“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Raccontare con la musica - Pire e Spade

Raccontare con la musica, incontrare melodie come s’incontrano in viaggio persone, le loro storie, quelle delle loro mani, degli zigomi, del loro cammino: non ci si ferma alle note o alle parole, si va sempre al di là.........  



In un volo sono sulla cima del castello di Jaisalmer, richiamato dal color oro dei bastioni orlati, opachi, di arenaria gialla mista a sabbia. Un suono dolce di sarahgi attira i passanti, le armoniose note si spargono nell’aria, il sussurro del cantastorie invita all’ascolto.


Mi siedo, non credendo ancora alla fortuna che ho avuto: spalanco gli occhi e cerco di capire la lingua di quel cantore. Ci sono! E’ un CHARAN, un nomade cantore della casta guerriera dei Bardi: coloro che, girovagando, narrano le gesta dei maharaja rajput - figli di re - e delle virtù delle donne maharani.

Rimango incollato alle crome, e ad una ad una quelle soavi parole entrano nel mio cuore, rapiscono la mia mente e lentamente mi trascinano in quel mondo avvolto di veli, di silenzi, di gesta eroiche, di castelli, di sacrifici, di storie romantiche e di disperazione, di guerre e fuochi, roghi e colori, odori, saggezze e bugie, tranelli, inganni e tradimenti, magnanimità e magnificenza.

Ascolto incantato ogni vocale musicale, ed ecco che le nere sillabe si depositano su uno spartito avvolto, che piano piano si srotola a comporre la storia più lunga del Rajasthan.
Adesso intorno a lui siamo più d’uno, tutti attenti a non calpestare quel fiume di parole musicate, liberate nei secoli dalla storia di armi e di devozione, di amore e di fierezza.

Lentamente, come una favola inizia il suo lungo racconto:



PIRE E SPADE
ovvero, il coraggio delle donne rajasthane attraverso storie di donne


“C’era..., prima dell’anno mille a.C.,


..un giovane principe ambizioso, che voleva carpire il segreto dell’immortalità al suo saggio maestro. Ma il suo comportamento fu tale da far arrabbiare così tanto l’uomo, il quale, pestando i piedi sul terreno, fece un buco da cui cominciò a sgorgare una sorgente.


Intorno a quella raccolta di acqua sorsero cittadelle e villaggi, e, molto tempo dopo, il Palazzo della principessa Padmini.


Alla città così sorta fu dato il nome di “Chittaurghar, o forte di Chittor”.

Questa città-fortezza visse per diversi secoli fiera di nobili gesta, coraggio, ammirazione, valore e ardimento, tenacia e resistenza, caparbietà e sacrificio, immolazione e codice d’onore, valori intrecciati a uomini valorosi come i Rajput e alle loro cavalleresche imprese.


Tre volte resistette all’invasione straniera, tre volte dette prova di  perseveranza ed eroismo: il sacrificio supremo collettivo, il Jauhar - in cui il riscatto della dignità maschile si univa al virtuosismo femminile, nell’estremo onore verso la morte collettiva per la salvezza dall’onta,  - allontanò da questo orgoglioso popolo la vergogna di una disonorevole e umiliante sconfitta.

“”Narrano i Veda:
Daksa, il primo sacerdote brahamano, era stato creato da Brahma per svolgere anche i sacrifici rituali, poichè senza di essi le divinità venivano considerate incapaci di aiutare gli uomini a far sorgere il sole del mattino. Maggiori erano i sacrifici, più forte diventava la casta dei sacerdoti, garantendo la custodia della parola sacra, che doveva essere trasmessa all’umanità come “rivelazione” dalle sacre scritture dei Veda. Tutte le offerte sacrificali venivano donate agli déi attraverso l’azione di fuochi sacrificali.
Daksa aveva una figlia, SATI,  che voleva andare in sposa a Shiva. Ma Shiva è un dio ambivalente , egli è infatti il Signore della vita e della morte, nemico di riti e regole. La sua natura distruttiva, intesa però non come dissoluzione ma come necessità di rigenerazione e di rinascita, viene rappresentata dalla cenere del fuoco sacrificale. Nel suo aspetto ascetico,  il suo corpo è seminudo ed è cosparso di cenere;  attorno alla vita indossa una cintura di teschi umani, con la quale chiede l’elemosina, e sul collo una collana di serpenti. Ma Sati lo sposò e andò a vivere con lui sul Monte Kailasa.
Un giorno, durante i riti sacrificali,  il padre Daksa officiò le offerte a tutti gli dèi,  escludendo però Shiva. Sati, per la vergogna, si lanciò sul fuoco, lasciandosi bruciare viva. L’ira di Shiva fu tale che, attraverso una sua orrida creazione, distrusse tutto ciò che in futuro si sarebbe contrapposto tra seguace e divinità.
Il sacrificio di Sati fu tragica usanza di immolazione delle vedove, volontaria o meno, il cui numero arrivò a corrispondere con l’ onore della fortezza: maggiori erano gli assedi e le jauhar, più grande era il rispetto per quel popolo guerriero.””

