“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Fumo negli occhi - Vietnam



Ancora frastornata dal rombo dell’aereo, lascio vagare il mio sguardo vacuo in quel misto di figure grottesche, enormi, incombenti, senza riuscire a comprendere il significato intrinseco che forse possiedono.



Catapultati da Milano ad Hong Kong e poi ancora da lì a Saigon, il caldo asfissiante carico di umidità ci investe già dall’aeroporto, spossandoci molto più di quanto ormai siamo dopo quasi 12 ore di volo. Ma non possiamo riposare, altrimenti vorrebbe dire sfasarsi per altri giorni, portandosi appresso il jet lag, e trascinarci in questa città sconosciuta come fantasmi. 

La decisione è presa: cominciamo dalle pagode a visitare la città, quelle più lontane, così nei giorni successivi ci possiamo godere l’intera città senza dover schizzare troppo velocemente da un polo all’altro dei suoi 22 distretti!



Sono sempre atterrita dinanzi a ciò che non conosco, e queste figure gigantesche non mi ispirano proprio serenità, ma piuttosto confusione, smarrimento, incomprensione. 


Un ambiente colmo di fumo rende l’aria pungente, annebbiata, sfocata, e quell’insieme di legno scuro, caratteri sconosciuti sulle colonne e sulle porte, ceramiche dai tratti indistinguibili, statuette di dei, lasciano cadere ogni sorta di razionalità: bastoncini infilzati nella cenere o tenacemente congiunti nelle mani dei devoti distribuiscono profumi penetranti saturando l’aria; le candele, oltre all’offuscata luce artificiale, espandono solo poca illuminazione, lasciando nell’oscurità inquietante quelle figure mastodontiche.




Fotografo tutto ciò, con l’occhio e il digitale, nella speranza di dargli un senso dopo, quando, a mente riposata, riuscirò a collocare figure, sguardi, gesti e volti in una sequenza se non proprio logica, quantomeno sentita. 




Scoprirò che la prima pagoda al caldo e al fumo di Saigon è quella dell’Imperatore di Giada, anticipata da un ampio cortile con la vasca delle rane. Tutti i suoi elementi caratteristici li studierò successivamente, e il risultato di ciò è come quello del mio stato animo in questa circostanza: deformato, confuso, ovattato.



Le parole di Marina nella lettura del sapere mi colpiscono sulla stanza della fertilità: il mio pensiero corre alla nipote che ho lasciato in patria proprio all’inizio della sua maternità, e scelgo quelle statuette come soggetto del mio felice augurio per lei.

Per arrivare alla Pagoda di Giac Lam ricordo una contrattazione, anch’essa non proprio precisa, sicuramente per noi assai costosa, ma tutto questo sempre con il senno di poi; resta anche qui la sensazione di un ciondolamento nel cortile, circondati da piccole e grandi figure buddiste, panchine, giardinetti, tombe maestose i cui caratteri scritti non proprio comprensibili sono gli unici elementi che ci riportano alla realtà  dell’essere in viaggio, di calcare con i nostri piedi terra vietnamita, come in un sogno.






E in questa favola nascente mi spingo con poco entusiasmo all’interno della Pagoda; anche qui l’ambiente è quasi opprimente, cupo, incomprensibile: un’infinità di statuette dorate, il legno scuro, quadri raffiguranti scene e personaggi, devoti che pregano in prossimità di altari che se non fossi stata all’Est avrei definito stile barocco, così come le decorazioni dorate circondanti tutti gli elementi del tempio. 



I quadri delle riproduzioni degli abati si mescolano al busto dorato di Ho Chi Minh, le offerte adornano tutti i baldacchini dipinti di legno scuro, si susseguono statue raffiguranti le rappresentazioni di Buddah con i suoi seguaci e difensori, tutto racchiuso in luce dorata, come a voler comunque far risplendere l’aurea religiosa che propria si addice al santuario. 




Sono più confusa che ammaliata, non sapevo cosa aspettarmi, ma non certo questo, un pizzico di delusione latente che presto scomparirà con il riposo.





Saigon dall’alto attende i nostri complimenti con la sua birra 
in mano,



e ci godiamo stanchi e sereni questo tramonto infinito sui suoi grattacieli fino a che le palpebre chiuse mescoleranno i nostri sogni all’incantata realtà.