“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Il Deserto di Wadi Rum









L'avventura del sole - Crome





“Svegliarsi ogni mattina in un punto diverso del vasto deserto. Uscire dalla tenda e trovarsi davanti allo splendore di un nuovo mattino: tendere le braccia, stirarsi nell'aria fredda e pura; riempirsi di luce e di spazio; conoscere, al risveglio, la straordinaria ebbrezza di respirare solamente, di vivere solamente... “

Pierre Loti



L’AVVENTURA DEL SOLE

CROME


L’aria è fredda e i contorni dell’ambiente sono già definiti quando sollevo la tenda del campo beduino. L’oscurità potente che ha circondato le rocce si è dissolta, lasciando il posto ad un timido chiarore sfumato, immerso ancora nelle scure ombre quel tanto che permette ai miei piedi di allontanarsi dal calore del giaciglio per sprofondare nel mare di sabbia.

Vagare nel silenzioso spazio indefinito subito dopo le tenebre mi ha regalato la volontà di alzarmi ogni mattina a cercare l’inizio di una giornata stupefacente alla scoperta di queste distese desertiche, interrotte casualmente da imponenti pareti compatte, o da fratturate composizioni arenariche, investite di tonalità esplodenti tutto il rosso dell’anima.


Il mio sguardo non si stacca dal terreno, cerca ed interpreta i segni viventi scritti da altri corpi: una corposa curvilinea continua circondata da punti alternati mi fa rabbrividire per la sua viscidezza; un’ impronta tripede saltella costante fino a dipingere una sosta nel terreno, smosso e scavato quanto basta a dissolversi nel nulla; gigantesche orme avvallate mi rassicurano sulla identità animale che sprigionano. Dove vanno non si sa, ma perdersi è loro prerogativa, così come trascinare uomini nel mutabile mondo del deserto è l’unica certezza per la sua sopravvivenza, inseguire l’ignoto disperdendosi nel noto, cadenzare il suo passo con quello della vita è la sua salvezza quotidiana.


Sono comunque attratta dal punto più alto di una conformazione rocciosa caduta dal cielo al centro del deserto, così bucata che cerco di individuarne le minori asperità di salita per contemplare l’intorno dall’alto.



LE OPERE DI DAVID MAISEL

Tra conservazione, contaminazione e sublimazione, l’ombra della Storia

 

 

 

Per caso mi sono imbattuta in alcune foto su una rivista che hanno attratto la mia attenzione, non soltanto per la tecnica fotografica ed i colori, ma per le loro sorprendenti didascalie: il mondo antropizzato visto con gli occhi delle foto aeree di David Maisel. 

Non essendo un critico d’arte, lascerò parlare da sola la sua visione stupefacente della realtà, dove  corrosione, devastazione, antropizzazione, inquinamento e tecnologia si collazionano nei suoi scatti trasformandosi in arte.

 



History’s Shadow

Rielaborato da :  http://www.domusweb.it/it/art/l-ombra-della-storia/

 

“ Nel 2007, mentre era artista residente al Los Angeles Research Institute, al fotografo David Maisel capitò di scoprire un tesoro di materiali che sarebbe stato la base di un nuovo, enigmatico progetto: migliaia di radiografie dell'enorme patrimonio Getty di scultura classica e oggetti antichi di tutto il mondo, realizzate a scopo di ricerca e conservazione, fecero intuire a Maisel la possibilità di un progetto di rifotografia senza precedenti. 





Selezionando repertori di esemplari di quell'istituzione, e in seguito dell'Asian Art Museum di San Francisco, Maisel usò le radiografie come punto di partenza di nuove foto a colori che comunicano un'energia indicibile.[..] 


L'ambigua qualità suggestiva di queste immagini nasce da una somma di fattori senza paragone. Processi tecnologici e ottici (radiografia, fotografia) penetrano in oggetti artigianali del lontano passato (sculture, immagini devozionali, recipienti) comprimendone le qualità dimensionali, materiali e storiche in un'unica sfera di spiritualità: particolari interni, come armature e chiodi, spiccano nettamente; lacune più scure conservano zone di mistero tenebroso.


OTTombrate veneziane

Se viaggiamo, oltre a trovare gli altri, ritroviamo noi stessi...




goditelo a schermo pieno...

