“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Tutto in uno sguardo - Movimenti


MOVIMENTI




Delhi: 17 milioni di abitanti, 17 milioni di teste pensanti.

Delhi: 10 milioni di risciò, tuc-tuc, biciclette, macchine, camionette, motorette, motorini, carrelli spinti a mano, carri, pulmini, camion, furgoni.

Delhi: 7 milioni di gente a piedi.
Incidenti: nessuno. Anche i neonati sono parte del caos cittadino.

E’ un unico frastuono quello che si sente attraversando la città: un lungo e assordante strombettare di clacson, in un ordinato e convergente disordine meccanico.


Tuc-tuc da tre, sei posti in su straripano di carne umana fino all’inverosimile, tre persone davanti con il guidatore che molto spesso ha una gamba fuori della vettura.

I mezzi si sfiorano fino alla larghezza di un capello, si evitano con maestria e perizia, corrono all’impazzata verso mète che sanno solo loro, lungo percorsi che si presume siano i più convenienti.



Macchine strombazzanti chiedono la strada; camion caracollanti stracarichi di tutto, lenti come lumache, hanno a loro vantaggio un’unica scritta colorata sul retro “ BURN UP, PLEASE”, ed altro non possono fare.
E la popolazione non se la fa scappare questa occasione d’oro: ogni guidatore di qualsiasi mezzo ha un clacson, ciascuno di loro vuole incidere nella vita, dimostrando la propria presenza con un effervescente suono, e ci riesce. Qui le caste non contano, chiunque può andare, chiunque può suonare per confermare di essere.

Dall’alto del nostro pulmino, osserviamo sbalorditi quella ridda di baccano e colori, movimenti e partenze, salite e discese, corse ed affanni: i guidatori di motorette tutti con il casco in testa, il loro seguito è una donna che stringe un piccolo, di traverso, senza difese. Con la testa, ma senza casco.

Impotente guardi quel marasma di ferro, carne, colori, pazzia, frenesia, assurdità.
Tutti confluenti in un unico budello asfaltato.
Tutti impazziti in una sola direzione.
Gigantesco fluido umano in movimento.

La risata parte dal cuore: siamo fermi al semaforo, e scintillando di chiaro, la scritta RELAX dentro il disco rosso invade tutta la sfera di fermata, e finalmente ti tranquillizzi anche tu.
Infatti fino a quel momento avevi lo stomaco tirato, gli occhi piccoli e stretti, come a voler diminuire al minimo il percorso della loro chiusura, la mano sempre tesa per allontanare il vicino del vicino, nel timore che in quella girandola meccanica qualcuno ci rimetta la vita. Un europeo a Delhi è fortemente a rischio infarto!


Ma appena fuori città, si spalanca il mondo della strada: pellegrini a piedi, fabbriche di mattoni a cielo aperto, con le loro elevate torri incandescenti di calore, terra magistralmente tagliata, case dello stesso fango tirate su come ricoveri per i lavoranti, pile ordinate di mattonelle argillose a tappeto attendono di essere distribuite in tutto il paese da rilassati dromedari trascinanti carretti su gomma, colmi di qualsivoglia materiale edile: blocchetti, sabbia, sacchi.


Laddove non regna l’agricoltura, il fango prende piede e conquista il territorio.

  
Durante il nostro andare sono molte le costruzioni in via di realizzazione, e nessun componente della famiglia trova scampo alla sua crescita: donne sui tetti partecipano, mattone dopo mattone, alla chiusura della loro vita, dentro il villaggio, dentro le case, nelle campagne. 

Ed insieme al limo, lo sterco.
In tutte le cittadelle, nei paesi, in città, il rifiuto di vacca è sacro come l’animale: si secca, si accumula, si cura. E l’ultima tua foto è l’emblema di questo paese che sta crescendo: due colonne di blocchetti di fango, impalcate da pali di bambù sostengono in aria tutto il calore dell’inviolabile letame, a costituire la porta del paese, ad invitarti ad entrare nel loro mondo, tu che ne stai per uscire.


