“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Raccontare con la musica - Qualcuno canta a Chittor

(continua da  Pire e Spade)..........


Lasciando la digressione del presente e tornando indietro nel tempo, alfine più ampia tragedia era giunta alle porte, quelle dei tre Stati però, ed un nemico ben peggiore trafiggeva gli animi leali e generosi dei rajput: dal regno persiano e dai territori turco-afgani schioccavano incessanti le multiple frecce per conquistare le ormai già provate città  in conflitto.

Anche se in tutta l’India riecheggiavano le urla delle carneficine turco-afgane, gli orgogliosi guerrieri si riorganizzavano, riportando alla luce la gloriosa e cavalleresca classe per riconquistare il perduto regno. Furono loro, i Sisodia, gli unici guerrieri a resistere alla calata dei musulmani, che dapprima con i turchi e poi con i nativi in India successero con diverse dinastie al popolo hindo. I Rajput governarono con dignità e signorìa per oltre due secoli, lasciando al nemico l’onere e l’onore della conquista solo nel 1534, quando il Tigre Baber oscurò il Sole di Chittor per la seconda volta; ad evitare la duplice sconfitta, uomini e donne furono chiamati di nuovo ad infuocare cieli e territori, e i loro stessi corpi: dopo l’ennesimo jauhar, rinascita ci fu, e solerte; ma nulla potettero contro colui che ben presto diventò il più potente imperatore Mogul, Akbar Khan il Grande, il quale fece immolare per la terza ed ultima volta, nel 1567, regali principesse e fieri rana.

Ma la lealtà e la generosità, unite al rispetto per il nemico e ad altre galanti gesta dei cavalieri rajput regalarono all’astuzia e all’ingegno di Akbar l’intuizione di magnanimità e alleanza con questo fiero popolo, piuttosto che sottomissione, strategia vincente che lo fece diventare in breve un capo di tutte le sue genti, e non solo di un’unica classe.

Che io debba parlar bene di questo grand’ uomo, lo farò prontamente, per le elevate opere e imprese che innalzarono il mio popolo allo splendore in quegli anni e molti dopo ancora.

Ma prima vi voglio riportare un poco nel presente, a divagare del “l’arte di camminare” di un mio contemporaneo, tal Alvaro Cunqueiro cantore spagnolo, che ha trascinato me a rimestar  tra i miei simili, pellegrini sì, ma di sol  mestiere diverso. Costoro, in seguito all’ultima sconfitta di Chittor, diventarono nomadi e fabbri ambulanti, loro i LOHAR, la casta di armaioli di Chittorgarh.

La loro storia or la musico così, come colui che l’ha scritta, e che io posso sol trasferire a voi con le mie note:

 
‘QUALCUNO CANTA A CHITTOR’

