del Boral


AV 1 - Sulle tracce del Boral




Da Belluno (str.Statale 203 - La Pissa)  al Rif. Bianchet: lunghezza: 5 ,600 Km; dislivello :. 645 m.

Si segue la statale 203 fino alla località La Pissa, dove inizia la stradetta con le indicazioni per il Rifugio Bianchèt. Per la salita si sfrutta il sentiero pochissimo conosciuto che transita per il selvaggio Boràl de la Forchetta. La si segue in salita, tralasciando la carrozzabile, fino all’attacco di un sentierino sulla destra, segnato da un omino.
Si tratta di una valle breve ma impervia, percorsa da un antico sentiero ancora transitabile ma segnato solo con rari bolli rossi. Lo si consiglia solo a escursionisti esperti, sia per le difficoltà di orientamento sia per il passaggio all’interno di un canalino dove non esiste sentiero e ci si deve aiutare con le mani. In Forcella il sentiero, sempre stretto ma più evidente, si tiene a sinistra, alla base di bastionate rocciose, supera alcuni tratti non agevoli e confluisce sulla sterrata per il Rifugio Bianchèt (1100 m, 0.15 ore). La si segue a sinistra, prima con numerosi tornanti e poi con salita più moderata. Superato il torrente si entra nella conca del Pian dei Gat e si raggiunge il rifugio (1245 m, 1 ora).


SULLE TRACCE DEL BORAL


Guardo sconsolata il canalone bianco che precipita davanti a me: un omino di pietre stancamente segna il cammino per poi mimetizzarsi in quell’accumulo di massi disordinati, appesi, tristemente tagliati; appoggiate al candido sfasciume arido, risucchiante, in quella discesa folle verso il baratro, le pietre non indicano la strada ma solo uno strano desiderio di calata verso l’altrettanto scintillante strada bianca, che là sotto, parecchio giù, attira più per la stanchezza che per la beltà.

Mi guardo attorno sgomenta: dopo la Forcela, in cui un evidentissimo segno biancorosso ci ha garantito la certezza del percorso, non sgorgo nient’altro, e Fernando è ormai decine di metri più in giù, pericolosamente verso l’inghiottitoio. L’accidentata discesa si fa sempre più delicata, sui sassi in bilico e detriti scivolosi, fino a che il mio sguardo, stanco di cercare inutilmente la via, si fa superare dal grido di richiamo per la strada errata. 

“Fernando, guarda la cartina e verifica che non ci siano salti di roccia, il terreno è troppo scosceso per non ritrovarci nei guai, e ci dovrebbero essere i segni del sentiero, visto che la Forcella è chiaramente segnata”.
Il ritorno erto sui nostri passi ci darà ragione sull’evidenza della via: uno sbiadito segno nascosto tra gli alberi e la parete, ci condurrà a risalire quello stretto viaz, a picco sui pendii della S’censorà.


L’estenuante salita del Boral della Forchetta giunge al termine di una corsa forsennata per ritrovarsi con Fernando alla stazione di Belluno, a lasciare in macchina le cose inutili, a prendere una linea di bus dall’autista isterico, che non pago di un pressing da ‘Duel’ con un auto, ci lascia ad Agordo, una decina di chilometri dopo l’accesso del nostro sentiero.
Accaldati e già provati da queste vicissitudini, dopo un autostop miracoloso, finalmente ci avviamo lungo la carrozzabile che ci avrebbe portato al Rif.Bianchet senza ulteriori fatiche: ma la magia della Strega è quella di aggiungere sempre un pò di sale al minestrone per renderlo piccante, ed ecco che dopo pochi metri di mie chiacchiere convincenti ci ritroviamo sui nostri passi verso il cuore del Boral.





I ricordi sono di un cammino dentro ad uno stretto fosso, quasi oscuro al panorama, circondato di intricati pini, prati, rododendri, umidità. Perdo Fernando ma non la traccia, che dritta per dritta, così come disegnata sulla cartina, si destreggia inerpicandosi sulla collina. I bolli rossi si perdono, ogni tanto riappaiono, il caldo è estenuante, d’altronde l’ora non è tra le più promettenti! Alzando lo sguardo, vedo tratti di cielo sempre più azzurro e sempre più vicino: la luce che penetra in quel bosco di aghi si fa più nitida, mentre il sentiero si riperde di nuovo...



Sfasciate pareti franose, rotte, improponibili, mi bloccano il passo, e intuisco anche senza traccia che siamo vicini al valico. La conferma arriva dal netto piegamento verso l'alto dei pini alla loro base, là nel punto dove la neve si riposa prima della sua definitiva calata a valle, quella sorta di sella che da bambini tanto ci divertiva cavalcare, con i piedi nel vuoto e lo sguardo verso valle.


Il fosso adesso è definito, muschio secco ricopre massi dove il verde lussureggiante è solo un ricordo. Un passo indietro è ancora salita, quello successivo spinge alla discesa: siamo in Forcella!


Ristorarsi sembra non servire, nel bianco e abbacinante canalone scosceso perderemo subito segni e sentiero, e quasi le forze per la forzata risalita.


Sulla traccia della S'censorà ancora gli alberi a picco la fanno da padroni sul ripido versante: vietato guardare in giù, si può fare solo dove il passo azzarda, e nel panorama sopra di noi si inerpicano le pareti dell’Alta Val Vescovà.
 













L’uscita sulla carrareccia è quasi anonima, altro bosco e monotoni tornanti ci accompagneranno fino ai verdi prati dove sorge il Rifugio: quasi un miraggio, già annunciato da un ragazzo in pantofole lungo il sentiero, che molto ci dice sulla vicinanza del rifugio.




Il tramonto è sulla Gusèla, quel dito roccioso ammonitore, al centro dell’universo selvaggio, aspro, difficile, svettante nell’immenso circondario di pareti, solitario gioiello nella sua elegante maestà.





La nostra strada l’indomani si dividerà da quella dell’altro ospite, noi a ricercare il verde riposante dei prati e i richiami delle marmotte, lui sulla cima del monte Coro dove terminerà il suo vagabondare in solitudine su quegli aspri e isolati monti.



segue con: La cima senza Nome