Compiere il sati a Chittor, l’incandescente ed infuocato atto di fedeltà al marito fu, per le donne nobili trascinanti, massima azione esemplare, seguita da migliaia di altre vittime innocenti: la baldanzia dei loro uomini rajput, agghindati per l’ultimo dignitoso sacrificio con vesti colorate color zafferano e ghirlande di fiori, ha finito per incantare e renderli ammirevoli agli occhi degli invasori, permettendo per tre volte una strenue riconquista del loro potere secolare.


Cadeva l’anno 1303, nel grande regno Mewar, sulle terre dei Sisodia, e la bella Padmini, sposa del principesco Ratan Singh, contemplava la bellezza del luogo circostante riflessa nelle acque del suo lago, ignara che la sua stessa delicatezza aveva già impressionato un ben altro specchio nemico, stregandolo.

Ala-ud-din, sultano di Delhi, da quel momento, decise di essere disposto a tutto, pur di conquistare siffatto splendore, e con caparbietà e tenacia spinse la già assediata Chittor al suo primo estremo sacrificio umano, avviato dalla stessa Padmini pur di non cedere al turco baratto.

Contemporaneamente, il triste e onorevole destino delle aristocratiche e principesche donne si espanse in tutti i territori del Rajasthan: ovunque veniva ospitata la casta guerriera il rito della jauhar esauriva con una  sacrificale vittoria l’atroce sconfitta. La rossa testimonianza delle mani, quegli arti immersi nella sostanza colorata – l’hennè – avrebbero lasciato ai posteri storie di coraggio e virtuosismo, gloria e fedeltà, macchiando di rosso la porta, unico accesso al trionfo nemico, ultima dimostrazione di una fiera salvezza.

Jaisalmer, la città d’oro, anch’essa vide per tre volte il fuoco delle pire levarsi nell’aere saturo di sabbia, e laddove non si potè con l’incandescenza, la Khandra – valorosa arma rajput – pose fine al disonore femminile per mano stessa del regnante, sebbene il coraggioso valore militare dei guerrieri  assediati rese vano il sacrificio delle reali dame, riconquistando la battaglia dopo tenace resistenza.

A rimbalzare sui territori l’eroiche gesta, anche nella città blu, l’azzurra Jodhpur, si consumò la nobile immolazione: il castello di Meherangarh, oltre a celar tesori e intrighi, segna l’illustre dinastia sulla sua settima porta: la Loha Gate, o Porta di Ferro, dove 36 mani femminili dichiarano l’olocausto di altrettante donne sacrificate per amore o condizione, quali mogli e concubine dei maharaja.





Ancora oggi, con l’abolizione del Sati dal 1829, a Jhunjhunu, al tempio di Rani Sati, si venera una donna che si immolò nella sati.



-          A questo punto, gente, che ascoltate questa mia nenia,  è ora che vi racconti chi, nel presente, e come me, viene girando il mondo a stanare le ingiustizie e le schiavitù, a lottare per narrar di altre donne: recluse, emarginate, punite.
E’ donna piccola, Mahasweta Devi, ma ottantanni di immenso coraggio. Decisa canta con il mio mestiere le sue parole, raccolte in molte lingue e in molti dialetti, escluse dalla storia, ma che sono la storia, e nella storia le rilancia con la sola abilità di stravolgere il prevedibile, di essere ‘intoccabile’ pur appartenendo all‘alta casta; instancabile a stanare, testimoniare, oralmente tramandare, ed infine comporre destini di soprusi, miserie, crudeltà, tirannie, sfruttamento, annientamento, dolore, assurdità legati al rigido assetto sociale; decisa a ribaltare la storia per restituire la dignità, quella vera, quella non scritta, ma solo vissuta e da lei raccontata in ogni angolo e in ogni dove.-




We cannot expect miracles  by Paolo Guglielmo Sulpasso





"Trilogia del seno" e "Invisibili"  by  Ribelle Web




segue clikkando ............Qualcuno canta a Chittor

Raccontare con la musica - Qualcuno canta a Chittor

(continua da  Pire e Spade)..........


