“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

FEMMES “BATISSEURS” d’Afrique

Burkina Faso - BENIN


L’AFRICA DEL BIANCO E DEL NERO





FEMMES “BATISSEURS” d’Afrique




Ormai è consuetudine che io riservi la prima attenzione dei miei viaggi alla parte femminile del pianeta che sto visitando. Forse per una presa di coscienza tardiva di me e della mia condizione sessuale, o semplicemente come scriveva un cinese, perché le donne sono l’altra metà del cielo ed essendo io una di loro mi sento con queste solidale: in un mondo prevalentemente maschilista – e non maschile – non si può sorvolare su una realtà così femminilmente conclamata.


E, soprattutto, quando la mia attenzione è catalizzata sulle donne riesco anche a percepire le variegate sfumature del mondo degli uomini, personaggi che molto spesso sono ai bordi delle pagine dei miei scritti pur essendone protagonisti: come nello Yemen, sono uomini coloro che trascorrono la giornata a masticare allucinogeni, o in Africa, quelli che riflettono sotto i grandi alberi fumando la pipa o intagliando legni, o giocano all’ombra dei camion a mancala, o sono nei campi a preparare il terreno per i lavori delle donne.


Ho visitato troppe nazioni in cui la figura femminile spiccava già in risalto poco oltre l’aeroporto: a trasportare sulla testa ogni sorta di manufatto, dalla legna, all’acqua, al cibo. Sembianza così tanto strana e inconsueta per noi occidentali che diventava immediatamente oggetto di considerazione fotografica alla stessa stregua di un animale sconosciuto, forse per via del colore diverso della pelle, o perché costituisce un bel soggetto fotografico in contrasto con la nostra realtà, o ancora perché vogliamo catturare in un colpo solo tutte le sue espressioni di vita, anche le più disperate.


La mia personale consapevolezza nei confronti delle donne l’ho avuta all’inizio del viaggio nello Yemen, quando mi sono resa conto che fotografare umani veli neri non esprimeva l’effettiva condizione vissuta da quel mondo femminile silenzioso, ma evidenziava solo l’ apparenza oscura di un modo di essere donna per poter sopravvivere ad un pianeta maschile. La stessa sensazione l’ho ritrovata in Iran, dove l’obbligo del velo può rappresentare per colei che lo indossa quell’unico spiraglio di libertà conquistata e sottratta ad un dettato religioso troppo rigido.


Questi sono alcuni dei tanti motivi per i quali nelle mie foto sono rarissime le immagini femminili, dei loro splendidi volti e delle loro magnifiche espressioni. Mi calo sempre più spesso nella loro situazione di ‘centro dell’attenzione’ così tanto da farmi sentire strana se analogamente dovessi puntare l’obiettivo contro me stessa. Questa sensazione sgradevole mi permette di non rammaricarmi troppo se non lo faccio, anche se ho una forte tentazione anch’io di metter mano all’oggetto immortalatore. Nei casi in cui fotografo un soggetto femminile, è solo per ricordarmi una percezione legata a quello scatto, o per il piacere di donare alle donne disponibili che incontro un po’ di gioia ai loro volti mai specchiati nella realtà, e che molto spesso non conoscono la frivolezza del compiacersi dinanzi alla loro espressiva immagine. Sono sempre stata ripagata per questo, sia che io abbia scattato o no la foto.


Questo del Burkina-Benin non è stato il mio primo viaggio in Africa, ma ovunque in questo continente ho avuto modo di constatare che, sebbene i lavori e gli incarichi siano diversi, l’atteggiamento delle donne nei confronti della Vita è totalizzante. Il procreare, l’accudire i propri figli, preparare i pasti, coltivare e vendere povertà, governare l’ambiente familiare, curare il bestiame, soddisfare i desideri matrimoniali sono tutte azioni che diventano il quotidiano scorrere delle giornate e degli avvenimenti, raccontati al mercato, vissuti nell’ambito dei villaggi, condivisi con chi si ha vicino, o nella solitudine dello scorrere delle ore.


La Maison du Brasil di Ouidah ci accoglie, in collaborazione con il Musée de la Civilisation del Canada, con una mostra sulla donna africana: uno sguardo puntuale su alcune condizioni femminili in Africa e nel mondo. Colleziono un altro libro da aggiungere alla mia biblioteca personale sulle donne, un altro piccolo pezzo di bagaglio culturale che peserà nella mia esistenza, ma che non sarà gettato neanche quando la schiena mi si incurverà come la più dritta e slanciata donna africana. Realtà, quest’ultima, che per adesso è solo un sogno.


