“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

AV1 - La verticalità del mondo orizzontale




Rifugio Maria Vittoria Torrani – 2984 m    per la    Via Normale dal Rif. Coldai

per s. 557 (Sentiero Tivàn, Porta del Masarè), per via normale alla Grande Civetta (Passo del Tenente)



Maria Vittoria Torrani, alpinista milanese travolta da valanga con altri tre amici durante un’ascensione sci alpinistica al Piz Corvatsch nel gruppo del Bernina in Engadina (CH) il 6.1.1935.


Tornato dalla cima del Civetta, Fernando fa scorrere le foto, non nascondendo una certa emozione di essere stato lassù, dove la verticalità può essere percepita solo assumendo la posizione orizzontale: l’affaccio che su 1200 metri di parete separa il mondo in basso da questa elevazione dello spirito si può affrontare solo inchinandosi sopra di esso.

E si rammarica della mia assenza in cima.

Tento di spiegargli la mia piccola Himalaya: non ho alcun rimpianto nè desiderio di affrontare la cima, non aggiungerebbe un briciolo in più alla soddisfazione di essere lassù, a 2984 metri di massacrata pietra, di catene, di sassi instabili, di neve, di risucchi. 






Cumuli di nuvole che giocano con le cime, frastagliate creste, l’essere statico in mezzo a tanto dinamismo; calpestare le orme dei primi conquistatori, o forse solo viandanti e cacciatori che rincorrono le loro prede, siano esse spirituali o materiali, l’antica storia della scoperta di quei luoghi.




Il mio piccolo e vasto mondo è stato conquistato avanzando al passo di un metro quadrato di spazio alla volta, legando la mia mano al cavo d’acciaio per sentire lo sforzo muscolare, lasciando scorrere il moschettone per inseguire i passi sulla roccia, accarezzando asperità per il gusto di sentire che tengono, appoggiando i palmi per agevolare la spinta verso l’alto......e non guardare mai verso il basso!



Ma la curiosità è femmina, e mi ritrovo ogni tanto a sbirciare tra le piccole gugliette, le placche lisce, verso gli inghiottioi dell’animo a centinaia di metri dal suolo orizzontale, nel cuore di questo pietroso universo verticale, pareti svettanti, infinite, attrattive, eppur così tenacemente misteriose.


 In questo limite calcareo non c’è posto per un’altra conquista, è già la conquista, è la certezza di quella placidità dell’anima, della consapevolezza che non può essere aggiunto altro a ciò che si è vissuto arrivando sin lì, è il mio traguardo di un sogno.




 L’ansia ripartita tra un sentiero attrezzato, un lungo cammino e l’incognita di un Passo;





 la certezza di un raggiungimento di pace, di comunione con chi ha scelto di rimanere lassù, a dividere la sua vita tra il rumore di una vecchia teleferica ed un buon bicchiere di vino bevuto in compagnia.


 


Voci di richiamo distolgono la fatica dall’ansia, ritrovare la strada del rifugio sicuro è quanto si augurano gli avventurieri della cima di fronte che, usciti dalla ferrata Tissi, si ritrovano davanti un anfiteatro di neve ingannevole.




Il borbottìo di Venturino è serioso quanto basta ad afferrare un piccone, a trasformare senza esitazione la pesantezza dell’attrezzo in sicuro ancoraggio per le anime sgomente, la sua velocità nel risalire quei percorsi familiari è pari alla naturalezza di dividere il suo lavoro.



Gesti precisi ma indispensabili per calare il cestello migliaia di metri a valle, nastro portatore di allegria e confort, spirale di familiarità e quotidianità, precisione e pazienza. Non lesina sorrisi, Vito, non insiste su ciò che ognuno può o deve fare, lascia che sia l’indipendenza di ciascuno di noi a favorire quella condivisione di tempo e di spazio, di esperienza e rilassatezza. 



E così tutti ci ritroviamo impegnati in qualche incarico manuale: sistemare porte, grondaie, tagliare legna, accatastarla, accendere il fuoco, assaporare il profumo di quello che diventerà un eccellente pasto. Il tutto condito con la destrezza dei suoi movimenti avviati mille volte nel corso degli anni, impegnando gli occhi a leggere la bizzarrìa del cielo mentre la mano àncora la vite al legno.



Gocce purificatrici battezzano i tavoli, non servirà ricoprirli, e la natura selvaggia si mescola alla civiltà, in un connubio di invadenza e ricerca degli spazi, lassù, dove nulla può fermare le sue forze, se non il moto caparbio dei venti.



Il Pelmo si copre e si scopre in un unico balletto di nebbie bianche, simile alla schiuma che lascia intravedere la pelle più morbida nell’immersione del corpo in essa. Poi tutto si ricopre e viene avvolto dall’evanescenza delle nuvole, 





e piano piano noi avventori ci lasciamo abbracciare dal calore di Bacco e di Morfeo a ritrovare una nuova alba.   




Nessun commento:

Posta un commento