Lasciando la digressione del presente e tornando indietro nel tempo, alfine più ampia tragedia era giunta alle porte, quelle dei tre Stati però, ed un nemico ben peggiore trafiggeva gli animi leali e generosi dei rajput: dal regno persiano e dai territori turco-afgani schioccavano incessanti le multiple frecce per conquistare le ormai già provate città  in conflitto.

Anche se in tutta l’India riecheggiavano le urla delle carneficine turco-afgane, gli orgogliosi guerrieri si riorganizzavano, riportando alla luce la gloriosa e cavalleresca classe per riconquistare il perduto regno. Furono loro, i Sisodia, gli unici guerrieri a resistere alla calata dei musulmani, che dapprima con i turchi e poi con i nativi in India successero con diverse dinastie al popolo hindo. I Rajput governarono con dignità e signorìa per oltre due secoli, lasciando al nemico l’onere e l’onore della conquista solo nel 1534, quando il Tigre Baber oscurò il Sole di Chittor per la seconda volta; ad evitare la duplice sconfitta, uomini e donne furono chiamati di nuovo ad infuocare cieli e territori, e i loro stessi corpi: dopo l’ennesimo jauhar, rinascita ci fu, e solerte; ma nulla potettero contro colui che ben presto diventò il più potente imperatore Mogul, Akbar Khan il Grande, il quale fece immolare per la terza ed ultima volta, nel 1567, regali principesse e fieri rana.

Ma la lealtà e la generosità, unite al rispetto per il nemico e ad altre galanti gesta dei cavalieri rajput regalarono all’astuzia e all’ingegno di Akbar l’intuizione di magnanimità e alleanza con questo fiero popolo, piuttosto che sottomissione, strategia vincente che lo fece diventare in breve un capo di tutte le sue genti, e non solo di un’unica classe.

Che io debba parlar bene di questo grand’ uomo, lo farò prontamente, per le elevate opere e imprese che innalzarono il mio popolo allo splendore in quegli anni e molti dopo ancora.

Ma prima vi voglio riportare un poco nel presente, a divagare del “l’arte di camminare” di un mio contemporaneo, tal Alvaro Cunqueiro cantore spagnolo, che ha trascinato me a rimestar  tra i miei simili, pellegrini sì, ma di sol  mestiere diverso. Costoro, in seguito all’ultima sconfitta di Chittor, diventarono nomadi e fabbri ambulanti, loro i LOHAR, la casta di armaioli di Chittorgarh.

La loro storia or la musico così, come colui che l’ha scritta, e che io posso sol trasferire a voi con le mie note:

 
‘QUALCUNO CANTA A CHITTOR’