Affogati

Preambolo dal 1995



Canale Rionne sul Monte Infornace:

la risalita del canale è per Bruno sempre un’esperienza impegnativa: talvolta il crepaccio aperto lo impressiona, talvolta lui prende il coraggio a due mani, e con esse si slancia alla conquista delle “tacchette” su cui salire, altre volte è un cordino miracoloso che molto può agire sulla sua psiche di uomo, o ancora è un complicarsi la vita su ‘facili roccette’, che proprio facili per lui non sono.




Ma sempre, sempre, l’invito di quel canale storto, contorto, appagante, attraente, suscita in lui il tortuoso ardire della conquista, della soddisfazione e dell’ esclusivo compiacimento alpinistico, tanto da abituarci al suo: “Aspetta un pò!”, di cui sentiremo la mancanza quando la sua futura consapevolezza alpinistica ci negherà tale richiamo.




25 Maggio 2008        Traversata Canale Rionne – Vallone di Fossaceca



E forse quel giorno è arrivato: “Anna ti aspetto”. Le mie orecchie increduli hanno difficoltà a comprendere queste parole che riecheggiano nel silenzio del canale, dove solo l’acqua, in tutti i suoi stati, appare, scompare, è compressa, si espande, scivola, è immobile.
Nel giorno della mia settima ripetizione di questo splendido Canale sono lieta di ascoltare queste note musicali, dopo aver assistito ad una vestizione per affrontare il famoso scoglio: oggi c’è acqua corrente che spacca in due il terreno, ed una dritta paretina che movimenta la salita.
Da lontano lo snodarsi del Canale è suggestivo, un lungo millepiedi di operose zampe: a piedi, con gli sci, con le tavole, ramponati, liberi, variopinti, italiani, stranieri, locali, uomini e donne, stranamente nessun cane.






Prima perla



Prime luci :




un neonato dalla culla,

lo sguardo rivolto verso l’alto cattura 
sfavillanti fiammelle.



E’ la luce dell’ universo, l’immensità del cielo, lo scintillio delle stelle,
il  silenzio della vastità.



Primi passi…

Trasparenze

Ho ripescato dal calderone una bella giornata sui Monti della Laga:


Giro ad anello:
da Fonte delle Trocche, La Storna per il Fosso della Cavata fino a  Pizzo di Moscio, Cima Lepri, Valle del Castellano
23 Maggio 2009, con Maurizio, Lorenzo, Ilario, Mariangela, Silvia





TRASPARENZE




I gialli raggi del sole sono tutti racchiusi in una luminosa palla infuocata.
E’ sparata di fronte a me e mi viene incontro. 



Mentre mi godo il calore dei suoi contrasti la gioia si impadronisce del mio corpo e, finalmente, mi rendo conto che sto scappando da questa quotidiana frenesia, lo zaino pieno delle mie solide speranze a trovare certezze, a scoprire quegli angoli nuovi che sulla Laga si possono scovare: il selvaggio, il verde, l’incontrastato panorama, il suo vertiginoso strapiombo, il suo stratificante spazio roccioso, sovrapposto, scomposto, ripidamente ordinato.

Poco importa se dobbiamo fendere a velocità adeguata la strada con i fari nella notte più oscura, se Lorenzo deve ascoltare le mie incessanti chiacchiere spassionate, se Emma pazientemente ci aspetta anche quando dovrebbe essere coricata da due ore, se il vento alza il turbinio dei fiori di robinia regalandoci una continua danza di mulinelli bianchi, leggeri, silenziosi, fluttuanti, se le curve seguono l’orografia dei luoghi e il tuo stomaco con loro, l’accoglienza di Pietro ed il ricongiungimento mattutino con chi questa giornata non se la vuole perdere. E non ci fermano i chilometri a piedi da fare per un rientro senza neve, la calda giornata che si presagisce, la sistemazione delle macchine per la traversata: siamo lì a mettere pelli, a lasciare il materiale inutile, a spogliarci adeguatamente.