E qui, nella Terra del Burkina F. e Benin la Vita è sostenuta da colei che porta sempre con sé il suo essere donna, l’essere madre con il bimbo in ventre o sulla schiena, l’essere moglie, svolgendo con le parti del corpo tutte le funzioni della vita e dell’amore, per 20 ore al giorno.
E’ colei che fatica, che si sacrifica, che gioisce, che caricandosi il peso del Biloko, la cesta che contiene i suoi strumenti quotidiani, sfama l’Africa pur non avendo nulla.


Fiumi di parole travolgono le donne africane sull’analisi della loro condizione, del ricercato senso di giustizia, dei diritti e dell’ uguaglianza, della presa di coscienza, ma è sicuramente una donna, maliana d’origine, che denuncia un’altra Africa, quella che non si scuote, quella contro la globalizzazione, contro l’egemonia di un potere straniero che ha violato l’immaginario politico e sociale di democrazia e cambiamento di tutti quei Paesi Africani che si sono liberati dalla colonizzazione, e che però sono stati nuovamente soffocati dagli interventi occidentali e da quelli dei Paesi potenti. 


Ma qual’ è la ricchezza di questi due Stati, in graduatoria competitiva per gli ultimi posti nelle classifiche mondiali per PIL, per istruzione, per sanità?
Il ‘benessere’ lo si vede dalla loro economia sociale, i mercati, che si caratterizzano più come luoghi di incontro che di scambio; dal loro sistema agricolo, che brucia la savana alla ricerca di uno spazio dove poter coltivare; dalla loro comunicazione sociale, favorendo il sorriso di una madre che si allarga al tuo saluto quando fai un puffetto al figlio; dall’indipendenza, con gli scheletri ancora esistenti di un genocidio razziale legato alla tratta degli schiavi; dalla loro economia finanziaria, con la moneta nazionale legata al cambio fisso di una moneta europea; dall’affermazione dei diritti umani, sacrificando oggi solo il mondo animale e non più quello umano per i loro riti propiziatori e religiosi; dalla compenetrazione della globalizzazione, che favorisce l’evoluzione della donna attraverso l’uso di mezzi tecnici e tecnologici, quali cavalcare la moto o l’uso di internet o del telefonino, contemporaneamente a vederle girare nude per il Paese.


Del loro patrimonio, questi popoli non hanno ricchezza da vendere o per la quale essere depredati o tenuti soggiogati dagli aiuti internazionali: i relitti dei manufatti occidentali che costellano le campagne, la savana, il paesaggio rurale sono una conferma del fallimento cooperativo istituzionale e straniero.
Strutture abbandonate laddove anche la casa in paglia e fango assume maggior valore umano rispetto al loro più solido cemento; composizioni abitative e sociali di legno e paglia che resistono al correre del tempo e delle invasioni, per una quotidiana sopravvivenza che si chiama libertà.


La denuncia di Aminata Traorè nei suoi scritti è chiara e forte contro il dominio francese e l’invasione globalizzata attuata dai potenti del mondo, lanciando una speranza sulla riaffermazione di un’altra Africa, quella che “…comincia, nelle circostanze attuali, ritornando a se stessi e sviluppando la capacità di dire <<io>> e <<noi>>.”  
E termina il suo saggio con una visione proiettata nel futuro: “ E’ il 2015. Siamo a casa di Altina, nella regione dei Dogon. Il cielo blu indaco è punteggiato di stelle che con la loro luce inondano le montagne, le pianure, le valli e i nostri cuori. I vecchi raccontano che nel passato il cielo non era così alto, e che le donne per divertire i loro piccoli raccoglievano le stelle e gliele regalavano. Che cosa non faremmo per loro? Da noi una donna che ha figli si sente ricca. Procreare vuol dire sopravvivere a se stessi, garantire la continuità del gruppo, vincere la morte…”





E da qui comincerò a raccontare quest’altra Africa, quella del Bianco e del Nero, quella che i miei occhi hanno visto nello scorrere dei chilometri, nelle orme della sabbia, nelle statue dei musei di pietra e di granito, nelle sembianze umane e  animali delle maschere, negli scheletri vaganti, nella religione difesa, nelle onde dell’oceano, nelle pipe dei Re e nel riposo dei guardiani di baobab, nel vocìo dei mercati e nella cenere della savana.





Quest’Africa che il mio corpo ha vissuto, al di là del colore della pelle

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