<<C'era in India una città circondata da mura. Di lei si diceva che coronava la collina su cui era costruita come un elmo rosso cinge la testa di un guerriero. La collina era stata cosparsa di sale e cenere perché non vi crescesse nemmeno un filo d'erba. Ma ai suoi piedi scorreva un fiume dalle acque azzurre, un fiume che scendeva cantando dalle montagne più alte del mondo e sulla sua sponda sì che c'erano alberi e alte erbe, pascoli per i bufali e risaie. La collina si chiamava Chittor, la città della muraglia Chittorgarh e il fiume Gambhiri.
A Chittorgarh vivevano gli irascibili guerrieri luhar, avvolti in grandi mantelli azzurri, armati di lunghe lance, agili nella selva come la tigre o il serpente. Chi attraversava il fiume Gambhiri doveva pagare, con la borsa o la vita, o con entrambe, un pedaggio ai luhar. Ogni luhargi era un re e ogni guerriero, in sella al suo piccolo cavallo afgano, era una parte del vento che soffiava sull'immensa pianura...
Ma a Delhi stava seduto su un trono simile alla coda di un pavone un imperatore mogol, Akhbar Khan, sovrano crudele e pacifico allo stesso tempo, per il quale mille architetti avevano eretto palazzi affinché il gran monarca delle trombe d'oro potesse studiare la profonda scienza degli echi.
Tutti i giorni gli arrivavano notizie delle cruente scorrerie dei luhar, e un giorno i luhar rubarono dodici coppe di giada verde piene di tè d'autunno che l'Imperatore della Cina aveva mandato a suo cugino il Gran Mogol dell'antica Delhi.
Akhbar Khan si fece arricciare i capelli; su questo punto mi attengo a Tavernier, e con Tavernier viaggiava uno del mio paese, Seijas Lobera, turcimanno del levante, ammiraglio nel mare australe magellaneo, corsaro del re cattolico, corrispondente di Newton e di Gipsy, quello della palingenesi, e membro della Reale Accademia delle Scienze di Parigi. Tavernier spiega cosa facevano i Khan di Delhi quando partivano per la guerra: innanzitutto s'arricciavano i capelli. Subito dopo gli portavano davanti un giovane elefante e di fronte a quel simbolo di lunga vita e di infallibile memoria, il Khan giurava di compiere queste e quelle imprese. Dopo l'arricciatura dei capelli e il giuramento, il re mogol faceva un bagno in tre oli diversi: di noce, di palma e di cocco, poi si profumava e passava tre settimane a consultare oracoli e ascoltare astrologi e, durante quei giorni mantici, toccava solo oggetti di ferro. Se le stelle e i presagi erano propizi, il Gran Mogol, con sette tuniche dalmatiche, partiva per la guerra.
Così Akhbar Khan arrivò davanti alla collina chiamata Chittor e la assediò per un anno sotto il sole, sotto le grandi piogge e un'altra volta sotto il sole e quando il Gambhiri dalle acque azzurre rimase in secca i luhar si consegnarono alla clemenza del Gran Mogol.
Il Gran Mogol, contrariamente a quanto si pensava, non ordinò di sgozzare i luhar. Fece sedere i guerrieri sconfitti sulla collina deserta e impose loro cinque divieti che i guerrieri accettarono pronunciando una sacra e solenne promessa secondo il rituale che creava, conservava e differenziava le caste e le sottocaste in India.
(Molte caste nascono per esclusione, iscrizione a un mestiere, a un'arte o a un lavoro e, generalmente, la casta così nata promette, nel caso di ascrizione per punizione, di attenersi alle proibizioni, le quali diventano quindi "volontarie", a guisa di voti religiosi; in tal modo, secondo Kane, si otteneva "che una casta si autocontrollasse per evitare il sacrilegio e lo spergiuro, peccato destinato a ricadere su tutta la casta, che sarebbe stata punita nella sua totalità per una sola violazione individuale").
I luhar, davanti al Khan, accettarono di non allontanarsi dalle strade, di non salire mai più a Chittorgarh, di non attraversare il fiume Gambhiri, di non costruire case durature, di non attingere acqua ai pozzi e di non cantare
Ruppero sulle ginocchia le lance di bambù i luhar sconfitti, sotterrarono i morti e si incamminarono sotto una luna enorme e gialla...

Sono passati quattrocento anni da quel giorno.

Adesso, in virtù della legislazione del Congresso indiano sulle caste, il Pandit Nehru è andato a Chittor e ha ricevuto sulla porta di Chittorgarh i tremila guerrieri discendenti degli antichi Godulia Luhar che ancora percorrevano le strade senza allontanarsene;  ha annullato i divieti di Akhbar Khan e i luhar hanno ritirato le sacre promesse e sono entrati nella fortezza con le loro lance nuove, hanno attraversato il fiume in barca e coi carri, hanno bevuto l'acqua dei pozzi, hanno messo il primo mattone di una casa a Chittor e uno di loro ha cantato una canzone, una canzone d'amore e di guerra, la stessa che quattrocento anni prima cantava ogni luhargi che partiva in cerca di battaglia e di bottino...