Finalmente lo scarpone calpesta questa terra dai nascenti germogli, ancora tenui nei colori, ma consistenti nell’essenza; prati di ranuncoli gialli si scoprono ad ogni avvallamento sinuoso, colorate orchidee spuntano con i loro racemi a dominare i pascoli erbosi, emergenti da pietre lastricanti l’ondulato e argilloso terreno.

Mentre mi godo questo sfavillìo di infiorescenze emergenti, un suono incessante, eppur costante, si fa strada in quell’oblio di verde: la neve grigia, sporca, rilucente è mollemente ammassata in questa enorme cavità rocciosa, si erge ripida nei pendii opposti, è attorcigliata alle pareti laddove le rocce sporgono in fuori a tentare di non cadere nel vuoto. 


E un pensiero sovrasta prepotente la mia mente, un ricordo ancora vivido di altre pieghe pirenaiche, del tutto simili a queste, nella bellezza, nella deposizione, nei colori, immerse anch’esse nella turbolenza degli schizzi, nella prorompenza della gravità trasparente, nei salti rocciosi a conquistare i vuoti e a riempire gli spazi di minuscole particelle bianche, gelate, bagnate, trasparenti.

Ci si allontana per riavvicinarci, ognuno è padrone della propria via, ad inseguire i pensieri, l’ambiente, il passo, il tempo.

Il mio è scandito da un continuo mirare a ritroso, guardo in giù mentre vado su, come se il mio corpo rifiutasse di partecipare a questa nuova scoperta. Ma vince la mia tenacia, la teoria dei piccoli passi, sapere che Maurizio è sul confine della beltà e basta poco per raggiungerlo. Seguo con gli occhi sci e fisici che, alzandosi, affrontano gli ultimi metri prima della doppia religiosità, e scelgo la via diretta, più faticosa per altri, ma che per me è diventata uno stile di salita; con il pesante fardello sulle spalle mi unisco alla compagnia gustandomi una caramella morbida alla liquirizia……offertami da una strega, ammaliandomi!

Si riparte verso il vento, quell’alito trasparente che circonda la materia, da essa fugge per trascinare ora verso di te, ora via lontano, le timide paure di una sottile cresta, i cui fianchi si allargano quel tanto che basta a renderli verticali, strapiombanti, sfuggenti, inesistenti, pur consolidandosi in un’unica parete.

Sei costretta a distogliere lo sguardo: Lorenzo con tre curve è appeso ad un sottile strato di neve nel vuoto, traversando delicatamente quel mondo sospeso di cui non si vede la fine ma se ne intuisce il risucchio. Sottovoce, come a non distrarlo da quella delicata incoscienza, mi allontano a cercare con altri occhi analoghi strapiombi vicini e lontani. Lo sguardo spazia a digerire quei rivoli bianchi che riempiono le pieghe precipitose di questi picchi, di queste enormi cenge sospese nell’aria. E ancora più in là a scorrere le cime note del Massiccio Abruzzese: la Vetta Occidentale, il Corno Piccolo, Pizzo Cefalone e parte della cresta delle Malecoste, Pizzo Intermesoli con la sua splendida discesa ovest, tutta la candida cresta del Monte Corvo con i suoi imbiancati e pieni anfiteatri, gli adagiati canali, perfino il lontano Pizzo Camarda…….Spettacolo di cime imbiancate addormentate al sole…

Ancora spicchi di roccia e verde in traverso, obliquanti lo spazio, perpendicolari ad altre verticalità; vorresti essere lì, sulla lama affilata a dominare il vuoto, a lanciare un grido che si perde nell’aria e da essa raccolto, custodito e rilanciato. Ma con l’occhio segui i contorni in salita di questa selvaggia montagna: Cima Lepri è lì a portata di gamba e non è sola.

Dalla cima, altra acqua è l’interprete principale di questo mondo sospeso: il lago di Campotosto e il piccolo lago di Scandarello, azzurre vasche riflettenti i colori ormai decisi di questa avanzata primavera.

Il tappo che salta, i calici e il cristallino vetro a coronare lo sforzo e a rinsaldare conoscenze, amicizie, sguardi, battute, dolci, formaggi, e un fiume di parole, racconti, sole e brezza.

Tutti indifferenti alla discesa, tutti già pronti per il gran finale, a far scorrere gli sci, a trovare il passaggio giusto, la velocità, la gaiezza, la beltà.