Siamo fermi ai binari della stazione, una bandiera rossa di traverso sventola, a ricordarti, come quando eri bambina, che il treno sta arrivando: l’emozione di noi grandi è la stessa, identica l’attesa, medesima la gara a chi per primo lo vede spuntare, a scrutare l’orizzonte per assicurarci che il vapore di quella locomotiva è lo stesso fumo che attraversa la savana, altro viaggio, altre genti, stesse pellegrine speranze.


Conversano piano ed incuriositi i casellanti, ma entusiastici sono gli urli dei viaggiatori al passaggio, uniti ai nostri gioiosi saluti.




D’intorno, gli alberi di acacia, svettanti nel paesaggio desertico, protendono le loro braccia monche al cielo - neanche loro sono esenti da quell’aura religiosa che permea la quotidiana vita di questo popolo -, tagliate fino a dove la loro massima espressione glielo consente, per scaldare e rendere produttiva ogni più piccola particella di esse; gli stessi arti che tramandano di generazione in generazione, con gesti aggraziati, poemi e drammi, epopee e saghe, princìpi e favole, religione e filosofia. Le stesse membra, che con la loro fibra, garantiscono vita ad ogni genere animale.

E come il clacson è l’emblema della città, grovigli di fili elettrici corrono lungo tutto il paese ad illuminare il resto del pianeta indiano:




la tenue luce che rende Jaisalmer cittadella da favola delle Mille e una notte;



quella vivida che scintilla sullo sfarzo d’oro dei tesori nei castelli;


quella eterea, che comunica all’Universo che esiste questo mondo.
Pali e fili prepotentemente abbracciano e inglobano lo spazio costituendo la brillantezza di tutte le tue foto.




Ma fili di rame, mattoni, internet e STD// ISD sfumano nelle campagne coltivate, dove una coppia di buoi, esortata dal suo padrone, gira in circolo a smuovere catene di maglie e bielle di un mulino ad acqua, dal sapore antico, dalla realtà sconvolgente: una ruota dai secchielli equidistanti tira su l’acqua per i campi gradonati.
Acqua circondata e protetta da pietre come un tesoro, trasparente liquido che pesa sul capo delle donne, che assicura il soffio vitale quando è custodita in quelle anfore fuori ogni porta, ad indicare calore familiare, candore, sudore, vagabondaggio.





Espressione di sussistenza, pulizia, guarigione.


Alternarsi di fame e ricchezza, di staticità e nomadismo: dall’acqua nasce una pianta, che sfama l’uomo e l’animale, e blocca l’avanzata del deserto; ferma è libera di accumularsi nelle lacune e negli stagni, dove intorno pullula la vita contadina, ma dai suoi abitanti viene intrappolata nei canali che diminuiscono le falde.
La sua carenza è inizio di incessante pellegrinare in giro per le campagne di pastori e contadini, vaganti, alla continua ricerca di questa sostanza essenziale, i quali abbandonano i villaggi e lasciano le donne ad accudire il prezioso bene, poichè dall’acqua nacque la terra, e dalla terra, il mondo e Brahma, e da lui tutti gli Dei’, nell’eterna altalena di morte e rinascita,  siccità e fertilità, lordura e nettezza, di fine e di inizio, stanzialità e peregrinazione.




Sulla strada che si snoda dai templi di Ranakpur a Kumbalghar Fort, inalterabile passaggio dall’ascetico alla storia, scorre la vita allagata dei campi: muretti a secco limitano confini inesistenti, seguono in un unico sottile filo il contorno del paesaggio, la montagna, il torrente.

Nel suo immobilismo, quel mondo campestre va incontro alla vita, facendo girare le pale di mulini con le uniche ricchezze disponibili: la sacralità dell’animale e la fluidità del tesoro da far emergere, patrimonio superficiale, fortuna sommersa: “come i secchi girano intorno alla ruota idraulica, così l’uomo sempre rinasce nel grembo materno”.




Paglie rossastre assorbono i raggi del sole nel cuore degli alberi, in attesa che si compia la loro maturità, per costruire, al termine del loro ineluttabile ciclo, l’apice di un  rifugio sicuro di quelle comunità rurali: le secche pagliuzze assieme alle screpolature di fangose pareti rendono antiche le umili case.

Ma solida è la convinzione che permea le strade polverose, anche dei villaggi più sperduti: se in questa, la vita prende,  nella successiva darà.

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