Tra tutte le proibizioni e promesse, credo che la più dura da mantenere sia stata quella di non cantare. Provare amore e non cantare. Sentire gli uccelli che cantano e non cantare. Sentire la gente che canta per strada e non unirsi al canto. Tenere in braccio un bambino appena nato e non potergli cantare, madre, una ninna nanna. Che labbra buie con quattrocento anni senza canzoni! Se ho raccontato la storia dei luhar, di cui si parla in questi giorni sui giornali, è solo per questa ragione: perché dopo quattrocento anni di sete, di sete di canzoni che forse è ancora peggio della sete d'acqua, qualcuno canta a Chittor... Non c'è mai stato un re più crudele di Akhbar Khan, il Gran Mogol di Delhi.>> (..di Alvaro Cunqueiro) - Tutti i diritti riservati agli eredi)


A voi che mi ascoltate, se alla fine il mio racconto è stato questo, sappiate che io canto fantasie, le saghe eroiche e le bellezze di un fiero popolo e della sua arte, compresa di bugie e dolci inganni.

Può esser che realtà non sia pur vera, di questo me ne scuso ma così è giunta alle mie orecchie e alla mia gola, nel divertirvi io mi riscatto, e ad incantare un pubblico  ‘sì attento, è facile oltremodo,..... ed io l’ho fatto!

E se a seguirmi ancor continuerete, non due, ma mille storie come questa ascolterete..................

Africa in Bianco e Nero - Inseguendo l'acqua

Burkina Faso - BENIN


L’AFRICA DEL BIANCO E DEL NERO




LA VIA DELL’ACQUA

Inseguendo l'acqua


Il mio vecchio amico Sado Diarra, cosi esprimeva il pensiero dei Bambara riguardo ai Peul:

“I Peul sono un miscuglio sorprendente.

Fiume bianco nel paese dalla acque nere,
fiume nero nel paese dalle acque bianche,
sono un popolo enigmatico che degli avvenimenti capricciosi hanno condotto dal sol levante e sparso quasi dappertutto, dall’est all’ovest.”
                                                                                                                                   (Amadou Hampaté Ba)




I Peul possono essere considerati il più grande gruppo nomadico del mondo.
Chiamati Fulani dagli Inglesi e Fellah dagli Arabi, abitano tutta la regione del Sahel, in 17 paesi, dal Senegal al Sudan. La loro popolazione globale è stimata intorno ai quindici milioni.
Attualmente comprendono un gran numero di diversi gruppi che sono stati conquistati e diventati una parte dei Peul durante la diffusione dell’Islam.                   (Enza SpinapoliceDipartimento di Scienze Storiche e Archeologiche dell'Antichità- Università di Roma "La Sapienza")





Il caldo è asfissiante, il villaggio polveroso, la savana piatta e deserta. 
Carretti e muli in lontananza si avviano lenti al giorno di mercato, colorati dei vestiti delle donne, adornati di secchi e stuoie, legna e paglie.
       
E’ giorno di mercato nella città di Gorom Gorom, ma i Peul sono in viaggio da una vita, quella che li rende vaganti e liberi per l’intero Sahel, alla rincorsa dell’acqua: “Dio ha creato un paese pieno d’acqua perché gli uomini possano viverci, un paese senz’acqua perché gli uomini abbiano sete, e un deserto: un paese con e senza acqua, perché gli uomini trovino la loro anima”- recita un proverbio Tuareg – e questo popolo ne ha fatto l’essenza della sua esistenza.


I loro ricoveri ad igloo, di stuoie, erbe e fili, ciascuno circondato della propria spinosa intimità, sono stabili appena sufficientemente a farli ripartire alle prime pioggie, all’inseguimento dei verdi pascoli nigeriani per il loro bestiame, ricchezza della loro vita, scopo intrinseco del loro girovagare.

                      
Oggetti semplici compongono le fasi dei loro vagabondanti riti quotidiani: pestelli, mortai, tegami di diverse dimensioni, tutti a portata di mani forti e giovani, energiche e vibranti.


Colpi ritmici e decisi, suoni che si perdono nelle nebbie polverose della savana, vapori stagnanti e offuscati del rimestìo degli zoccoli bovini, mescolate al musicale trotto asinino, o al silenzioso passo felpato dei cammelli.


Splendori di perline colorate ed alluminio adornano il viso delle donne e delle adolescenti, per esaltare tutta l’innocenza del loro essere fanciulle, fiere delle loro preziosità, totalmente inconsapevoli dei segni marchiatori e devastanti impressi sul loro volto a riprova di un’iniziazione tanto incosciente quanto vincolante.