La neve che corre from casalini maurizio on Vimeo.


E gli occhi di Cip e Ciop quieti fino a quel momento si risvegliano lucidi di sì manifesto incanto: la luce trapassa la neve, la scalda e la riflette; le rocce disegnano con la loro veste il nostro correre incontro all’incredulo, il loro confluire nel nulla, la nostra caparbietà nel credere, nello sperare ed infine nel racchiudere nel nostro cuore tanta, infinita e immacolata assurdità di contrasti, pendenze, perfezione, vastità.

La forza della natura ci si para davanti all’improvviso: la pesantezza della sua naturalità fangosa chiude la nostra spensieratezza, avvolgendoci in un anello pietroso dove solo al trasparente fluido è lecito passare….e a Lorenzo!

L’ultimo sguardo è al di sopra di noi, al cospetto dei superbi spalti di Pizzo di Sevo con i suoi ripidi passaggi, le sue cascate, i verdi prati, la roccia strapiombante, i rami intrecciati, il sole abbacinante, la confluenza delle acque, quell’incessante scorrere tumultuoso che allarga la neve per vincere lo spazio, luogo che non potrà mai essere la sua casa perché è già schizzata via, giù verso valle.

Sarà il frastuono delle sue particelle urtanti i confini a cadenzare il nostro passo fino alle placide pendici di questo ambiente naturale, ormai già maturo nel suo lento percorso, ma ancora troppo giovane per confonderne i colori.

L’esplosione di vita del bosco accompagna l’ormai affaticato movimento verso il riposo, il ristoro, il brindisi di rito alle prime streghe, alla memoria telematica di Ilario, al dignitoso piatto di fettuccine di Lorenzo, all’immortale occhio vagante di Maurizio,

e alle mie parole che catturano in un solo colpo i russi e rossi simboli dello stare bene insieme, passato e presente, consistente e fluido, corposo e dolce,
racchiuse per tutti in un fiore all’occhiello, lei, la genziana, simbolo floreale della montagna per eccellenza,

donato a voi con tutto il cuore,  
dalla vostra Derspina  




Alta via n.1: Croci

segue da: Montagna sgretolata dalla Storia

 Leggi con la musica del coro
 
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Coro Enrosadira, gli alpini e comunita di Moena al Passo Lusia e Val Minera



3° Giorno.  Dal Rifugio Lagazuoi al rifugio Giussani

da Cima Falzàrego passando per Col dei Bòs, ai piedi della celebre e tragica fortezza rocciosa del Castelletto, famosa per gli eroici eventi della guerra 1915-18.





Non sei che una croce
(di R. Pezzani)


Nessuno, forse, sa più
perché sei sepolto lassù
nel camposanto sperduto
sull'alpe, soldato, Caduto.

Nessuno sa più chi tu sia,
soldato di fanteria;
coperto di erbe e di terra,
vestito del saio di guerra,
l'elmetto sulle ventitre.

Nessuno ricorda perché
posato la vanga, il badile
portando a tracolla il fucile
salivi sull'alpe; salivi
cantavi e di piombo morivi
ed altri morivan con te.

Ed ora sei tutto di Dio;
il sole, la pioggia, l'oblio
t'han tolto anche il nome d'in fronte.
Non sei che una croce sul monte
che dura nei turbini e tace
custode di gloria e di pace.







“Ho fede che tutti quei cimiteri di guerra, segnanti le tappe tragiche dell'eroica ascensione delle fanterie italiane verso le vette delle Alpi Dolomitiche, siano stati religiosamente conservati. I soldati non avranno mai, e in nessun altro luogo, sepoltura più onorata del terreno sul quale caddero combattendo.

Voi, alpigiani, e voi, appassionati della montagna, escursionisti e sciatori, passando di là in qualche bella giornata di sole, affaticati dall'erta di sentieri impervi e pericolosi, sosterete alla loro presenza. 


Col fiato grosso e col cuore in tumulto, fissando gli occhi su quelle croci, sarete compresi dell'indicibile fatica e dell'eroico coraggio di quei fanti che attaccarono quelle montagne biancheggianti di nevi e incrostate di ghiaccio. Essi, anche sotto la furia delle tormente e l'imperversare delle tempeste paurose, raggiunsero quelle vette e, con le baionette e con la dinamite, le strapparono al nemico, che le difese con ostinazione, al riparo di opere militari munitissime e apprestate con ogni insidia ...




