Discesa:
278+ 594 = 872
Km:
circa 9
Le spalle della Schiara sono in
controluce, l’alba è avanzata da un pezzo quando ci incamminiamo verso lo
spallone dell’Alta Val Vescovà, a ridosso di prati e tracciati sospesi, nel
verde del bosco e del suo sottobosco.
La conformazione dei monti
circostanti invita a fantasticare su cenge appese a strapiombo sulla valle,
calpestate da pastori e viandanti.
Ma man mano che ci avviciniamo a quei
contrasti emerge l’asprezza di quei dirupi, dove mai anima viva potrebbe
avventurarsi, forse solo qualche animale selvaggio, ma chissà.
Mentre contempliamo questa natura
selvatica, dinanzi a noi si aprono riposanti pascoli, una casera,
ed infine la
Forcella La Vareta, che ci separa, in un’intagliata valle, dal dirimpettaio
Pian di Fontana.
Una breve discesa ci conduce nel
cuore di questo verde espanso, odore di pino, fino al torrente che allegro
rincorre la gioia di inseguirsi fino in valle; una corta risalita ci permette
la sosta ristoratrice al Rifugio.
Il tempo è mesto, nuvole basse si
adagiano sulle quote più alte della Val de Zita, de entro e de fora, che
raggiungiamo con un pratone ripido che ci fa guadagnare velocemente quota.
Entriamo così in un contorto mondo calcareo, grigio, isolato, dove solo gli
stridii delle marmotte riecheggiano, rimbalzando senza direzione in tutto il
solitario anfiteatro.
All’ingresso della Valle de Zita
cominciano ad apparirci le pareti a strati sovrapposte e aggrovigliate della
Talvena,
le sue anticima e cima, il prato di rododendri che incanta Fernando e
lo immobilizza sul richiamo delle marmotte: per me ottimo motivo di
contemplazione e riposo.
Cerco la Forcella che ci aprirà il
mondo agordino, ma è un inganno: valli dentro valli, queste della Zita,
risucchiano lo sguardo e la volontà, rifugiandosi nella certezza delle sue
cime, delle sue Forcelle.
Rimaniano incantati da una cima lontana, chissà che
c’è sopra, non sembra una croce, e la ritroveremo al Rifugio ammirandola dal
basso, svettante nell’ora del tramonto.
Ma ancora c’è tempo per il calare
della giornata, vaghe gocce d’acqua rinfrescano l’aria ed è tempo di
rifocillarci prima della discesa: siamo in Forcella.
La discesa alle pendici della Zita
Nord è un ammanto di sassi, ma anche di delicati e favolosi squarci nelle valli
sottostanti a strapiombo sul mondo, come solo viaz, cenge e baranci combinati
tra loro possono rendere.
Non per niente si chiama la montagna dimenticata,
questa zona tra la Val Clusa, gli Erbandoi e la Valle Agordina; vie che oggi sono
impraticabili per un meschino incendio che le ha rese non sicure per il
passaggio dell’uomo.
Pietre e roccia; scendendo calpestiamo
il grigio immobilismo del calcare sgretolato, solo a tratti solido e inerbito,
affogati nelle nuvole che lontano soffocano le cime più maestose del Pelmo e
Pramperet, del Moschesin, fino a che lo sguardo non muore nella valle. Divido
questa bellezza con la sorella che in quel momento mi raggiunge per telepatia e
non sto nella pelle a descriverle tanta magnificenza.
Rincorro con lo sguardo il sentiero
che si divide sotto le Cime delle Balanzole: la mia speranza è una deviazione a
sinistra, su quello che potrebbe essere un sentiero storico per le attività di
quei luoghi: carbonai, minatori, militari, o forse solo un sentiero animale.
Attira fortemente lo sguardo e l’intenzione, ma sembra portare troppo fuori
strada, e noi ancora ne dobbiamo percorrere!
La discesa fino ai prativi del
Rifugio lungo le Balanzole ci permette di godere di scenari incantevoli
all’aprirsi delle Valli circostanti, immaginarie discese invernali sugli
anfiteatri della Zita, vie di cresta sul gruppo del Moschesin.
Ascendo
il monte
e
lassù
giro
lo sguardo
e
ammiro
isole
di roccia
nel
mare di nubi:
l’occhio
si bea,
il
corpo si riposa
e
l’animo
nell’infinito
silenzio
si purifica. (da Catarsi di Italo Rossi)
Le poetiche parole, divagazioni
vengono chiamate, sono raccolte nel libricino scoperto al Rifugio e dopo averle
lette, sono assorbite nel mio cervello, nella luce del crepuscolo in attesa del
pasto rifocillatore: gradito pensiero regalato al rientro dal Cai di Oderzo,
che nella prova di gestione, per noi ampiamente superata, si cimentava tra
poesia, tecnologia e manualità con una destrezza senz’altro non comune.
Anonimo tramonto circonda i massicci
sovrastanti, e con la luce della cima senza nome riposiamo per un’altra
successiva, splendida, giornata montanara.
segue con : Con i piedi nell'acqua
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