 

Un secolare Baobab esulta nell’aere piatto della savana diramando le sue sclerificate membra verso il cielo. Da qui si estraggono elementi vitali: spezie per il cibo e accessori per cucinare. 



Alle sue scavate e vuote pendici ragazzini imitano la sua forza e imponenza compiendo movimenti aggraziati e tenaci, mentre il bestiame ormai dissetato disordinatamente lo cinge, indifferente della sua immobilità.

Africa in bianco e Nero - La Via dell'Acqua

Burkina Faso - BENIN


L’AFRICA DEL BIANCO E DEL NERO

LA VIA DELL’ACQUA

Gocce volanti


Aeroporto: gente che va e viene, si ferma, fuma, è in fila aspettando pazientemente il proprio turno, un’unica grande sala, pochi negozi, peraltro semplicemente sbarrati. Si parlano lingue diverse, si ascolta differentemente, ci si saluta.

Al di là del vetro o del filo che tiene lontani gli avventori, al centro del Gate degli Arrivi piccole folle aspettano, con i loro cartelli rizzati: “Hotel …”, ”Meusieur ….”,  “Agency….”; individui che fino al momento dell’incontro con l’altro restano anonimi, ma che all’arrivo dei cari avviano scene di ritrovata gioia, in qualche caso anche simpaticamente starnazzante, che inevitabilmente fanno cedere alle lacrime.
Emozione di un trovarsi o ritrovarsi, condivisione senza parole di una felicità realizzata, fiume di allegria trasparente.

A fianco, poco distante, c’è l’entrata delle Partenze, spazio molto più piccolo, quasi angusto, come se la riservatezza dell’abbandono non richiedesse più che un fazzoletto di superficie. Quel pezzettino di stoffa che serve ad asciugare le lacrime del distacco, della lontananza, della temporanea perdita. Quello che si lascia è tutto lì, concentrato nelle fuoriuscenti gocce limpide sul viso, che rimarranno a rigare il volto il tempo necessario prima della loro completa e rapida evaporazione, alla temperatura di oltre 30°C.

Aeroporto di Tripoli, sala di attesa per i viaggiatori in transito: il fumo di sigaretta penetra nella pelle, arrossando gli occhi. I più sensibili cedono all’odore acre e a quel fumo oscurante, lacrimando nell’impossibilità di fuggire.
Storie di gatti si alternano a pezzi della nostra vita, risate squillanti fanno spuntare ben più cristalline gocce ai nostri occhi.

Ma non sono gioiose quelle sparse da un’intera famiglia anglosassone, madre, padre, bimbo e bimba, di fronte a noi, racchiusi in quello che sarà soprannominato ‘l’angolo degli emotivi’. Piangono a dirotto, stretti l’uno all’altro, disperati, senza il conforto di nessuno, se non del loro stesso calore e della loro enorme afflizione.
Si sa che noi Italiani siamo gli Uomini delle cause perse, i Paladini del mondo, e saremo i primi a sapere della loro condizione di transitati dannati: un’intera famiglia inglese, diretta in Sudafrica, che non può ritirare né cambiare soldi, perché hanno solo la carta di credito. E non possono uscire. Due giorni in aeroporto, senza potersi affacciare sul piazzale, senza dormire, senza mangiare.
Il tutto sotto lo sguardo inquisitore di un Gheddafi sbeffeggiante.

Ma dal transito si esce, in un modo o nell’altro, è solo questione di tempo africano, e come per gli inglesi, ci si può tornare anche abbastanza velocemente: già librati nell’aria, i motori rumorosi e poco rassicuranti del nostro aereo ci impongono un nuovo atterraggio.

E allora sono tutte nostre le lacrime di sconforto…….

FEMMES “BATISSEURS” d’Afrique

Burkina Faso - BENIN


L’AFRICA DEL BIANCO E DEL NERO





FEMMES “BATISSEURS” d’Afrique




Ormai è consuetudine che io riservi la prima attenzione dei miei viaggi alla parte femminile del pianeta che sto visitando. Forse per una presa di coscienza tardiva di me e della mia condizione sessuale, o semplicemente come scriveva un cinese, perché le donne sono l’altra metà del cielo ed essendo io una di loro mi sento con queste solidale: in un mondo prevalentemente maschilista – e non maschile – non si può sorvolare su una realtà così femminilmente conclamata.