... Di qualunque paese voi sarete, escursionisti od alpigiani, davanti a quelle croci, in quel luogo grandioso e selvaggio, vi sentirete stringere il cuore, e sarete compresi da un senso di grande ammirazione ...”

                                                           

                                                                  Ugo Cappuccino
                                 (Volontario Brigata Alpi)



Croci

Oggi la terra è silenziosa. Non un frastuono di mina si sente nell’aria, non polvere  spessa e soffocante si solleva nello spazio circostante, nessuna luce intermittente avverte il soldato dell’imminente scoppio: solo una calma spaventosa regna, e poca erba cresce ai piedi della croce spinata.

Due lunghi inverni hanno visto passare volti emaciati dal freddo e dalla fame; leggi dell’astuzia e della tecnica ingegneristica hanno consentito piccoli avanzamenti in un territorio sventrato dalle mine e dalla natura; strategie di guerra e abilità alpinistiche hanno spinto innanzi piccoli gruppi d’ardito coraggio, che mai avrebbero abbandonato il loro incarico neanche con la sopraggiunta morte; nuvole fresche di violenza inaudita hanno scaricato a valle la loro furia omicida, stanca e fresca neve che contrasta l’avanzata e al contempo incanta lo stremato soldato.

Filo spinato a segnare la trincea: quel labile confine tra la speranza e la morte, l’orgoglio e la conquista, la rassegnazione e la ritirata. Piccoli passi verso fugaci linee nemiche, per la conquista di un versante, di un fianco, di un canale.   Mai di una cima.

Elmetti che si incontrano sottoterra, nel ventre della montagna, nei corridoi a tunnel, non a progredire in avanti, ma a far crollare ancora più profondamente quel luogo già instabile per i tremendi colpi inferti dalla natura, dalle intemperie, dall’artiglieria nemica, dettati dalla speranza della sopravvivenza.

Coscienze umane si incontrano sulle pareti, si aggrappano a quei fatui appigli rocciosi, esaltando la nebbia che cela la loro presenza e garantisce la buona riuscita della sorpresa azione, quell’ardita impresa guerresca che molto spesso terminerà in una brusca ritirata di lì a breve.

Ma questa guerra di morte ha conosciuto la vita una ad una, il dolore, la fame, la stanchezza, la tenacia, la rassegnazione, ma mai la sconfitta del singolo soldato. Ogni passo indietro del nemico è stata una trincea avanzata di caparbietà nella vittoria sulla montagna, sul gelo, sugli stenti, sul quotidiano futuro.


Conquistare un fianco di parete è stato ogni volta pari ad aver fatto sventolare la bandiera sulla cima; artiglieria che supera ostacoli pietrosi e insormontabili, e ciascun soldato carico del proprio pesante fardello vince la sua battaglia contro quelle forze naturali ed umane che gli garantiranno la vita, e con essa il ricordo.

Oggi, noi spettatori di quel domani ci facciamo carico della memoria di altri: nel ritrovare una lamiera o una scatoletta arrugginita riportiamo in vita quella miseria di guerra, episodi funesti di Storia italiana e straniera stampigliati nelle pieghe del cervello di chi è rimasto su questa terra a raccontarne la disperazione o a cancellarne per sempre la tragedia.

Tanti sono stati, troppi ne abbiamo persi sotto l’incitamento dei loro capitani, tenenti, caporali, generali; a centinaia sono rimasti lassù, a non doversi arrendere neanche davanti all’evidente sconfitta, nello stupore di essere ancora vivi dopo aver sfiorato il nemico ed aver incrociato il suo sguardo, quel fugace scintillìo di pietà umana che talvolta sopravvive nelle storie più inverosimili di civile solidarietà.

Italiani e Austro-ungarici, sfilate di uomini in divisa ciascuno a baluardo della propria e personale linea di confine, quell’aleatorio vuoto che oggi è pieno di vittoria, domani è inghiottito nella disfatta. Fratelli nell’ordinaria giornata di un giorno di pace, tatticamente feroci nemici in un giorno di quotidiana guerra di posizione.