<<C'era in India una città circondata da mura. Di lei si diceva che coronava la collina su cui era costruita come un elmo rosso cinge la testa di un guerriero. La collina era stata cosparsa di sale e cenere perché non vi crescesse nemmeno un filo d'erba. Ma ai suoi piedi scorreva un fiume dalle acque azzurre, un fiume che scendeva cantando dalle montagne più alte del mondo e sulla sua sponda sì che c'erano alberi e alte erbe, pascoli per i bufali e risaie. La collina si chiamava Chittor, la città della muraglia Chittorgarh e il fiume Gambhiri.
A Chittorgarh vivevano gli irascibili guerrieri luhar, avvolti in grandi mantelli azzurri, armati di lunghe lance, agili nella selva come la tigre o il serpente. Chi attraversava il fiume Gambhiri doveva pagare, con la borsa o la vita, o con entrambe, un pedaggio ai luhar. Ogni luhargi era un re e ogni guerriero, in sella al suo piccolo cavallo afgano, era una parte del vento che soffiava sull'immensa pianura...
Ma a Delhi stava seduto su un trono simile alla coda di un pavone un imperatore mogol, Akhbar Khan, sovrano crudele e pacifico allo stesso tempo, per il quale mille architetti avevano eretto palazzi affinché il gran monarca delle trombe d'oro potesse studiare la profonda scienza degli echi.
Tutti i giorni gli arrivavano notizie delle cruente scorrerie dei luhar, e un giorno i luhar rubarono dodici coppe di giada verde piene di tè d'autunno che l'Imperatore della Cina aveva mandato a suo cugino il Gran Mogol dell'antica Delhi.
Akhbar Khan si fece arricciare i capelli; su questo punto mi attengo a Tavernier, e con Tavernier viaggiava uno del mio paese, Seijas Lobera, turcimanno del levante, ammiraglio nel mare australe magellaneo, corsaro del re cattolico, corrispondente di Newton e di Gipsy, quello della palingenesi, e membro della Reale Accademia delle Scienze di Parigi. Tavernier spiega cosa facevano i Khan di Delhi quando partivano per la guerra: innanzitutto s'arricciavano i capelli. Subito dopo gli portavano davanti un giovane elefante e di fronte a quel simbolo di lunga vita e di infallibile memoria, il Khan giurava di compiere queste e quelle imprese. Dopo l'arricciatura dei capelli e il giuramento, il re mogol faceva un bagno in tre oli diversi: di noce, di palma e di cocco, poi si profumava e passava tre settimane a consultare oracoli e ascoltare astrologi e, durante quei giorni mantici, toccava solo oggetti di ferro. Se le stelle e i presagi erano propizi, il Gran Mogol, con sette tuniche dalmatiche, partiva per la guerra.
Così Akhbar Khan arrivò davanti alla collina chiamata Chittor e la assediò per un anno sotto il sole, sotto le grandi piogge e un'altra volta sotto il sole e quando il Gambhiri dalle acque azzurre rimase in secca i luhar si consegnarono alla clemenza del Gran Mogol.
Il Gran Mogol, contrariamente a quanto si pensava, non ordinò di sgozzare i luhar. Fece sedere i guerrieri sconfitti sulla collina deserta e impose loro cinque divieti che i guerrieri accettarono pronunciando una sacra e solenne promessa secondo il rituale che creava, conservava e differenziava le caste e le sottocaste in India.
(Molte caste nascono per esclusione, iscrizione a un mestiere, a un'arte o a un lavoro e, generalmente, la casta così nata promette, nel caso di ascrizione per punizione, di attenersi alle proibizioni, le quali diventano quindi "volontarie", a guisa di voti religiosi; in tal modo, secondo Kane, si otteneva "che una casta si autocontrollasse per evitare il sacrilegio e lo spergiuro, peccato destinato a ricadere su tutta la casta, che sarebbe stata punita nella sua totalità per una sola violazione individuale").
I luhar, davanti al Khan, accettarono di non allontanarsi dalle strade, di non salire mai più a Chittorgarh, di non attraversare il fiume Gambhiri, di non costruire case durature, di non attingere acqua ai pozzi e di non cantare
Ruppero sulle ginocchia le lance di bambù i luhar sconfitti, sotterrarono i morti e si incamminarono sotto una luna enorme e gialla...

Sono passati quattrocento anni da quel giorno.

Adesso, in virtù della legislazione del Congresso indiano sulle caste, il Pandit Nehru è andato a Chittor e ha ricevuto sulla porta di Chittorgarh i tremila guerrieri discendenti degli antichi Godulia Luhar che ancora percorrevano le strade senza allontanarsene;  ha annullato i divieti di Akhbar Khan e i luhar hanno ritirato le sacre promesse e sono entrati nella fortezza con le loro lance nuove, hanno attraversato il fiume in barca e coi carri, hanno bevuto l'acqua dei pozzi, hanno messo il primo mattone di una casa a Chittor e uno di loro ha cantato una canzone, una canzone d'amore e di guerra, la stessa che quattrocento anni prima cantava ogni luhargi che partiva in cerca di battaglia e di bottino...

Tra tutte le proibizioni e promesse, credo che la più dura da mantenere sia stata quella di non cantare. Provare amore e non cantare. Sentire gli uccelli che cantano e non cantare. Sentire la gente che canta per strada e non unirsi al canto. Tenere in braccio un bambino appena nato e non potergli cantare, madre, una ninna nanna. Che labbra buie con quattrocento anni senza canzoni! Se ho raccontato la storia dei luhar, di cui si parla in questi giorni sui giornali, è solo per questa ragione: perché dopo quattrocento anni di sete, di sete di canzoni che forse è ancora peggio della sete d'acqua, qualcuno canta a Chittor... Non c'è mai stato un re più crudele di Akhbar Khan, il Gran Mogol di Delhi.>> (..di Alvaro Cunqueiro) - Tutti i diritti riservati agli eredi)


A voi che mi ascoltate, se alla fine il mio racconto è stato questo, sappiate che io canto fantasie, le saghe eroiche e le bellezze di un fiero popolo e della sua arte, compresa di bugie e dolci inganni.

Può esser che realtà non sia pur vera, di questo me ne scuso ma così è giunta alle mie orecchie e alla mia gola, nel divertirvi io mi riscatto, e ad incantare un pubblico  ‘sì attento, è facile oltremodo,..... ed io l’ho fatto!

E se a seguirmi ancor continuerete, non due, ma mille storie come questa ascolterete..................

Nessun commento:

Posta un commento