E, soprattutto, quando la mia attenzione è catalizzata sulle donne riesco anche a percepire le variegate sfumature del mondo degli uomini, personaggi che molto spesso sono ai bordi delle pagine dei miei scritti pur essendone protagonisti: come nello Yemen, sono uomini coloro che trascorrono la giornata a masticare allucinogeni, o in Africa, quelli che riflettono sotto i grandi alberi fumando la pipa o intagliando legni, o giocano all’ombra dei camion a mancala, o sono nei campi a preparare il terreno per i lavori delle donne.


Ho visitato troppe nazioni in cui la figura femminile spiccava già in risalto poco oltre l’aeroporto: a trasportare sulla testa ogni sorta di manufatto, dalla legna, all’acqua, al cibo. Sembianza così tanto strana e inconsueta per noi occidentali che diventava immediatamente oggetto di considerazione fotografica alla stessa stregua di un animale sconosciuto, forse per via del colore diverso della pelle, o perché costituisce un bel soggetto fotografico in contrasto con la nostra realtà, o ancora perché vogliamo catturare in un colpo solo tutte le sue espressioni di vita, anche le più disperate.


La mia personale consapevolezza nei confronti delle donne l’ho avuta all’inizio del viaggio nello Yemen, quando mi sono resa conto che fotografare umani veli neri non esprimeva l’effettiva condizione vissuta da quel mondo femminile silenzioso, ma evidenziava solo l’ apparenza oscura di un modo di essere donna per poter sopravvivere ad un pianeta maschile. La stessa sensazione l’ho ritrovata in Iran, dove l’obbligo del velo può rappresentare per colei che lo indossa quell’unico spiraglio di libertà conquistata e sottratta ad un dettato religioso troppo rigido.


Questi sono alcuni dei tanti motivi per i quali nelle mie foto sono rarissime le immagini femminili, dei loro splendidi volti e delle loro magnifiche espressioni. Mi calo sempre più spesso nella loro situazione di ‘centro dell’attenzione’ così tanto da farmi sentire strana se analogamente dovessi puntare l’obiettivo contro me stessa. Questa sensazione sgradevole mi permette di non rammaricarmi troppo se non lo faccio, anche se ho una forte tentazione anch’io di metter mano all’oggetto immortalatore. Nei casi in cui fotografo un soggetto femminile, è solo per ricordarmi una percezione legata a quello scatto, o per il piacere di donare alle donne disponibili che incontro un po’ di gioia ai loro volti mai specchiati nella realtà, e che molto spesso non conoscono la frivolezza del compiacersi dinanzi alla loro espressiva immagine. Sono sempre stata ripagata per questo, sia che io abbia scattato o no la foto.


Questo del Burkina-Benin non è stato il mio primo viaggio in Africa, ma ovunque in questo continente ho avuto modo di constatare che, sebbene i lavori e gli incarichi siano diversi, l’atteggiamento delle donne nei confronti della Vita è totalizzante. Il procreare, l’accudire i propri figli, preparare i pasti, coltivare e vendere povertà, governare l’ambiente familiare, curare il bestiame, soddisfare i desideri matrimoniali sono tutte azioni che diventano il quotidiano scorrere delle giornate e degli avvenimenti, raccontati al mercato, vissuti nell’ambito dei villaggi, condivisi con chi si ha vicino, o nella solitudine dello scorrere delle ore.


La Maison du Brasil di Ouidah ci accoglie, in collaborazione con il Musée de la Civilisation del Canada, con una mostra sulla donna africana: uno sguardo puntuale su alcune condizioni femminili in Africa e nel mondo. Colleziono un altro libro da aggiungere alla mia biblioteca personale sulle donne, un altro piccolo pezzo di bagaglio culturale che peserà nella mia esistenza, ma che non sarà gettato neanche quando la schiena mi si incurverà come la più dritta e slanciata donna africana. Realtà, quest’ultima, che per adesso è solo un sogno.