Artiglieria, muli, vettovaglie, legna da ardere, corde, tende, sigarette si mescolano agli animi affranti dalla lontananza degli affetti, troncati da un destino incognito, restando solo fucili e baionette imbraccati a puntellare lama e proiettili nel coraggioso cuore nemico.

Albe e tramonti si susseguono nello stesso grigiore, lampi temporaleschi nella notte si confondono con le luci degli schioppi o con i potenti colpi di granate, urla di vittoria irriconoscibili nelle detonazioni della montagna, furiosi blocchi di calcare che sbarrano la strada e creano vie di fuga o di avanzamento per una libertà mai evidente, così come silenziosa  e sotterfuga può essere la vittoria.


Filo spinato intorno alla croce, unica difesa di un gelido abbraccio concesso ai caduti, che lì resteranno a memoria d’acciaio, intrecciato ciascun ago per ogni vita rimasta lassù, a braccia aperte a circondare scenari di frantumi naturali e umani, pensieri inimmaginabili e realtà vissute.

Alzo lo sguardo dei miei pensieri e vedo lei, lontana, vicina, a Sud, ad est, e anche dal lontano ovest: è la croce della Rozes, alto pinnacolo che si erge fiero su tutto lo scenario ampezzano. 


Qualunque lato della Regina delle Tofane incontri, lei si staglia dappertutto, a ricordare che c’è, testimone di vicinanza al cielo e alla vittoria, alla speranza e alla fatica, alla soddisfazione e alla grinta, unica veste di spigoli e pilastri che la sostengono per oltre 1000 metri di parete, frastagliata, corrosa, a tratti solida e impertinente.






Dopo quieto girovagare nella Storia, lascio correre lo sguardo a quelle strapiombanti pareti che appiccano vie famose di tutto rispetto, attirando arrampicatori e salitori di tutto il mondo, non ultima in questo giorno la nuova via aperta dagli sloveni.


Affronto i larghi tornanti sempre con l’occhio attratto da queste guglie che precipitano verso il cielo, nell’appiombo dell’aereo abisso, pareti verticali che svettano confondendosi nel colore delle sottostanti ghiaie. Sopra di esse, nevai che dalle forcelle scendono imperfetti come scivoli a delimitarne la cornice.


Ai piedi delle bandiere del rifugio, ascolto trasecolata il suono della sponda che sibila al fresco vento: guardo l’incanto di questa Forcella stretta e arroccata ed immagino schiere di soldati che silenziosamente abbandonano il loro territorio di conquista, lasciando nelle fredde postazioni solo gelo e disperazione.
Ma quella croce onnipresente ci accompagnerà ancora nel giorno che verrà, a ritrovare l’immagine di giorni sereni in cui la Storia ha restituito a ciascun soldato la propria civile dignità.



Segue con : Enrosadira, la Leggenda del Rosengarten

Alta Via n.1: Acqua e dialoghi


DA UN PATRIMONIO DELL’UMANITA’ ALL’ALTRO



Dolomiti care, incanto delle Alpi, gemme del mondo, superba fusione dell'orrido con il divino, sublime architettura di un paesaggio da sogni.
                                                                                                                                       Giovanni Sala   (Capitano degli Alpini)



LUNGO I SENTIERI DELL’ALTA VIA DELLE DOLOMITI

di Piero Rossi

 

“Qua e là dove la montagna è rimasta ferma ai tempi dei pionieri, e solo i camosci vivono indisturbati, esistono difficoltà maggiori, per lo più di ordine psicologico, date dall’isolamento, dai notevoli dislivelli, dall’ambiente severo, dalla mancanza d’acqua, dal grande silenzio… E dalle nebbie che spesso calano veloci ad ovattare l’ambiente!
Comunque sia, questa Alta Via passa per luoghi veramente straordinari e unici, nel cuore selvaggio delle Dolomiti.”(Italo Zandonella Callegher)


1° Giorno. Dal Lago di Bràies al Rifugio Biella alla Croda del Becco
Dislivello: 900 m ; Lunghezza: circa 6 chilometri