E qui, nella Terra del Burkina F. e Benin la Vita è sostenuta da colei che porta sempre con sé il suo essere donna, l’essere madre con il bimbo in ventre o sulla schiena, l’essere moglie, svolgendo con le parti del corpo tutte le funzioni della vita e dell’amore, per 20 ore al giorno.
E’ colei che fatica, che si sacrifica, che gioisce, che caricandosi il peso del Biloko, la cesta che contiene i suoi strumenti quotidiani, sfama l’Africa pur non avendo nulla.


Fiumi di parole travolgono le donne africane sull’analisi della loro condizione, del ricercato senso di giustizia, dei diritti e dell’ uguaglianza, della presa di coscienza, ma è sicuramente una donna, maliana d’origine, che denuncia un’altra Africa, quella che non si scuote, quella contro la globalizzazione, contro l’egemonia di un potere straniero che ha violato l’immaginario politico e sociale di democrazia e cambiamento di tutti quei Paesi Africani che si sono liberati dalla colonizzazione, e che però sono stati nuovamente soffocati dagli interventi occidentali e da quelli dei Paesi potenti. 


Ma qual’ è la ricchezza di questi due Stati, in graduatoria competitiva per gli ultimi posti nelle classifiche mondiali per PIL, per istruzione, per sanità?
Il ‘benessere’ lo si vede dalla loro economia sociale, i mercati, che si caratterizzano più come luoghi di incontro che di scambio; dal loro sistema agricolo, che brucia la savana alla ricerca di uno spazio dove poter coltivare; dalla loro comunicazione sociale, favorendo il sorriso di una madre che si allarga al tuo saluto quando fai un puffetto al figlio; dall’indipendenza, con gli scheletri ancora esistenti di un genocidio razziale legato alla tratta degli schiavi; dalla loro economia finanziaria, con la moneta nazionale legata al cambio fisso di una moneta europea; dall’affermazione dei diritti umani, sacrificando oggi solo il mondo animale e non più quello umano per i loro riti propiziatori e religiosi; dalla compenetrazione della globalizzazione, che favorisce l’evoluzione della donna attraverso l’uso di mezzi tecnici e tecnologici, quali cavalcare la moto o l’uso di internet o del telefonino, contemporaneamente a vederle girare nude per il Paese.


Del loro patrimonio, questi popoli non hanno ricchezza da vendere o per la quale essere depredati o tenuti soggiogati dagli aiuti internazionali: i relitti dei manufatti occidentali che costellano le campagne, la savana, il paesaggio rurale sono una conferma del fallimento cooperativo istituzionale e straniero.
Strutture abbandonate laddove anche la casa in paglia e fango assume maggior valore umano rispetto al loro più solido cemento; composizioni abitative e sociali di legno e paglia che resistono al correre del tempo e delle invasioni, per una quotidiana sopravvivenza che si chiama libertà.


La denuncia di Aminata Traorè nei suoi scritti è chiara e forte contro il dominio francese e l’invasione globalizzata attuata dai potenti del mondo, lanciando una speranza sulla riaffermazione di un’altra Africa, quella che “…comincia, nelle circostanze attuali, ritornando a se stessi e sviluppando la capacità di dire <<io>> e <<noi>>.”  
E termina il suo saggio con una visione proiettata nel futuro: “ E’ il 2015. Siamo a casa di Altina, nella regione dei Dogon. Il cielo blu indaco è punteggiato di stelle che con la loro luce inondano le montagne, le pianure, le valli e i nostri cuori. I vecchi raccontano che nel passato il cielo non era così alto, e che le donne per divertire i loro piccoli raccoglievano le stelle e gliele regalavano. Che cosa non faremmo per loro? Da noi una donna che ha figli si sente ricca. Procreare vuol dire sopravvivere a se stessi, garantire la continuità del gruppo, vincere la morte…”





E da qui comincerò a raccontare quest’altra Africa, quella del Bianco e del Nero, quella che i miei occhi hanno visto nello scorrere dei chilometri, nelle orme della sabbia, nelle statue dei musei di pietra e di granito, nelle sembianze umane e  animali delle maschere, negli scheletri vaganti, nella religione difesa, nelle onde dell’oceano, nelle pipe dei Re e nel riposo dei guardiani di baobab, nel vocìo dei mercati e nella cenere della savana.





Quest’Africa che il mio corpo ha vissuto, al di là del colore della pelle