Acqua e dialoghi

Cosa avranno da dirsi di così intenso questi cieli sopra di me lo scoprirò solo più tardi, quando il pianto ininterrotto di ciascuno di essi mi convincerà della solitudine dei loro sentimenti. Per adesso che devono rassicurarsi solo di non essere soli, che la loro disperazione è condivisa con quanti hanno deciso di solcare queste terre silenziose a picco su altri specchi d’acqua, il loro frastuono mi garantisce la compagnia di salita. E l’unione di queste lacrime fa sì che il dialogo dei cieli sia schietto e potente, circondato da un alone di contrasti tra roccia, nebbie, soffi di vento e neve.
Come ci sono finita a portare in giro 13 chili di sofferente peso sulle spalle, proprio non lo so. Il dato certo è che mi sono ritrovata entusiasta alla stazione di Pescara, in piena notte, tra lo zaino gigantesco di Gino e quello più adeguato di Fernando, alla volta del Lago di Braies, specchio d’acqua di verde splendente circondato da strapiombanti pareti.
Eh già, l’idea e la realtà è quella di affrontare la più classica delle Alte Vie, la prima, la numero 1; quella che ti dovrebbe far entrare trionfante a Belluno, dopo aver macinato chilometri di sentieri, ferrate, guglie, panorami, tramonti, varianti, marmotte.
Ma per adesso la verità è un’altra: il peso sulle spalle mi inchioda al terreno, ascolto la furiosa ira dei cieli che ce l’hanno con qualcuno, ma per fortuna non con noi, visto che la loro discussione è poco fuori dal nostro percorso, anche se la mia ansia cresce ad ogni schicchera di quel collerico vociare.
La mia atavica paura dei temporali mi fa camminare a scatti con il viso alto, a contemplare alternativamente con fermissima apprensione quei pinnacoli frammentati in forma di alberi, tesi e mozzi verso il cielo, bruciacchiati ed isolati, ed il collo rincarcato verso il terreno sconnesso sotto i piedi. I flash che si susseguono non sono l’aprirsi e chiudersi del mio occhio, ma lo scintillio delle risate generato da quel divertimento giocoso degli ampi spazi grigi che lassù continuano a divertirsi alle nostre spalle.
Cascate d’acqua dall’alto, molto più copiose, irrompono nella stretta valle andando ad alimentare ruscelletti che scompaiono nelle viscere della terra; mi ritrovo a parlare la lingua degli stranieri con un cacciatore (?), ampi sorrisi per un’incomprensibile idioma, mentre ascolto disperata i tremori della terra.
La ricongiunzione con i compagni di cammino è nella valletta verdeggiante cosparsa da isolati e giganteschi massi, scenario lunare in quel plumbeo paesaggio, ma il disseminato e  cospicuo percorso di ancora isolati e slanciati alberi non mi tranquillizza per nulla. La salita riprende più dolce e più aspra: è questa roccia così fessurata, incombente, appagante che mi incanta, tanto da non sentire le gocce d’acqua più abbondanti che cascano da quel cielo parlottante.
Chiuso il paesaggio ed il panorama, si procede in un ambiente selvaggiamente roccioso,  tra acqua che ormai scende lungo il corpo e su ogni dove; rimbombanti discussioni che si alimentano sulle creste ai nostri fianchi, accelerano involontariamente il nostro passo verso l’uscita dell’anfiteatrale Forno.
Alla Forcella cedo, un attimo di riflessione all’involontaria ricerca di quella tanto decantata dalle guide cappelletta votiva, ma una fragorosa esortazione mi costringe a precipitarmi verso quello sventolìo di bandierine miste, nepalesi, italiane, ladine, che circoscrivono l’accogliente rifugio.

Zuppi ma contenti, il tempo implacabile ancora si prende gioco di noi, impedendo all’irrequieto Fernando di giungere in cima alla Croda, ormai avvolta dalla più completa umidità dell’aria, lasciando a me l’ingrato compito di gustarmi una delle più buone torte alle noci che abbia mai assaggiato in vita mia!

E sulla speranza di una giornata migliore per l’indomani calano le nebbie sulla valle, lasciando scoperte cime e picchi a custodire l’ampio, grigio, plumbeo cielo.




segue con : Acqua e Silenzi